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21 October 2016

Una pacifica transizione di potere

 
Sempre di grande profondità intellettuale, come al solito, Jeffrey Tucker — Why Refusing to “Accept” Election Results Causes Shock and Alarm — senza cadere nella retorica autocelebrativa della democrazia in un senso meramente superficiale.
(In scia, sul finale, ho apprezzato anche il suo vecchio pezzo sul deep state.)
 
 

13 July 2016

La struttura di incentivi

 
 
Puff, pant... maledetta attualità[*].
 
 
L'esito del referendum nel Regno Unito, come già prima l'ascesa di consensi per Donald Trump, ha riportato in auge le discussioni sui fondamenti della democrazia[1][2][3][4][5][6].
A voler essere populisti, si potrebbe riassumere che secondo questi parrucconi la democrazia è bella finché sono d'accordo col risultato elettorale, altrimenti "il popolo non era ben informato", "era preda della demagogia", etc, etc.
Un compendio più congruo e perìto è invero che, senza adeguata temperanza, sulla democrazia incombe la trasfigurazione in oclocrazia.
 
Scherzi a parte, ho cercato un po' in rete, ma non ho trovato esiti condivisi su una linea di demarcazione, nelle lunghe ed elaborate discussioni che pur non faticano a trovare problemi nel concetto stesso di democrazia[§], e che, esplicitamente o implicitamente, sembrano risolversi tutte nel Churchill de la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre.
Già Aristotele distingueva le forme di governo "buone" (monarchia, aristocrazia e, appunto, democrazia) da quelle "cattive" (tirannide, oligarchia e, appunto, oclocrazia) indipendentemente dall'estensione della consultazione decisionale (uno, pochi o, appunto, tutti).
Il presupposto comune a questo tipo di contrapposizioni è che esisterebbero criteri di legittimità diversi dalla volontà di un monarca, dalle decisioni di un consiglio di saggi o, appunto, dall'esito di un voto a suffragio universale; diversi, e più importanti.
L'idea, cioè, è prorpio che esistano dei diritti (individuali o — nel dubbio lo concediamo — collettivi) che, anche se a maggioranza, un'assemblea non ha legittimità a violare.
 
 
Una posizione di questo tipo può essere caratterizzata come giusnaturalista, in contrapposizione ad una giuspositivista.
 In quest'ultima, l'unico diritto possibile è quello positivo, ovvero quello concretamente osservato nei fatti: l'unica legge è la legge del sovrano — che sia una persona fisica (un monarca) o un'istituzione (un parlamento) — e non ha bisogno di alcuna legittimazione al di fuori della sua origine. In questa prospettiva il diritto acquista carattere meramente formale e, non essendo più questione di equità e probità, ma di semplice validità, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura direttamente come la scelta del criterio di validità per la legge [†].
In una prospettiva giusnaturalista, invece, esistono dei princìpî universali a cui il diritto positivo deve aderire per poter essere considerato giusto. Il diritto naturale [‡], però, è dato solo in termini di valori universali e generici: ad esempio il principio di non aggressione ("non uccidere") oppure il diritto di proprietà ("non rubare"). Si pone quindi il problema di dover tradurre tali criteri generali in leggi specifiche che fungano da riferimento quando i tribunali sono chiamati a giudicare casi concreti. Per questo, in prospettiva giusnaturalistica, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura come la scelta di un semplice regolamento, di una procedura contingente, che ha valore validante da un punto di vista pratico e formale, ma che non pretende di fungere da giustificazione della legge, e certamente non si pone al di sopra di essa.
 
 
Sulla base di quali criteri, dunque, giudicheremo la bontà di una forma piuttosto che un'altra del diritto positivo, della forma concreta che esso assume in uno specifico contesto storico e sociale? In prospettiva giusnaturalista, ovviamente, sarà in primo luogo il criterio di giustizia, il quale viene invece escluso di principio da una prospettiva giuspositivista, che non potrà che ricorrere ai rimanenti criteri di coerenza, chiarezza, certezza e coercibilità.
Cosa distingue, dunque, la monarchia dalla tirannide? la democrazia dall'oclocrazia? In prospettiva giusnaturalista la risposta è semplice, ed è una distinzione di merito: la monarchia è illuminata se il Re amministra la giustizia con saggezza, è dittatura se la piega al suo arbìtrio.
Può una monarchia essere migliore di una democrazia? Certamente, per un giusnaturalista: ad esempio se il Re è illuminato mentre il parlamento è corrotto e opera in maniera clientelare sulla spinta di lobby potenti.
 
Ma in linea generale, è possibile stabilire se la democrazia sia migliore, almeno tendenzialmente, della monarchia?
In questo caso, non potendo entrare nel merito della legge in vigore in una specifica democrazia o monarchia, il giudizio deve procedere analizzando la struttura di incentivi messa in atto da una piuttosto che dall'altra forma di esercizio del potere legislativo/giudiziario.
 
Ad esempio, un possibile argomento a favore della democrazia, rispetto alla monarchia, è che quest'ultima potrebbe essere più facilmente vittima degli arbìtrî di un singolo (il monarca) rispetto all'esito di una votazione di un'assemblea che coinvolge molti soggetti diversi (l'intera popolazione, o suoi delegati, etc, etc...).
Chiaramente il fatto di passare attraverso una delibera assembleare/parlamentare non è sufficiente a garantire che il voto non vìoli i princìpî del diritto naturale ed è dunque legittimo chiedersi se e quali limitazioni (ad esempio una costituzione), o sue modifiche (ad esempio tramite l'estensione/riduzione del suffragio, sulla base di determinati requisiti) o sue alternative (ad esempio attraverso l'esercizio del potere legislativo in forma anarchica[※]), possano introdurre ulteriori vincoli e/o incentivi affinché la legge risultante tenda ad inseguire maggiormente ai princìpî del diritto naturale. È legittimo chiedersi, cioè, se sia possibile migliorare, di quanto, e a che prezzo, le capacità di questa forma di governo a maggioranza nell'individuare, tradurre ed attuare i princìpî generali e universali del diritto naturale.
È difficile sopravvalutare questo aspetto e dunque giova sottolinearlo una volta di più: poco importa il wishful thinking dell'affidarsi alla buona fede, ai nobili intenti e all'integrità intellettuale del monarca, dei legislatori, dei giudici o dei funzionari; a nulla vale respingere le critiche ad un sistema sulla base del fatto che il suo particolare fallimento è attribuibile alla disonestà e all'egoismo di uno o più attori specifici in carica in quel momento: un sistema sarà tanto migliore quanto più metterà in atto feedback capaci di alimentare circoli virtuosi e di soffocarne i viziosi.
 
 
Consideriamo ad esempio il caso dei limiti al potere del legislatore posti da una costituzione: è ingenuo pensare che essi, semplicemente, verranno rispettati; che un governo non proverà a forzare i confini del suo potere solo perché così è scritto su un documento di nobili intenti. Da questo punto di vista non meravigliano i numerosi dibattiti, spesso oggettivamente capziosi, sulla costituzionalità o meno di questo o quel provvedimento.
In questi termini, l'idea della separazione dei poteri di Montesquieu sembrerebbe già meno ingenua: dividere il potere in funzioni da affidare a soggetti diversi dovrebbe innescare precisamente quei controlli incrociati capaci di limitare il reciproco arbìtrio. In realtà non è chiarissimo quali siano gli incentivi che dovrebbero indurre ciascuno dei tre soggetti istituzionali — legislativo, giudiziario ed esecutivo — ad agire in modo da impedire agli altri due di abusare del proprio potere e non invece, per esempio, ad agire di concerto in maniera da aumentare reciprocamente il proprio potere[¶].
Come ultimo esempio — per far riferimento a proposte avanzate recentemente nei dibattiti sollevati da Trump e Brexit — consideriamo il caso della restrizione del voto che lo conceda solo a chi riesce a superare un esame di educazione civica basato sulla conoscenza delle procedure e della forma delle istituzioni della propria nazione: che razza di incentivi potrebbe mai introdurre nel feedback elettorale una simile selezione, al fine di migliorare la "convergenza" del processo democratico verso il rispetto del diritto naturale? Piuttosto, se proprio si volesse introdurre delle limitazioni al suffragio universale, sarebbe più sensato, chessò, escludere o limitare in qualche modo il diritto di voto ai dipendenti pubblici, i quali hanno un palese conflitto di interessi nel votare leggi che prelevano risorse pubbliche per assegnarle a se stessi.
Più genericamente, il meccanismo delle periodiche elezioni dovrebbe imbastire proprio il principale feedback dei governati verso l'azione dei governanti, ma esiste tutta una branca della sociologia politica che va sotto il nome di public choice theory che ha messo ben in evidenza le numerose strutture di incentivi perversi presenti nei correnti regimi democratici: i feedback elettorali sono pressoché sterilizzati quando non addirittura invertiti (quasi sempre i fallimenti dello Stato hanno l'effetto nell'opinione pubblica di chiedere ancora più interventi statali) e in generale sono spinti ad emergere nelle posizioni di potere proprio i caratteri umani più approfittatori (l'accentramento del potere che fa gola a demagoghi e dittatori). Insomma, precisamente l'opposto di quel che si presuppone ingenuamente per un corretto funzionamento della cosa pubblica.
 
 
In questi termini una condizione anarchica rappresenta inevitabilmente la miglior struttura di incentivi immaginabile.
Non lasciatevi ingannare dalla sfera semantica di disordine e caos che si suole associare al termine anarchia: qui intendiamo riferirci a quella condizione in cui sono presenti una pluralità di soggetti paritari, privi cioè di un referente ultimo che possa accentrare su di sè e monopolizzare il potere sugli altri soggetti. Sembra una proposta radicale ed estremista, ma si tratta in realtà semplicemente di proseguire sulla strada che considera un progresso il passare da una monarchia ad una oligarchia per via dell'aumento dei soggetti coinvolti nel processo decisionale del potere; un progresso l'ulteriore passaggio da un'oligarchia ad una democrazia e ancora un progresso, almeno negli intenti, l'ulteriore introduzione della separazione dei poteri.
La competizione istituzionale che motivava, con una certa ingenuità, la separazione dei poteri di Montesquieu, in questo modo si realizzerebbe più efficacemente: poiché la pluralità di soggetti istituzionali sarebbero in diretta competizione per la stessa funzione, si instaurerebbero precisamente quei meccanismi concorrenziali che renderebbero davvero democratico, nel senso etimologico del termine, l'esercizio del potere.
 
 
Al di là del finale[◊], spero con questo post di aver almeno chiarito alcuni termini della questione e aver inquadrato il contesto in cui ha senso o non ha senso collocare le critiche e le proposte di modifica del regime democratico nell'attuale declinazione dello Stato moderno.
 

[*] Solite avvertenze, anche se questo post è prevalentemente un mio personale tentativo di rielaborare e tirare le fila.
 
 
[†] In una concezione positivista il potere legislativo, semplicemente, si pone al di sopra della legge stessa, sua diretta emanazione: ad esempio il diritto di resistenza, banalmente, non è contemplato. È significativo osservare che nel moderno stato di diritto il diritto di resistenza è formalmente escluso — a parte alcune eccezioni come, notevolmente, quella della costituzione tedesca.
[‡] L'uso del termine naturale non inganni: non si presuppone necessariamente che tali princìpî siano da ricercare nella natura, biologica, ecologica o etologica, né che rimandino ad un qualche stato originario della società umana. Esistono molte interpretazioni del diritto naturale (personalmente mi ritrovo piuttosto affine all'argumentation ethics di Hans-Hermann Hoppe, per quel poco che ne ho intuito) e l'unica cosa che le accomuna è essenzialmente il rifiuto che a fondamento della legge possano esserci solo la tipologia di fonti di produzione giuridica.
[※] In cui, cioè, più corpi normativi e più tribunali operano contemporaneamente e in competizione fra loro, come soggetti paritari e indipendenti. Si tratta di una possibilità tutt'altro che meramente ipotetica e teorica, anzi è precisamente la situazione corrente in contesti di diritto internazionale o di arbitrato fra privati.
[¶] Per una interessante trattazione della questione della struttura di incentivi si rimanda al capitolo 9 de Il problema dell'autorità politica di Michael Huemer, pubblicato di recente in italiano da liberilibri.
[◊] messo più per completezza espositiva che davvero per argomentare; del resto quella anarchica è una concezione del potere troppo fuori dagli schemi a cui siamo stati abituati a pensare, in cui invece l'ordine e la pace sociale potrebbero essere raggiunte soltanto attraverso l'imposizione coercitiva di un leviatano, unico e super-partes.

26 June 2013

Democrazia /6 — Perché questo qui è persino peggio di quello là

Questo qui, ovviamente, sarebbe Grillo, e quello là, manco a dirlo, Berlusconi. E il perché ce lo spiega lo Smeriglia, ormai qualche giorno fa.
Mi è già capitato di dire che Grillo rappresenta l'espressione più stridente della contraddizione profonda del concetto di democrazia, e nonostante ciò pare resti una contraddizione invisibile: lo Smeriglia sembra non accorgersi che le critiche che volge a Grillo — il suo ergersi a paladino del bene comune — sono critiche al cuore stesso della democrazia, che per sua stessa definizione vorrebbe rappresentare lo strumento per raggiungere il bene comune, altrimenti sarebbe dittatura della maggioranza; che chiunque si candidi, chiunque vada a votare, lo fa — nella più nobile e ingenua delle ipotesi — per il bene comune.
(Sia chiaro, ho preso di mira lo Smeriglia perché pare una persona intelligente e acuta, ma si tratta di una miopia del tutto generalizzata, soprattutto a sinistra.)

17 March 2013

Democrazia /5 [era: La democrazia per la scienza]

Scopro più o meno per caso Infinite forme bellissime e meravigliose, blog fresco di nascita, su cui mi capita subito di leggere, in maniera del tutto scorrelata ma perfettamente in scia con gli ultimi miei post, che ci sarebbe una evidente e profonda differenza fra democrazia e dittatura della maggioranza. Ma forse il caso è solo apparente, perché il pretesto di quel post è lo stesso da cui era partito questo mio thread, ovvero il ruolo della democrazia per la scienza; fatto sta che mi s'offre, senza nemmeno chiederla, una risposta alternativa a chi invece si richiamava alle costituzioni per scongiurare le prevaricazioni della maggioranza e poter continuare a difendere la democrazia.
Tale risposta alternativa, però, è completamente sott'intesa e, almeno per me, tutta da chiarire: quale sarebbe la differenza, per non confonderle, fra democrazia e dittatura della maggioranza?
Per scongiurare il più possibile il rischio di passare per troll mi impegno in tutta la diplomazia di cui sono capace e mi arrischio ad un commento in calce al post. La diplomazia funziona, il rischio troll sembra scongiurato e segue nei commenti un interessante confronto. Provo a tracciarne un riepilogo qui, in modo da tenerne traccia nel filone democrazia.
 
Dunque la difesa della democrazia, in questo caso, prenderebbe la via della condivisione (chissà cosa sarebbe venuto fuori ad approfondire il tema della consapevolezza...). Obscura per obscuriora, per quanto mi riguardava, nonostante tale differenza venisse giudicata lampante da chi scriveva. Chiarito che il senso non era, banalmente, quello di maggioranza allargata, il più ampia possibile, emerge il concetto di "bene comune" come linea guida: le scelte veramente democratiche sarebbero quelle condivise nel senso di orientate al bene comune e non di una sola parte, fosse anche la maggioranza.
 
Tesi estremamente interessante, se non altro perché potrebbe essere il senso implicito di molte difese della democrazia, più di quello della costituzione di cui dicevo nell'altro post.
 
Esisterebbe dunque un criterio indipendente, rispetto a quello del voto, per giudicare la bontà (democraticità?) di una scelta politica: il bene comune.
Noto subito che, anche in questo caso, la difesa della democrazia passa attraverso il forte ridimensionamento del meccanismo di voto come elemento caratterizzante. Nel caso dei "costituzionalisti" — lasciatemi chiamare così, in questo discorso, coloro che sottolineano l'importanza della costituzione per giudicare "difendibile" una democrazia — il ridimensionamento potrebbe essere considerato parziale, sottolineando che il voto resterebbe l'unico meccanismo decisionale legittimo, pur nei limiti costituzionali. Nel caso della democrazia "per il bene comune", invece, il meccanismo di voto viene spogliato anche della sua circoscritta autonomia e su ogni sua decisione pende il giudizio di dittatorialità qualora non sia perseguito il bene comune.
L'unico modo che mi viene in mente per salvare la caratterizzazione della democrazia, in questo caso, è quello di sostenere che il voto sia un meccanismo privilegiato per l'individuazione del bene comune: quello di sostenere, cioè, che il voto rappresenterebbe il miglior meccanismo decisionale capace di far procedere la società verso scelte "per il bene comune".
Non conosco argomenti a favore di una simile tesi che vadano al di là di una concezione ingenua del consorzio umano; al contrario, è stata elaborata un'intera branca dell'economia, che va sotto il nome di public choice theory (che ha dato il Nobel a diversi economisti, fra cui il recentemente scomparso James M. Buchanan), la quale mette in evidenza precisamente gli innumerevoli incentivi, inerentemente connaturati al processo decisionale democratico, che portano inevitabilmente a scelte di parte, che favoriscono minoranze ben organizzate a danno di maggiornze capaci di diluire il danno a tal punto da rendere sconveniente l'attività di lobbying per rimediare a quel danno. Niente di più lontano, cioè, da un meccanismo di avvicinamento al bene comune.
 
Questo ordine di obiezioni, à la public choice, attaccano proprio quel genere di difese della democrazia che si rifugiano nella distinzione fra sistemi democratici, in concreto, e la democrazia ideale, in astratto.
Ma c'è un livello ancora più profondo su cui si possono muovere critiche ad una tale prospettiva: un livello che si lascia alle spalle quello pragmatico in cui ci si chiede se la democrazia sia efficace o meno per raggiungere il bene comune, ed è quello in cui si mette in discussione il concetto stesso di bene comune.
Ebbene, la mia tesi, la tesi dei libertari, è che non sia possibile, non dico definire, ma nemmeno delineare, un concetto di bene comune che non sia, in realtà, espressione di parte. Le preferenze, le scale di valori, sono inevitabilmente soggettive — di più, la stessa persona può, e molto spesso lo fa, cambiare preferenze nel corso del tempo; di più ancora, la stessa persona, nello stesso momento, assegna valori diversi a beni identici (cfr. rivoluzione marginalista). Ma anche senza scomodare i fondamenti della teoria del valore, l'idea che si possa, a tavolino, stabilire cosa è meglio per tutti, anche in un senso debole, paretiano, del termine, è un presupposto ingenuo, non solo in astratto, in contesti filosofici di ricerca delle fondamenta, o analogamente in contesti economico-matematico (e.g. di teoria dei giochi) di definizioni assiomatiche, ma anche e soprattutto in contesti concreti di scelte politiche reali.
La mia tesi, la tesi dei libertari, è che bisognerebbe spogliarsi della pretesa di poter decidere, noi presunti sapienti, cosa è bene per tutti, ed imporlo; è che bisognerebbe lasciare ad ognuno la libertà di fare le proprie scelte, con l'unico limite della stessa medesima libertà altrui, ovvero con l'unico limite del diritto.

21 February 2013

Democrazia /4

Il tweet dello Smeriglia che vedete qui di lato mi offre la sponda per ribadire che la democrazia, se dobbiamo difenderla, dev'essere qualcosa di diverso dalla mera legge della maggioranza (ma ancora nessuno è riuscito a spiegarmi cosa sarebbe).
 
Ma non è di questo che volevo parlarvi in questo post.
Il vero spunto per tornare a parlare di democrazie mi viene da questo articolo (su uno dei blog) del Post, Come vincere le elezioni con la tv, che recensisce NO, un film candidato all'Oscar che racconta del referendum del 1988 in Cile contro Pinochet. Io non so niente di storia, prendo per buono quel che si racconta in quel pezzo. E la storia che si racconta è una storia strana. Si intuisce che dovrebbe avere una morale, o almeno vorrebbe, ma non si riesce a capire quale. Tifiamo, ovviamente, per l'opposizione al regime dittatoriale, ma restiamo spiazzati dalla strategia adottata. La TV, il suo ruolo di strumento di evasione, ancor più in circostanze in cui evadere sembra avere il sapore dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, ancor più per noi italiani, reduci da un ventennio che non è nemmeno chiaro se sia finito o meno... la TV come circo del duo panem et circenses, dicevamo, è un po' l'emblema del male.
E infatti ci sono critiche alla tesi del film, dicono che non sia stata la TV a decretare il successo del referendum, anche se molti oppositori di Pinochet, allora, si spesero contro la partecipazione al voto, quale implicita legittimazione al dittatore.
Insomma, alla fine c'è il lieto fine, nel senso del risultato del referendum, ma è un lieto fine anche per la televisione? è un lieto fine per la democrazia?
 
Eppure dal mio punto di vista, direi dal punto di vista del libertario, è piuttosto evidente che tutte queste contraddizioni nascono semplicemente dall'ostinazione a voler difendere la democrazia, il voto, come qualcosa di sacro e salvifico, capace, da sola, di garantire pace e giustizia. Se ci si rende conto, invece, che si tratta di un meccanismo perverso di prevaricazione, che quel po' di giustizia e libertà che le società occidentali hanno raggiunto, rispetto ad altre epoche e ad altri luoghi, non sono il mero frutto della democrazia, ma sopravvivono nonostante essa, allora tutte quelle contraddizioni evaporano. Una campagna televisiva in stile pubblicitario può davvero spostare enormi masse di voti indipendentemente dalla direzione in cui le muove: la perpetrazione di Berlusconi da una parte, l'esautorazione di Pinochet dall'altra; le persone votano per mille ragioni diverse, ma quasi mai le ragioni principali sono la giustizia e l'equità sociale.
 
Non vi è nulla di magico, di nuovo, nel meccanismo di voto popolare, capace, da solo, di condurre ad una società migliore.

03 February 2013

Democrazia /3

Riprendo con questo post la discussione nei commenti al post precedente, riportando in particolare il mio personale percorso di lettura come risposta alla richiesta di Cristian di una possibile bibliografia d'attacco alle tematiche libertarie.
 
Essenzialmente ci sono due fronti su cui ci si può affacciare al tema: quello economico, da una parte, e dall'altra quello più propriamente etico e politico.
 
Sul fronte economico io sono partito con l'Economics for Real People di Callahan (se hai un ebook-reader, c'è anche una versione in PDF messa a disposizione dal Mises Institute), ed è stato in discesa sin dall'inizio. L'economia, secondo me, non è un fronte "caldo", non ci sono grossi pregiudizi da abbattere, c'è solo il grande vuoto di uno schema interpretativo coerente, capace di inquadrare quelli che altrimenti restano tanti modellini matematici più o meno scorrelati. La scuola austriaca provvede precisamente a questo, e il libro di Callahan ne costituisce una semplice introduzione, estremamente didattica. Proprio poco prima di Callahan avevo letto L'economista mascherato di Tim Harford — su suggerimento di Bressanini — e l'avevo trovato molto bello, esattamente come dice Dario. Ma dopo aver letto Callahan ti accorgi della differenza siderale: da una parte L'economista mascherato non ti lascia niente se non una serie di aneddoti e di spiegazioni di qualche meccanismo peraltro molto interessante (uno per tutti, il self pricing); dall'altra Callahan ti lascia uno schema interpretativo: la stessa differenza che c'è fra il donare pesci e l'insegnare a pescare.
 
L'altro fronte è senza dubbio il più delicato, e intraprenderlo sarà certamente un'esperienza tormentata (per questo il mio consiglio è comunque quello di partire con Callahan). Il problema, per quel che mi riguarda, è duplice: sia in astratto (la prospettiva è profondamente stravolta, i luoghi comuni da abbattere sono tanti e così radicati da non riuscire spesso nemmeno a riconoscerli come tali) che in concreto (non ho da suggerirti testi cristallini, con tesi condivisibili al 100% esposte con argomentazioni semplici e lineari).
I libri che hanno fatto seguito a Callahan sono quelli di Rothbard, L'etica della libertà e Per una nuova libertà, e quello di David Friedman L'ingranaggio della libertà (li ho tutti letti in prestito, ma di quest'ultimo di Friedman ne ho una copia che posso prestarti molto volentieri).
L'atteggiamento da mantenere è un po' quello di prepararsi ad assistere ad un attacco di sfondamento, mettendo in conto tutta la sua rozzezza. In particolare non dovrai pensare di trovarti davanti a dei trattati scientifici (né tantomeno al credo di una religione) con l'idea che si debba necessariamente accettare tutto in blocco e che dunque sia sufficiente il primo disaccordo per poter buttare all'aria tutto quanto.
Non lo ripeterò mai abbastanza: sono libri da costringersi con la forza a proseguire nella lettura; a partire dallo stile: sono opere scritte più di 30-40 anni fa, e certamente è un aspetto che si fa sentire. Ma anche nel merito delle questioni, spesso avrei da ridire — ancora adesso — sia sui metodi che sulle tesi. Tanto per dire: tutta la prima parte sul diritto naturale nelL'etica della libertà è piena, secondo me, di molte ingenuità a livello filosofico nella difesa del giusnaturalismo: anche qui, come in economia, partivo come una tabula rasa e ho dovuto integrare quei capitoli con le pagine di wikipedia sul positivismo giuridico (e lunghissime chiacchierate col mio amico-mentore) per inquadrare meglio il dibattito sul diritto e scoprire (molto, molto dopo) che sì, la posizione giusnaturalista, in fondo, è la mia, anche se certamente non per le ragioni descritte da Rothbard.
Ancora, non ricordo bene dove, Rothbard mantiene una posizione a difesa del diritto d'autore che non mi convince affatto.
E insomma, come dicevo, al di là delle varie tesi che si incontrano nel percorso, l'importanza di questi saggi è nell'usarli come arieti rispetto ai pregiudizi della "religione-stato" di cui non siamo nemmeno consapevoli di essere adepti. La loro importanza risiede soprattutto nel fatto che in essi vengono delineati degli scenari sociali che non devono necessariamente essere presi come l'unica alternativa ad una società democratica, ma che vanno considerati come la semplice dimostrazione che lo Stato non è l'unica possibilità: mi riferisco a tutte quelle cose — polizia, tribunali, giustizia, leggi — che non siamo nemmeno in grado di concepire senza uno Stato (o un dittatore). E l'effetto dirompente di queste letture non è tanto nel presentarci, in astratto, un concetto di diritto svincolato dall'istituzione statale, quanto proprio quello di mostrarci, concretamente, come potrebbe configurarsi, in maniera del tutto plausibile e consistente, una società in cui convivono diversi tribunali, diverse corti di giustizia, diversi copri di polizia, o agenzie di sicurezza, capaci non solo di catalizzare una convivenza sociale pacifica e una pacifica risoluzione dei conflitti, ma addirittura di offrire una di gran lunga maggiore (rispetto al caso democratico) garanzia per quei "deboli" di cui tanto spesso lo Stato si presenta, con grande illusione, come unico possibile difensore.

06 January 2013

Democrazia /2 [era: La democrazia per la scienza]

A volte commentare per iscritto in calce ad un post richiede più iniziativa, oltre che tempo e pazienza, che farlo a voce, en passant.
Sulla questione della democrazia, in particolare, ho avuto uno scambio di battute veloce (davanti ad una macchinetta del caffé, non davanti ad una birra).
Provo ad estrarne gli elementi più interessanti, senza pretendere di restare fedele alle posizioni, ché del resto non v'erano, chiare, delle posizioni.
In sintesi, si sollevava l'obiezione che la concezione di democrazia che attaccavo nel mio post fosse un po' un fantoccio argomentativo, perché — diamine! — era ovvio che non si potessero chiamare democrazia delle semplici decisioni prese a maggioranza, chessò (esempio tipico libertario, ma giuro che non l'ho tirato fuori io...!), di uccidere tutti gli appartenenti ad un'arbitraria minoranza.
E per fortuna!
Per fortuna delle minoranze, ovviamente, ma per fortuna anche della conversazione, perché con quell'osservazione aveva messo il dito precisamente nella piaga del concetto di democrazia: se non è la volontà della maggioranza a caratterizzare (e dare fondamento morale) alla democrazia... cosa lo è?
Il discorso, un po' confuso anche perché necessariamente breve per le contingenze dell'occasione, ha visto nominare il termine "costituzione" (che evidentemente fluttuava già nell'aria per via di recenti palinsesti della TV di stato), ma senza i lineamenti di un'argomentazione.
Personalmente, a voler difendere la "causa" della democrazia, avrei pronte delle riflessioni, i cui princìpî di base potrebbero essere racchiusi nella sfera semantica del termine "giusnaturalismo", ma — ovviamente col senno di poi — portano dritte dritte ad una società libertaria, non certamente "democratica".
Mi piacerebbe tanto, perciò, sentire voi, se avrete la pazienza, il tempo e l'iniziativa di commentare per iscritto: come vi muovereste da qui? riuscireste a tornare saldi sul concetto di democrazia? prendereste un'altra direzione? quale?

22 December 2012

La democrazia per la scienza

(Un altro post verosimilmente rubato a fabristol)
Questo recente post di Amedeo Balbi, Geek di tutto il mondo, unitevi! rappresenta una straordinaria cartina tornasole capace di mettere in evidenza quanto sia cambiata la mia prospettiva col libertarismo.
 
Qualche anno fa avrei condiviso ogni singola virgola di quel post, avrei partecipato totalmente al suo sentimento di indignazione e di sconforto e di impotenza nel rendersi conto una volta di più di quale accozzaglia di ignoranza e incompetenza fosse composta la nostra classe dirigente.
Qualche anno fa sarei entrato nel merito della discussione. Oggi mi rendo conto — non riesco a capacitarmi di come si possa non rendersi conto — che è il gioco stesso ad essere perverso.
Per restare nell'ambito del post di Balbi sulle politiche per la ricerca scientifica, anche assumendo un'indiscutibile competenza della classe politica, è davvero così ovvio che esistano risposte oggettive a tali questioni? Chessò, se sia meglio Marte o Titano?? Se sia il caso o meno di finanziare ancora per altri 40 anni la ricerca in teoria delle stringhe? E mi sono volutamente tenuto alla larga da temi "scottanti" come l'evoluzione, i cambiamenti climatici o le medicine alternative.
 
Qualche anno fa mi sarei schierato senza tema di errore a fianco di quelli come Balbi. Oggi mi rendo conto — non riesco a capacitarmi di come si possa non rendersi conto — di quale sia la contraddizione insita in una tale posizione.
Da una parte, infatti, siamo nel bel mezzo di un tipico processo di discussione democratica, da parte dell'elettore, delle politiche che i suoi rappresentanti eletti saranno chiamati a realizzare; dall'altra, quello stesso processo di discussione democratica viene implicitamente disdegnato, difendendo elitariamente un proprio punto di vista come migliore: l'argomento a favore di determinate politiche (per la ricerca scientifica), infatti, non si basa su un presunto principio democratico — "ah, questi politici, che non fanno quello che vuole la gente!" — ma su una presunta oggettività della tesi, che purtuttavia si caratterizza come paradossale, nel senso etimologico del termine di contro l'opinione comune: "ah, questi politici, che se saranno votati dalla maggioranza non faranno quello che è giusto fare".
Parlar male della sinistra non significa voler difendere posizioni di destra (lungi da me, i libertari sono in alto), però questa contraddizione profonda pervade tutto il pensiero di sinistra, dando ragione del termine radical chic: da una parte la pretesa di avere la ricetta giusta, di sapere come si devono fare le cose, e dall'altra l'aver accettato il processo democratico del governo della maggioranza. Se credi che le cose debbano essere fatte in un certo modo e non in altri, l'aver accettato il metodo democratico dovrebbe essere vissuto come una limitazione, soprattutto in un ambito, come quello della ricerca scientifica, in cui stai esplicitamente dichiarando che la maggior parte delle persone non sa cosa sarebbe meglio fare (giusto per ribadire che non voglio difendere posizioni di destra, questi ultimi non vivono questa contraddizione… semplicemente perché tipicamente ammettono senza troppe remore la propria indole assolutista e la predilezione per metodi autoritari).
Del resto si tratta di una contraddizione intrinseca di qualsiasi "dibattito" democratico: non puoi pensare che la politica giusta sia quella scelta dalla maggioranza e, contemporaneamente, che tale maggioranza non sappia quale sia la politica giusta — e tu debba istruirla a tal proposito.
 
E l'ambito scientifico da cui sono partito è solo il caso particolare di una condizione del tutto generale. E' precisamente la stessa contraddizione che si sta palesando, in maniera più stridente che "nei periodi normali", in questi tempi di grillismo e antipolitica. Quel sentimento radical chic di Balbi per le competenze scientifiche dei politici (ma sia chiaro, il libertarismo non ha cambiato la mia immagine scientifica del mondo, e ovviamente sono d'accordissimo con lui nel giudicare come rozze le competenze scientifiche dei politici, ma non è di questo che stiamo parlando) è lo stesso di coloro che criticano Grillo e il suo populismo (e, ugualmente, sia chiaro che non voglio qui minimamente difendere le più che variegate posizioni di Grillo). La democrazia è questo: governo della maggioranza (che sarebbe meglio chiamare minoranza meglio organizzata), che con la scusa dell'aver avuto il più dei voti si auto-giustifica nella prevaricazione sulle varie minoranze (che insieme sono la maggioranza meno organizzata).
Nei giorni scorsi di primarie del PD e parlamentarie di Grillo, la contraddizione era stridente e perforante, ovunque si leggesse. Riporto un solo link fra mille, un po' a caso, a mo' di casalinga di Voghera del web: il suo discorso gira completamente a vuoto, criticando le scelte dei candidati "dall'alto", "di partito", che sarebbero appunto per questo "non democratiche", ma allo stesso tempo criticando i modi di Grillo, cercando qualche ragione per poter dichiarare anch'essi "non democratici": perché non ci sarebbe un programma su cui l'elettore dovrebbe basare la sua scelta (l'elettore, questa figura mitologica del saggio che tutto pondera e tutto considera prima di consacrare il proprio voto), perché non ci sarebbe garanzia sulle procedure (e se invece questa garanzia ci fosse stata, sarebbe bastato questo a garantire un esito diverso? più saggio? più competente?). Alla fine il dubbio gli viene ("davvero non vedo molte ragioni per dargli torto"), insieme alla convinzione che non ci siano vie di scampo.
Ma il dramma di tutto questo è che nessuno si rende conto che è proprio la democrazia, a non offrire scampo; che è il gioco stesso che porta al baratro.
Perché? Perché io stesso non me ne rendevo conto, fino a pochi anni fa?
Forse perché non si riescono ad immaginare alternative. Forse perché l'unica alternativa alla democrazia che si riesce ad immaginare è una dittatura: la democrazia non è perfetta, ma è il meno peggio che abbiamo, si sente dire con rassegnazione vestita di saggezza.
Come l'adepto di una religione, che non vede nient'altro che il proprio credo. La religione di stato.

21 March 2010

tanto per dire

Il vero, grosso problema dell'Italia dei valori è questo. Non il personaggio specifico in sè, ma l'essere, l'IdV, facile approdo di quaglie d'ogni dove, con conseguenze che abbiamo già sperimentato sul campo (vedi alla voce Sergio De Gregorio).
Tutti gli altri problemi, solo l'ultimo dei quali è la parlantina rustica di Di Pietro, passano in secondo piano, stante il panorama politico italiano. Perchè il voto è ovviamente un compromesso e non ti basta citare un problema di una parte politica: devi anche convincermi che è peggio di quel che trovo da qualche altra parte.
 
Non ne capisco molto di politica, sono tremendamente ingenuo, ma il mio pensiero è questo: nonostante tutto, nonostante anche il grosso e serio problema delle quaglie, continuo a pensare che, in questo momento, un voto a Di Pietro sia il segnale giusto. Il PD ha smesso di rappresentare un'alternativa possibile, viste le numerose manifestazioni di voglia di inciucio; votare qualcuna delle altre alternative non si distinguerebbe molto dal non-voto.
E del resto la dimostrazione più chiara che l'IdV rappresenta in questo momento la valorizzazione migliore del proprio voto viene proprio da Berlusconi stesso e dalla suo rapporto chiunque ma non lui con Di Pietro (molto vicino, in realtà, al rapporto che hanno un po' tutti, con Di Pietro...).

07 July 2009

altro giro?

Ah, questi dannati post da scrivere in fretta e furia che poi scadono... :(
Questa volta la scadenza è l'11 luglio e il da farsi non è leggere uno shared-item o ascoltarsi un podcast, ma nientepopodimenochè iscriversi al Partito Democratico:
 
   —   ∴   —   
E' ARRIVATO IL MOMENTO. SIAMO IN MOLTI, MOLTISSIMI
Sogniamo un'Italia diversa,
crediamo nella cultura del merito, nella laicità della Stato, nella solidarietà, nel rispetto delle regole, nei diritti uguali per tutti, vogliamo liberare le energie migliori di questo paese e creare una squadra di persone che diano voce, forza, concretezza alle nostre idee.
IO CI SONO. E VOI?
Leggi l'intervista su la Repubblica.
   —   ∴   —   
 
Epperchémmai?
Ah, non chiedetelo certo a me, non so niente: non so perchè bisognerebbe farlo entro l'11 luglio e soprattutto non so perchè, davvero, bisognerebbe farlo.
Ogni volta sbuca fuori questa storia della nuova possibilità, della nuova occasione da non perdere, del questa è la volta buona. E ogni volta finisce sempre che il PD si riveste da pesce pilota del PDL. Ed io sinceramente sono un po' stanco, perdonate la volgarità, di essere preso per i fondelli.
Però questa volta ne parlano in tanti e ben referenziati: Chiara, Corrado, Marco, anche Andrea nei suoi shared-item... (cfr. anche l'UAAR).
Da quel che ho capito, si tratterebbe di iscriversi al partito per poter votare all'elezione del segretario, prima ancora di pensare alle (eventuali) primarie, per poter dar peso ad una figura non governata, perdonate il neologismo, dalle solite logiche di partito. Prima di sentir parlare di Ignazio Marino, pensavo a Bersani ma, come ha detto Marco togliendomi le parole di bocca la gente che oggi sta dietro alla sua candidatura non mi piace mica tanto: manco a dirlo, sono proprio quelli che dieci anni fa, quando era ministro, lo contestavano per le sue politiche troppo liberali!
 
Non so, ma ci sto pensando su. Epperò devo sbrigarmi a decidere.
 
Per iscriversi al PD basta presentarsi con un documento al circolo più vicino al luogo in cui abiti. Una volta iscritto invia un'email all'indirizzo ignazio.marino@gmail.com.

12 February 2009

libertà di coscienza

Dopo l'irrefrenabile delirio, continuo a sentire in giro ancora tanta confusione sulla questione che, nonostante la morte di Eluana, non può certo dirsi chiusa.
A partire dallo stesso Mannheimer che sbaglia clamorosamente sondaggio, chissà se per ingenuità (per non dubitare della sua probità) o sofisma (per non mettere in dubbio la sua intelligenza). La domanda, infatti, non doveva essere "cosa sarebbe giusto fare nel caso di Eluana?", ma "in una situazione simile, vorresti poter decidere tu?". E chissà se anche di fronte a questa domanda, la vera domanda, l'Italia si ritroverebbe spaccta.
Il punto della questione, infatti — ed è incredibile come si sentano in giro ancora dibattiti accesi che mancano completamente il punto — non è affatto quale sia il protocollo da seguire in determinate circostanze (che già abbondano i casi, in Italia, in cui il legislatore pretende di sostuirsi al medico per decidere, in generale, cosa sia meglio fare in ogni singolo caso), ma è se sia possibile lasciare a ciascun individuo la libertà di scegliere se accettare o meno una cura (così invasiva sul proprio corpo).
Il punto della questione continua a non essere compreso dappertutto, tanto che anche in parlamento, al momento di votare un disegno di legge talebano fin nella sua forma raffazzonata di una semplice ed unica frase, si invoca l'inalienabile libertà di coscienza.
Ma vi rendete conto della contraddizione, della violenza che dobbiamo subire? C'è una legge che vuole privare il cittadino di un diritto e vuole obbligarlo a subire una violenza precisamente per il fatto di non poter reagire e non poter provvedere a se stesso... e ci si appella alla libertà di coscienza? La libertà di coscienza in parlamento per privare della libertà di coscienza in ospedale?
E' ancora delirio, è insulto all'intelligenza, dove sono tutti quanti? Vi siete bruciati il cervello? Giornalisti? Opposizione? Persino Di Pietro si è appellato alla libertà di coscienza in parlamento.
La potenza del Vaticano è immensa ancor più per questo, che per i fili diretti con cui riesce a muovere Berlusconi, per il fatto di obnubilare completamente le nostre coscienze, per la sua subdola capacità di insinuarsi nella nostra testa trasformandoci da dentro, facendoci apparire normale la violazione delle più normali libertà dell'individuo.

07 February 2009

frastornato

Sta accadendo tutto in fretta, tutto insieme.
Mancano le parole. Le parole non sono abbastanza.
Per riassumere: in contemporanea l’Italia ha introdotto la censura a tappeto di Internet, le ronde armate legalizzate, il divieto di curare gli immigrati clandestini acciocché spargano ovunque la tubercolosi e la lebbra, e in più è diventata una repubblica integralista religiosa sul modello dell’Iran islamico, con il Vaticano che dice al governo cosa deve fare e il governo che lo fa anche a costo di minare le basi della democrazia, come la separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario.
Travaglio nota che, ora che ha costretto Napolitano a non firmare il decreto incostituzionale su Eluana, Berlusconi si e' semplicemente spianato la strada per il prosieguo: se c’era qualche speranza che il Quirinale bocciasse la legge-porcata sulle intercettazioni o la controriforma della giustizia varata ieri dal Consiglio dei ministri o il nuovo pacchetto sicurezza che legalizza le ronde padane e impone ai medici di denunciare i malati clandestini, ora quelle possibilità si riducono al lumicino.
Fabristol osserva l'immensita' del potere del Vaticano: Berlusconi ha l’intera opinione pubblica contraria e parte dei propri alleati (fino a qualche giorno fa infatti non si era mai esposto sulla vicenda) eppure tira avanti.
 
Tutto in un giorno solo, un vero colpo di stato con in piu' il sapore di bassifondi ove non v'e' piu' traccia d'alcuna umanita'.

17 January 2009

Maledetto II


Giotto, Cappella degli Scrovegni
(fonte wikimedia)
Vi avverto, questo è un altro post gonfio d'odio.
La scintilla contingente è stata la notizia che la casa di cura di Udine ha ritirato la disponibilità ad accogliere Eluana Englaro per attuare la sentenza che autorizza la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiale: l'esito di un atto eversivo, di una vera e propria sospensione della democrazia a seguito di un'intimidazione in perfetto stile mafioso, ma proveniente da un ministro della repubblica.
La polveriera in realtà è da un po' che continuava a gonfiarsi. Come quando si nascondono di fronte alla Storia con una sfacciata ipocrisia. O come quando credevo di aver fatto un parallelo "anacronistico" rispetto alla richiesta del Vaticano di di non depenalizzare l’omosessualità, e invece ho scoperto che non hanno mai firmato neppure la convenzione contro la violenza sulle donne. O ancora come quando si viene a sapere della disparità di trattamento fra presunti pedofili con o senza sacramento dell'ordine (da leggere fino in fondo quest'ultimo link, merita davvero).
Ma l'odio contro questa Chiesa cresce ogni singolo giorno, quando calpesta i nostri diritti e si intromette nelle nostre vite in nome di principi astratti e medievali; quando continua, insistente e martellante, nelle sue campagne di terrorismo psicologico sulle donne.
Ma i cattolici adulti dovrebbero far sentire di più la propria voce e gridare, forte, che la loro Chiesa ormai non ha più niente a che fare col Cristo di cui vorrebbero professare la fede. Il quale, al contrario, si scaglierebbe oggi contro questo Papa e questi vescovi con la stessa veemenza con cui si scagliò contro i mercanti del tempio.

09 December 2008

se una sera a cena un giornalista


Dai, raccontaci un po', come fate voi giornalisti a tenervi informati su quel che succede? Noi leggiamo i giornali, ma voi?
Be', innanzitutto c'è una suddivisione degli ambiti: chi si occupa di cronaca nera, chi di cronaca giudiziaria, chi di cronaca politica...
— E quello che si occupa di cronaca nera cosa fa, telefona ogni 5 minuti alla polizia?
Successo niente di nuovo? No. Successo niente di nuovo? No. Successo niente di nuovo? No...
Be', ci sono gli informatori: ogni giornalista ha il suo contatto alla polizia...
Quindi è la polizia, che vi chiama, quando succede qualcosa...
— Ma chi glielo fa fare, di chiamarvi ogni volta che succede qualcosa?
Be', la polizia potrebbe essere interessata al fatto che venga divulgata una certa notizia...
Come quando fanno i servizi sull'esito di una loro operazione...
— E' un po' come farsi pubblicità... i giornalisti fanno le marchette!
Be' potrebbero anche parlare male della loro operazione...
— Sì, così poi non ti chiamano più la volta dopo...
Sì, c'è una specie di rapporto di fiducia fra informatore e giornalista: oggi io ti pubblico un articolo che ti elogia, domani mi dai l'anteprima di una notizia di cronaca...
Ma così non ci saranno mai articoli negativi sulla polizia...
— ...e su tutti quelli da cui hai informatori: se vorrai mantenerti sulla notiza, devi solo dare le notizie buone!
Be', sì, la regola pratica è che se una notizia si pubblica è perchè c'è qualcuno a cui interessa che venga pubblicata.
Quindi una notizia "cattiva" su di te si pubblica solo se la viene a sapere un tuo rivale...
— Sì, se anche il giornalista lo venisse a sapere "da solo", non la pubblicherebbe per non "bruciarsi" il suo informatore...
Cioè dev'essere un altro giornalista che riceve la soffiata dal "rivale"...
— Altrimenti comunque il giornalista perderebbe la fiducia del suo uomo...
Sì, succede più o meno così...
Ma è incredibile questo meccanismo! Chissà allora di quante cose non veniamo e non verremo mai a conoscenza!
Eh, sì. L'unico modo che ha un giornale per poter pubblicare notizie "scomode" è quello delle inchieste: si invia ad indagare un giornalista "esterno" all'ambiente, che non ha alcun rapporto di fiducia da difendere...
E i giornali a tiratura nazionale? Se io, fonte, so che comunque tu sei un giornalista di Repubblica o del Corriere, che il giorno prima ha pubblicato un'inchiesta che mi ha danneggiato, anche se non sei stato tu materialmente a firmare l'articolo, io non ti do più fiducia!
Il giornalista locale cercherà di chiamarsi fuori dicendo che non ha potere di bloccare le pubblicazioni di un suo collega...
Certo che è un equilibrio molto fragile: è incredibile come possa mantenersi vivo un giornalismo "sano e indipendente" se questi sono i meccanismi in gioco...
Sì, è un equilibrio delicatissimo. A salvare le cose dovrebbe entrare in gioco una solidarietà corporativa...
In che senso?
Per esempio: in una conferenza stampa convocata da un politico, un giornalista prende la parola e fa una domanda scomoda al politico stesso. L'entourage del politico proverà quindi ad allontanarlo e magari ad impedirgli l'accesso le volte successive. Gli altri giornalisti dovrebbero allora far fronte comune ad un tale comportamento: ad esempio minacciando di andarsene tutti quanti con lui...
Essì: oggi capita a me, domani a te...
Esatto...
— Oggi, poi, bisognerebbe estendere questa sorta di solidarietà non solo ai giornalisti...
Certo che in Italia non sembra succedere molto spesso...
— Le interviste ai politici sembrano semplicemente degli spot elettorali: non fanno domande, chiedono solo: "cosa, di grazia, vorrebbe commentare? Ma non necessariamente nel merito della notizia, se anche vuol raccontarci una barzelletta o cos'ha mangiato a pranzo, per noi va bene, ci dica quello che vuole..."
So che in alcuni casi Mediaset non mandava nemmeno il giornalista, per realizzare il servizio...
...in che senso?
...mandava solo il cameraman.

07 October 2008

Quarto potere


Anna Politkovskaya (foto indimedia)
Vediamo se questa volta riesco ad essere "sulla notizia". Certo, ormai e' sera tardi, ma, almeno per qualche dozzina di minuti, è ancora il 7 ottobre. E proprio il 7 ottobre di due anni fa veniva assassinata la Politkovskaja. Stranamente non trovo nemmeno un trafiletto su repubblica online (c'è solo una riga su news control che si limita a linkare il pezzo del corriere) e in generale la cosa ha avuto, a parte appunto sul corriere, relativamente poco risalto.
L'occasione è buona per una riflessione di carattere generale sul giornalismo.
Ho già detto tante volte che considero l'informazione come parte integrante dell'ossatura stessa della democrazia. Non basta poter esprimere una preferenza nell'urna per poter dire di essere in una democrazia, dev'esserci un concerto di poteri indipendenti che operino un'azione di controllo reciproco, e fra questi non sarebbe eccessivo considerare l'informazione come il più importante, dal momento che è solo attraverso una corretta informazione che i cittadini possono farsi un'idea di quel che accade intorno a loro e delle decisioni che vengono prese per regolamentare la loro stessa vita.
E la situazione dell'informazione in Italia è davvero disastrosa.
La cosa è già molto evidente semplicemente guardando un qualsiasi telegiornale, ma avere internet a portata di mano rende il tutto davvero stridente. E ovviamente non sto parlando "semplicemente" di informazione scientifica nè mi sto lamentando del dilagare del gossip, ma di una situazione del tutto trasversale e particolarmente accentuata proprio in ambito politico. Non solo manca il giornalismo d'inchiesta, ma abbiamo perso persino il concetto di "intervista", sostituito da quello di monologo. Manca completamente un senso di obiettività del giornalista, sostituito da quell'obbrobrio chiamato par condicio, secondo cui l'equilibrio starebbe nel mezzo, ovunque esso si trovi, anche se uno dei due estremi si trova completamente fuori scala rispetto a qualunque definizione di buon senso. La par condicio in realtà rappresenta precisamente la morte del giornalista, che si limita a fare da contenitore a qualsiasi boiata venga proposta, mentre dovrebbe essere il punto di riferimento "informato" del cittadino che non può pensare di essere esperto di tutto.
Recentemente ho scoperto che RaiNews24 rappresenta una specie di residuo di informazione "normale", una testata che spicca nel desolatissimo panorama che la circonda. L'unico feed di news nel mio aggregatore è proprio il loro (su repubblica e corriere ormai ci vado solo, quando mi capita, direttamente dal browser, il che per me è come dire che non esistono più...). Si ha ancora la sensazione di leggere delle notizie, nella loro asettica sobrietà, e non delle marchette sensazionalistiche. Ogni tanto arrivano anche delle inchieste interessanti, che in un paese normale dovrebbero destare scandalo, mentre da noi non ne parla nessuno, al massimo si limitano ad essere citate da qualche blog controcorrente che viene quindi dipinto come controinformazione, nel senso negativo del termine.
«Il controllo dell’informazione è il punto chiave con cui viene garantita la continuità di tutte le dittature, anche quelle dolci, come la nostra.» Ma al momento i blog (i blog, più che l'internet in generale, che è in gran parte nello stesso calderone in cui ribollono corriere e repubblica online), coinvolgono ancora, purtroppo, una fetta di popolazione troppo piccola, del tutto irrilevante. E se, come temo, i blog rappresentano davvero l'unica possibilità per una sana informazione, una qualsiasi possibilità di riscatto per noi sembra non avere altro orizzonte che questo.
Che, forse, è un po' come dire che non c'è alcun orizzonte.

24 July 2008

Le retour du nucléaire

Torno da un paio di settimane offline e sto ancora risalendo, lentamente, le centinaia di feed-item che si sono accumulati. Non ho quindi ancora bene idea di cos'altro sia successo in questi giorni, ma certamente fa impressione avere nell'aggregatore questo post di Sylvie Coyaud datato 18 luglio, e scoprire che solo ieri esce la notizia dell'incidente alla centrale di Tricastin.

13 June 2008

la dittatura c'è, ma

non si sa dove sta
non si vede da qua
non si vede da qua


 
Leggendo questo post in near a tree mi sono ricordato che la canzone di Daniele Silvestri qui sopra mi piaceva molto. Ma soprattutto mi sono perso nell'interminabile pagina di wikipedia dedicata alla loggia massonica Propaganda Due, più nota come P2.

15 April 2008

giornalismo in Italia

Oggi su repubblica.it non è nemmeno comparso il nome di Putin in prima pagina. Su corriere.it, la notizia è quella che vedete qui di lato.
E stiamo parlando dei due maggiori quotidiani italiani.
 
Nel frattempo Putin diventa dittatore (che altra parola usereste?) della Russia.
 
Figuriamoci se stiamo qui a notare questioni di bassa politica che in radio vengono date — l'ho sentito con le mie orecchie — "senza fare il nome del senatore coinvolto nè del suo partito perchè siamo in campagna elettorale e c'è la par condicio"...
Tanto per restare in tema di lutti.

09 April 2008

medioevo/3

A milano, mica ad Aci Trezza (che poi anche Pisa mica è un paesino così sperduto...).
Bisognerebbe denunciarli, ma si può cominciare con una segnalazione all'Ufficio Relazioni con il Pubblico del Ministero della Salute, via mail o ai numeri 06-59942378 o 06-59942758.
Che non è mica gente incosciente quella che chiede la pillola del giorno dopo.

13 March 2008

medioevo/2

Due parole velocissime, dopo aver segnalato nelle mie letture un commento molto risoluto sulla vicenda del medico suicida. Due parole veloci ma dovute, visto che la situazione — come al solito — è più complessa di quello che può sembrare dal commento risoluto. Ad esempio perchè l'ospedale Gaslini di Genova in cui era in servizio il medico è gestito dalla Fondazione Gaslini, presieduta nientemeno che dal cardinale Angelo Bagnasco.
Da corriere.it: A differenza dell’ospedale Galliera (il cui cda è sempre presieduto dal cardinale) dove ai medici viene abitualmente richiesta la dichiarazione di obiezione di coscienza, al Gaslini non è mai stato chiesto nulla. Ma la «cultura» dell’Istituto, con le visite periodiche del cardinale, è sempre stata contro l’aborto.
Qualche info in più per contestualizzare meglio potete leggerla qui, io continuo a pensare che stiamo concretamente sprofondando in un medioevo sempre più buio.