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09 June 2016

Illazioni sul rapporto fra i sessi.

 
Spoiler prima di lasciarvi continuare a leggere inutilmente: il titolo è mero clickbait, il rapporto di cui parlerò è semplicemente quello numerico.
 
Scott Aaronson è sempre fonte di mille spunti interessanti di riflessione.
Anche quando sembra cadere su delle banalità da WTF.
Non fa eccezione questa recensione del libro di Max Tegmark [1], in cui però a un certo punto il nostro mette sullo stesso piano di impressiveness le "predizioni" della Relativà Generale (la precessione di Mercurio) o dell'equazione di Dirac (l'esistenza dell'animateria) con quella "di Darwin" sul rapporto numerico fra i due sessi nelle popolazioni delle varie specie animali.
 
Ora, la questione è la solita: l'insopprimibile e sacrosanto desiderio di avere un criterio di demarcazione, ed in particolare di averne uno semplice. Ahimè l'obiettivo, Quine insegna, è semplicemente irraggiungibile, soprattutto in termini di semplicità.
Ma — certo, certo — sono rassegnato alla marginalità della lezione quineiana nel panorama epistemologico corrente, per cui non mi stupisco più di tanto del fatto che Aaronson proponga la sua personale linea di demarcazione: "connecting elegant math to actual facts of experience".
Quel che mi sorprende è che abbia tentato di farci rientrare la teoria di Darwin, in questo connettere matematica elegante a fatti sperimentali, tramite la questione del rapporto numerico fra i sessi.
 
Il fatto è che la questione del sex ratio in chiave evoluzionistica non rappresenta nulla di neanche lontanamente simile ad un experimentum crucis per la teoria di Darwin.
Innanzitutto la definizione stessa del concetto di rapporto numerico fra i sessi è articolata (ne esistono almeno 4 tipologie diverse); inoltre, sì, si possono trovare dei riferimenti alla questione in scritti originali di Darwin (su questa cosa ci torno in chiusura di post, capirete perché scrivevo "di Darwin" fra virgolette), ma i nomi che più si legano alla questione sono quelli, ben successivi a Darwin, di Ronald Fisher e di W. D. Hamilton, e il tema restò a lungo oggetto di discussioni, analisi e ricerche. Anche dal punto di vista meramente sperimentale, infatti, esistono diverse notevoli eccezioni, molte specie in cui, per ragioni anche diverse, i rapporti numerici fra i sessi si assestano su valori significativamente diversi da quello paritario, in modo transitorio o permanente (specie partenogeniche, oppure con pratiche di accoppiamento diversificate come gli afidi, oppure specie eusociali...).
 
Insomma, nessuno, ed io men che meno, nega l'impressiveness della teoria di Darwin; ma mi sembra davvero difficile, in generale, ricondurla ad una singola questione centrale direttamente collegata ad un dato sperimentalmente; e in particolare mi sembra davvero difficile ricondurla a questa cosa del rapporto numerico fra i sessi di una popolazione, soprattutto alla luce della lezione gouldiana del pollice del panda [2].
 
Come dunque può essergli venuto in mente, ad Aaronson, di annoverare la questione della della sex ratio come emblema della forza sperimentale della teoria di Darwin?
Girovagando in rete sull'argomento, pian piano vado formulando un'ipotesi.
Diciamo pure un'illazione: che anche lui abbia cercato in rete, qualcosa come "main evidence for evolution" o "most important claims of evolution" e abbia trovato le "solite" prove (i reperti fossili, l'anatomia e lo sviluppo embrionale comparati come indicazioni di un antenato comune, la resistenza batterica agli antibiotici, etc, etc...); tra l'altro se avesse cercato qualcosa come "evidence for darwin's evolution" si sarebbe imbattuto addirittura in un prodromo del pollice del panda dello stesso Darwin [3]. Finché, questa è la mia illazione, non ha cercato qualcosa come celebrated argument evolution, e si è ritrovato davanti proprio al principio di Fisher, definito appunto "probably the most celebrated argument in evolutionary biology". Senonché a definirlo così fu, be', A. W. F. Edwards, allievo di quello stesso Fisher del cui principio stava tessendo le lodi — pare che venisse proprio chiamato "Fisher's Edwards".
Sia chiaro, tutto vorrei tranne che sminuire Edwards, il quale non era affatto un allievo sfigato e banale adulatore di Fisher: diventò famoso e rinomato genetista, pioniere insieme a Cavalli-Sforza nell'applicazione delle tecniche statistiche alla ricostruzione degli alberi evolutivi; nonché autore della famosa critica all'articolo di Lewontin sulla divisione dell'umanità in razze.
E del resto anche il suo giudizio sull'importanza del principio di Fisher, lungi da me negarlo, è ben fondato: si trattava di un argomento che mostrava come la selezione naturale, anche agendo a livello di singolo individuo, potesse plasmare una caratteristica di popolazione come il rapporto numerico fra i sessi, che invece sembra ovviamente candidata ad essere controllata da una selezione di gruppo; mostrava che a volte era necessario prendere in considerazione, in un modello evoluzionistico, più di due sole generazioni; si è rivelato essere un esempio ante litteram di quelle che verranno poi chiamate "strategie evolutivamente stabili" (ESS) e che portarono all'applicazione in campo genetico delle tecniche di teoria dei giochi; ha avviato i successivi interessi verso le implicazioni evoluzioniste degli investimenti parentali; etc, etc...
Insomma, si tratta certamente di un'idea estremamente feconda, anche se — ed è questo il mio punto — non propriamente "folgorante" e sperimentalmente "eclatante", come vorrebbe il nostro Aaronson.
Tant'è che, ho scoperto, l'idea di Fisher l'ebbe lo stesso Darwin, che la descrisse nella prima edizione del suo "L'origine dell'uomo", ma che rimosse nella seconda edizione proprio perché, e lo scrisse esplicitamente, si rese conto che la questione era in realtà molto più spinosa di quanto avesse inizialmente pensato.
 
 
 

[1] Il tema del libro di Tegmark è la sua "Mathematical Universe Hypothesis": sembra di essere sul pezzo delle ultime dichiarazioni di Musk sull'universo come simulazione, ma in realtà questo di Aaronson è un vecchio post di più di due anni fa: ci sono arrivato perché sto leggendo il suo (di Aaronson) ultimo (be', nel frattempo è diventato penultimo) post, in cui ripropone in forma scritta (Dio lo benedica!) il suo intervento, in risposta a quello di Penrose, ad un simposio che sarebbe sui fondamenti della fisica, ma in cui in realtà, almeno nel suo intervento e in quello di Penrose, si parla della coscienza. Anche lì mille spunti interessanti di riflessione, ma non ho ancora finito di leggerlo...
 
[2] L'idea che una progettazione improvvisata alla bell'e meglio (come il pollice del panda, che appunto pollice non è, ma un'estensione del sesamoide laterale) sia un argomento di gran lunga più efficace, per il darwinismo, rispetto ad un adattamento perfetto.
 
[3] Le ipotesi di Darwin, nella prima edizione de L'Origine delle specie, sull'origine delle balene, del tutto simile, nello spirito, all'idea del pollice del panda; poi rimossa dalle edizioni successive per via dell'eccessiva derisione che ne ricevette.
 

18 February 2016

Darwin Day

Mi ero ripromesso di mantenere almeno per il 12 febbraio la tradizione del Darwin Day su questo blog, ma stento a mantenere una cadenza fissa anche solo annuale.
Il 15 febbraio, tre giorni dopo, in occasione del "Galileo Day", torna a circolare un vecchio articolo dell'Economist, As important as Darwin, ma ugualmente non riesco ad accodarmi in tempo.
Non ci riesco nemmeno il giorno dopo ancora, quando Prosopopea ci ricorda che il 16 febbraio cade l'anniversario di Haeckel, quello de "L'ontogenesi ricapitola la filogenesi" (sì, sì, lo so, non dite niente, l'ho già sgridato io che scrive su Facebook invece che sul blog...).
E nemmeno il giorno dopo ancora (metà febbraio è un brulicare di ricorrenze!) quando leggo che ricorre l'anniversario del giorno in cui, con la lingua in giova — serrata da una morsa perché non possa parlare — venne condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo Giordano Bruno.
E insomma, siamo già al 18, anzi tra poco è già il 19, se non mi sbrigo qui arriva addirittura il Rothbard Day e ci sono ancora tutte le ragnatele.
 
Mi limiterò ad una umile segnalazione da nature.com: What sparked the Cambrian explosion? — An evolutionary burst 540 million years ago filled the seas with an astonishing diversity of animals. The trigger behind that revolution is finally coming into focus.
 
Buon Darwin Day (in ritardo) a tutti!

12 February 2013

Darwin Day

Quasi fuori tempo massimo, provo ad insistere nel tenere in vita la tradizione del Darwin Day, del tutto simbolicamente, limitandomi a qualche link.
E ho gioco facile, perché mi basta prendere come riferimento l'ottava edizione del carnevale della Fiera della biodiversità (secondo me in questi contesti il termine carnival non andava tradotto con carnevale...), questa volta ospitato dal Leucophaea di Marco Ferrari. Il quale, per l'occasione, firma anche un pezzo su Query Online, Ci stiamo evolvendo? che riprende proprio il tema di uno dei miei peraltro pochissimi post per il vecchio e ormai defunto progetto galileo, L’evoluzione dell’uomo si è fermata. Ma perchè, dove stava andando?.
In realtà di quest'ultima fiera della biodiversità non ho ancora fatto in tempo a leggere quasi niente, se non il contributo di Danilo Avi C’è più di un modo di essere su un’isola e i primi paragrafi del contributo di tupaia, Orribile insetto gigante risuscitato cerca casa accogliente (Dryococelus australis); ma potete precedermi sulla fiducia.

29 May 2012

Ciotole Gouldiane [era: Tom Waits [era: Serendipity]]

Continua la serie di post in risposta ad un commento del post precedente (si era già off-topic e la mia risposta si allungava...)
Ciò che evolve deve avere tre caratteristiche. Primo, deve esistere, secondo deve mantenere un’identità attraverso il tempo, terzo deve cambiare. Entità come specie, genere, famiglia e così via non esistono nella realtà, ma sono definibili solo arbitrariamente, perciò (e per altri motivi) le escluderei. L’individuo, o il gene, non hanno una continuità individuale nel tempo. L’individuo muore, il gene scompare oppure diventa un altro gene e non è più se stesso. Perciò li escluderei. (E’ da notare che ciò che evolve è ente diverso da ciò che viene selezionato, in quanto la selezione è sempre negativa, taglia e basta. Quindi l’individuo o il gene possono essere ciò che viene selezionato, ma non ciò che evolve). Direi che l’unico che può ambire al titolo è la popolazione, intesa come insieme di individui fra cui c’è scambio genico. Ancora meglio, il pool allelico della popolazione. Esiste, attraversa il tempo mantenendo una propria individualità, ma cambia mano a mano.
Non vorrei aprire un dibattito ontologico (quando scopri Quine, frasi come "per prima cosa qualcosa deve esistere", "sono definibili solo arbitrariamente, quindi non esistono", lasciano il tempo che trovano...), però, però...
Intendiamoci: a naso il tuo discorso mi piace e direi che mi trova perfettamente d'accordo.
Ma anche la vita, nel suo complesso, esiste, attraversa il tempo mantenendo una propria individualità, e cambia mano a mano.
Sì, questa mia è una provocazione, però la tua precisazione secondo cui ciò che viene selezionato è qualcosa di diverso da ciò che evolve mi insinua il dubbio se si stia discutendo di nomi o di cose.
Il dibattito Gould-Dawkins su quale sia il soggetto fondamentale dell'evoluzione non è un dibattito aristotelico sull'essenza e gli accidenti, ma cerca invece proprio di stabilire quale sia, se ci sia, un piano principale su cui agisce la selezione naturale. Volendo semplificare, per Dawkins la selezione non avviene a livello di specie, di gruppo né di individuo, ma a livello di gene (opportunamente definito in maniera intensiva come una qualsiasi porzione di DNA che sia abbastanza piccola da durare per un gran numero di generazioni e da essere distribuita in un gran numero di copie). Certamente se questa tesi, come si legge in giro, si traducesse semplicemente nel fatto che oggetto dell'evoluzione è solo la distribuzione di frequenza allelica di una popolazione, tu e Dawkins andreste felicemente a braccetto. Se poi si facesse notare che, nei casi più semplici, la tua definizione di popolazione come insieme di individui fra cui c’è scambio genico è ampiamente sovrapponibile all'usuale definizione di specie, anche Gould non ti riserverebbe sguardi troppo torvi.
Da una parte, la scoperta di DNA non-codificante, e più in generale la possibilità di analisi statistiche a livello di sequenze nucleotidiche, ha aperto le porte a tutto un modo, spesso fenotipicamente cieco, che si presta magnificamente all'approccio di Dawkins. Dall'altra (io cito sempre l'articolo con Lewontin I pennacchi di San Marco) è evidente che esistano spinte evolutive su piani così diversi (coadattamento, pleiotropia, flusso genico, simbiosi, deriva genetica, allometria...) che sarebbe ingenuo limitarsi ad un singolo approccio.
E allora certo, se consideriamo l'andamento temporale del pool allelico di una popolazione fra cui c'è scambio genico, potremo osservare precisamente, e magnificamente, un andamento evolutivo squisitamente darwiniano. Questo approccio, però, privilegiando il concetto di allele, ignora di principio tutte quelle dinamiche non-alleliche, su cui pure, seguendo Dawkins, si possono innestare meccanismi darwiniani di selezione.
Allo stesso modo, poi, è possibile montare un grandangolo sulla nostra prospettiva e considerare l'evoluzione di popolazioni, di specie, da un punto di vista che sì, potremmo dire ecologico e che sì, si presta bene ad un'analisi "banalmente" Malthusiana à la Lotka-Volterra, ma su cui potremmo ugualmente identificare, sul lungo periodo, dinamiche adattive di tipo darwiniano.
Sono d'accordo, puoi benissimo dire che per una gazzella il ghepardo è semplicemente un fattore ambientale e che i veri competitor della gazzella sono le gazzelle sue simili. Ma questa io la considero (semplicemente) una prospettiva in più (feconda e illuminante), non la prospettiva a cui ricondurre tutte le altre, a quel punto irrilevanti.
Per esempio, prendiamo la tua metafora delle ciotole adattive: è bellissima perché mette in evidenza l'esistenza di vincoli "genetici" (la compatibilità o la competizione fra alcuni caratteri funzionali espressi da certi geni che "compongono" lo stesso organismo) che possono essere altrettanto o addirittura più forti di vincoli più "visibili" come certe caratteristiche ambientali o l'esistenza di determinati predatori o competitori ecologici — a questo proposito mi vengono sempre in mente gli esempi di Diamond sul fatto che zebre, rinoceronti e leoni della savana, potenzialmente utili come animali da macello o da forza lavoro, non sono stati domesticati perché, a differenza delle specie della mezzaluna fertile, non esiste una mutazione capace di renderli mansueti, di farli accoppiare in cattività e di farli convivere in branchi ad alta densità abitativa (le stalle negli insediamenti umani).
Però questo non toglie che, accanto a questi vincoli genetici, gli altri vincoli restino, ed ha poco senso zoomare sempre a livello allelico per descrivere forzanti ecologiche, fisiche, geometriche, che si esplicano a livello di singolo individuo, di popolazione o di specie.

12 February 2012

Darwin Day

Non è morto, s'era detto, questo blog.
Provo a confortare questa tesi oggi, riprendendo (l'impegno) ad onorare il Darwin day (un solo post all'anno, dai, ce la posso fare...).
E poiché chi passa da queste parti, insomma, siamo tutti darwinisti fino alle ossa, posso permettermi di celebrare Carletto segnalando un aspetto ancora controverso fra i tanti meccanismi in gioco nell'evoluzione delle specie.
Delle specie?
Sì, l'aspetto su cui volevo darvi qualche spunto di riflessione è proprio la questione del "cosa sono ad evolvere, le specie? le popolazioni? i fenotipi (estesi)? i geni?"
 
Come sapete sono di religione Gouldiana: l'idea che mi sono fatto è che non c'è una risposta univoca a questa domanda, e che l'evoluzione avviene, contemporaneamente, su piani differenti, con tempi, intensità e modi diversi e specifici. L'idea di un'evoluzione gene-centrica resa popolare da Dawkins rappresenterebbe, dunque, solamente uno di questi meccanismi (certamente impossibile da immaginare per Darwin stesso), ma trovo ingenuo e semplicistico elevarlo ad unico riferimento ultimo per qualsiasi dinamica evolutiva.
In particolare, uno degli aspetti che più mi lascia insoddisfatto è la selezione per parentela (kin-selection).
Ne avevo già parlato a suo tempo (ormai più di quattro anni fa!) in Dawkins contro Gould, da cui era anche scaturita un'interessante discussione con ospiti illustrissimi. Di recente mi è capitato di tornare sul tema leggendone su Leucophaea. L'articolo principale citato da Marco, M. Nowak, C. Tarnita, E. Wilson, The evolution of eusociality (pullicato su Nature quest'estate e di cui potete recuperare il PDF grazie a Google Scholar), sfonda, per quanto mi riguarda, una porta aperta (leggetevi, nel bellissimo post di Marco, chi era il Wilson che firma l'articolo...) anche se vorrei trovare il tempo di leggermi la rassegna citata da Marco, S. A. West, A. S. Griffin, A. Gardner, Social semantics: altruism, cooperation, mutualism, strong reciprocity and group selection, e le repliche all'articolo di Nowak, giusto per sentire anche l'altra campana...
 
Di un tema simile aveva parlato anche tupaia, proprio lo scorso Darwin day (sì, lo so, significa un'anno fa...), in un suo bellissimo post, Le specie egoiste, scritto a quattro mani con Danilo Avi — a proposito di tupaia, Marco nel suo post che ho citato qui sopra accenna all'eterocefalo glabro linkando l'articolo di wikipedia... invece che il bellissimo post di tupaia I wurstel con i denti! Lo scorso Darwin day, dicevo, tupaia e Danilo provano a guardare l'evoluzione naturale da una prospettiva di competizione intraspecifica, in contrapposizione all'usuale competizione interspecifica. E l'insight, per quel che mi riguarda, è davvero notevole: uno dei punti “vuoti” de Il gene egoista era proprio il fatto di partire dalla riproduzione sessuata, e utilizzarla come elemento chiave (la competizione fra alleli), senza però spiegarla. Del resto, nell’usuale interpretazione dell’evoluzione come della “sopravvivenza del più adatto”, la giustificazione della riproduzione sessuata arranca un po’, visto che il suo vantaggio (la maggior variabilità genetica e dunque una maggior capacità di far fronte a cambiamenti ambientali imprevisti) riguarda la specie intera e non il singolo individuo. Invece leggendo il post dell'orologiaio miope (e in particolare l’esempio degli insetti e della partogenesi) mi sembra quasi che le cose tornino magistralmente: la riproduzione sessuata è un meccanismo capace di portare vantaggio al singolo allele, nella misura in cui crea una diversificazione nel panorama competitivo intraspecifico. Sicuramente è una prospettiva da approfondire, ma è la prima volta che leggo una possibile spiegazione della nascita della rirproduzione sessuata che non mi lascia retrogusti di insoddisfazione.
Buon Darwin day a tutti!

26 October 2010

Vuota apologia del libertarianismo

Dicevo che il Libertarianismo è una di quelle "scoperte" che ti cambiano radicalmente il modo di vedere tutte le cose; e vi sarà sembrata, lo so, una di quelle frasi romantiche, di chi ama naufragare fra per sempre e mai piú, e immaginare l'infinito dietro l'ermo colle.
E invece è letteralmente così, ti rivolta davvero tutto il mondo come un calzino: lo shopping, lo stato, la società, l'ecologia, i diritti fondamentali degli uomini, non sono più gli stessi; non è più la stessa cosa votare, pagare le tasse, andare a scuola, al lavoro, (non) fare ricerca scientifica. Persino l'astrologia, l'omeopatia e Vanna Marchi (e ditemi voi se è romanticismo Vanna Marchi!) non sono più quelli di prima!
 
Chiaramente sto parlando della mia esperienza personale: non so se tutti i libertari sono passati attraverso un'analoga fase tellurica o se magari hanno vissuto un'esperienza simile ma in più tenera età e, quindi, con meno sconvolgimento (o, più banalmente, sono stati libertari "da sempre").
 
Personalmente, per quanto riguarda la portata rivoluzionaria, trovo che il paragone naturale sia con la fisica moderna e il Darwinismo: se, da una parte, Relatività e Meccanica quantistica ridefiniscono la stoffa con cui è fatto il mondo (spazio, tempo, oggettività, causalità...), dall'altra il Darwinismo tocca più da vicino proprio l'essere umano (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo). Ebbene, la prospettiva libertaria rappresenta il vertice di questo climax perché sconvolge il concetto di uomo nella società, e dunque te la ritrovi dappertutto, quotidianamente.
Ma, sempre in chiave di portata rivoluzionaria, c'è un aspetto profondamente diverso fra Libertarianismo, da una parte, e Relatività, Meccanica quantistica e Darwinismo dall'altra: mentre queste ultime sono scienze consolidate e mainstream, e il Darwinismo addirittura, pur in facili semplificazioni, è addirittura patrimonio comune (ok, lasciamo stare in questo momento l'Intelligent Design...), il Libertarianismo rappresenta invece una specie di terra ignota, ignobile persino, priva anche del fascino trasgressivo dei tabù.
E' stato del tutto casualmente, infatti, che qualcuno mi ha indicato Rothbard, Friedman e prima ancora la scuola austriaca di economia. Eppure, esattamente come succede con Darwin, l'unica reazione che si prova, a posteriori, è semplicemente un: ma come ho potuto essere stato cieco per tutti questi anni? E, a differenza di Darwin, com'è possibile che tanta gente, colta e istruita, progressista, sia del tutto ignorante rispetto a questo modo così naturale di vedere le cose?
 
Va bene, direte voi, ora piantala di girare attorno alla questione e di creare tutta questa suspense: dicci finalmente cos'è, cosa dice questa teoria libertaria della società (ché a leggere Wikipedia sembrano dei pazzi furiosi).
 
La cosa più semplice che potrei fare, in effetti, è proprio fornire qualche link: oltre a Wikipedia ci sono tante fonti online su argomenti libertari e ci sono anche ottimi blogger che ne parlano.
Il punto è che io stesso ero entrato in contatto con alcuni concetti libertari, pur in maniera casuale e tutt'altro che sistematica, proprio attraverso letture sporadiche da alcuni blogger (ad esempio il lume rinnovato), e tuttavia non ero riuscito a coglierne la portata. Un po' perché ero viziato da tutta una serie di pregiudizi inconsapevoli molto comuni e di cui mi sono dovuto letteralmente liberare con non poca fatica, e un po' perché si trattava di concetti isolati di cui mi mancava il contesto (contesto tanto fondamentale proprio perché il Libertarianismo presuppone un cambiamento di prospettiva radicale rispetto al modo di pensare comune). E infatti, almeno da questo punto di vista, un po' mi sono pentito dei miei post recenti in cui riportavo "beceramente" dei brani di Rothbard, perché ottengono in molti casi lo stesso (controproducente) effetto nel lettore non-libertario: straniamento e sospetto.
Quel che mi piacerebbe, invece, è provare a fornire un percorso, anche solo accennato, sicuramente da approfondire poi altrove, che possa però facilitare la strada ad altri che si trovano in una situazione simile a quella in cui mi trovavo io fino a qualche mese fa. Gran parte dei pochi lettori che mi seguono, infatti, almeno io credo, non sono libertari per lo stesso motivo per cui non lo ero io: semplice e pura ignoranza.
 
A coloro che, per ingannare l'attesa (sicuramente lunga, potenzialmente vana) di una prossima puntata, su questi schermi, su questi temi, volessero comunque cominciare da Wikipedia, chiederei almeno di non affrettare il giudizio: le pagine di Wikipedia, giocoforza, espongono le idee libertarie in maniera concisa, evidenziandone le tesi, manco a dirlo, rivoluzionarie. E proprio in quanto tali, prese così, dall'alto, queste tesi possono apparire al limite dell'irragionevolezza. Di più: a volte possono anche esserlo, irragionevoli, perché nella semplificazione di una voce enciclopedica possono rappresentare il risultato estremo di un approccio del tutto inusuale. Il punto è che — e in questo effettivamente il paragone con la fisica moderna e il Darwinismo non regge decisamente più — il Libertarianismo non è un monolite, accentrato, chessò, sulle tesi di Rothbard o di Friedman (che, tanto per dire, erano spesso in disaccordo reciproco su tante cose). Il Libertarianismo, in tutte le sue varie forme rappresenta una prospettiva sulla società, un modo di pensare e di affrontare questioni in cui semplicemente hai imparato a evitare "i soliti errori". Su molte questioni non esiste la soluzione libertaria (al massimo c'è la soluzione di Rothbard, quella di Friedman, e spesso quelle più "famose" sono le più "estreme", da cui, almeno in parte, l'immagine diffusa di "pazzi furiosi"). L'accordo, se vogliamo, è "in negativo", su quali soluzioni "sicuramente non funzionano" e su quali sono i fattori rilevanti, nella ricerca di una soluzione.
 
Questo, tra l'altro, per dire che no, non ho trovato l'unica verità politica a cui tutti dovrebbero adeguarsi, che sarebbe oltremodo ingenuo. L'effetto di devastante rivoluzione della prospettiva libertaria è in negativo, riguarda la quantità di credenze implicite e apparentemente naturali che improvvisamente si frantumano, si rivelano quali falsi preconcetti che da sempre hanno distorto la visione della società.
Proprio come con la fisica moderna e il Darwinismo, il panorama che ti si para davanti è sterminato, e approfondirlo richiede(rebbe) tempo ed energie, ma ugualmente, da subito, capisci che, qualunque cosa troverai, non sarà come quello a cui eri abituato.
 
Insomma: non è tanto una o più specifiche tesi finali di particolari libertari, quanto la prospettiva, che vorrei provare a farvi scorgere, in qualche modo, in futuro, su questo blog. Non ho idea di come fare, dovrò cercare di ricordare com'ero, io stesso, qualche mese fa (e già mi sembra un io lontanissimo ed estraneo), come ragionavo, cosa mi risultava assolutamente impossibile da concepire, ma soprattutto come invece sono arrivato a concepirlo, prima, e, ben presto, a trovarlo addirittura naturale e ovvio.

20 May 2009

Stephen Jay Gould

Un passaggio veloce, giusto il tempo per unirmi anch'io, con Marco, al ricordo di un grande: Stephen Jay Gould.
Lo conobbi per la prima volta con Questa idea della vita, ma conservo per sempre ricordi specifici per quasi tutti gli innumerevoli saggi che ho avuto modo di leggere, ciascuno frutto succoso capace di estasiarti parola dopo parola con un inconfondibile sintesi di intelligenza e stupore, con quella sua capacità di andare a fondo e di darti allo stesso tempo un respiro di grande vastità.
Marco mi perdonerà se gli rubo le parole per descrivere precisamente la sua stessa riverenza nei confronti di Gould. Se gli rubo le parole per ricordare la sua prosa quasi mantrica, la sua abitudine a scavare le motivazioni più profonde, soprattutto storicizzando ogni vita e ogni pensiero e per rimanere come lui compiaciuto che dai suoi articoli sono nati blog, libri, ragionamenti e ipotesi-teorie; alla faccia della divulgazione che non serve a niente.
Come Marco, oggi metto anch'io da parte qualche personale divergenza di opinioni, incapace comunque di intaccare anche solo minimamente la singolare venerazione che nutro nei suoi confronti.

15 April 2009

darwinisti teorici e darwinisti sperimentali

Il punto c di questo commento di sagredo su Progetto Galileo mi ha fatto ricordare che avevo un post nel cassetto. Finisco ora di scriverlo e lo pubblico subito.
 
C'era una volta (ennesima dimostrazione della tempestività con cui questo blog scatta sulla notizia) Scott Aaronson che annunciò la pubblicazione dell'ultima lezione del corso Quantum Computing Since Democritus. Ho avuto modo di parlare molto di questo corso, anche se meno di quel che mi sarebbe piaciuto. Avrei in tasca, per esempio, almeno un altro spunto che, periodicamente, prende a frullarmi per la testa, ma ormai sta cominciando a formarsi la muffa su quel Bonus Addendum nascosto in fondo alla terza lezione... chissà quando troverò il tempo di tornarci su (anzi, sto cominciando anche a scordarmi tutte le cose che volevo dire a riguardo...).
Nel frattempo, mi limito a sengalarvi quest'ultima lezione, anche perchè non si parla solo di complessità computazionale. Come sempre, del resto, nelle sue lezioni. Ma in questa in particolare, visto che si intitola Ask Me Anything. Anzi, mi permetto addirittura di riportarne, traducendoli molto liberamente (e rozzamente) in italiano, alcuni stralci più significativi e meno tecnici.

   —   ∴   —   

Scott: Altre domande? Magari una meno tecnica?
D: Come risponderesti ad un sostenitore dell'Intelligent Design? Senza farti sparare?
Scott: Be', davvero non saprei. E' uno di quei casi in cui potremmo applicare il principio antropico: se su questa cosa fosse stato possibile convincerlo con l'evidenza, non si sarebbe già convinto? Secondo me dobbiamo accettare che ci sono persone per cui la cosa più importante nelle proprie convinzioni non è se queste corrispondono al vero; altre proprietà sono più importanti, quali ad esempio il proprio ruolo in una comunità. Stanno giocando, cioè, un gioco diverso, in cui le credenze sono giudicate con standard diversi. E' come un giocatore di basket su un campo di calcio. Come potrà mai vincere?
[...]
Scott: E' chiaro che la religione svolge una qualche funzione, per le persone, altrimenti non sarebbe stata così onnipresente per migliaia di anni o non avrebbe resistito a significativi sforzi per eliminarla. Per esempio, forse le persone che credono che Dio stia dalla loro parte sono più coraggiose in battaglia. O forse la religione è uno dei fattori (fra altri più ovvi) che induce uomini e donne a sposarsi ed avere un sacco di bambini, e dunque rappresenta un tratto adattivo da un punto di vista darwiniano. Anni fa rimasi colpito da un fatto ironico: nell'America contemporanea abbiamo questo stereotipo di elite che crede nel darwinismo e vive spesso da solitario trentenne o quarantenne, e poi abbiamo lo stereotipo di quelli che rifiutano il darwinismo ma si sposano giovani e hanno 7 figli, 49 nipoti e 343 bisnipoti. A questo punto non è una gara fra darwinisti e anti-darwinisti; è una gara fra darwinisti teorici e darwinisti sperimentali!
Se quest'idea è corretta anche solo in parte — che le religioni sopravvivono perchè aiutano le persone a vincere le guerre, ad avere più bambini, etc — allora la domanda che si pone è: come sarai mai in grado anche solo di affrontarli se non diventando anche tu una religione alternativa?
D: Oh, sì, sono sicuro che questo è proprio quel che la gente pensa quando deve decidere se credere o meno in una religione.
Scott: Non sto dicendo che è qualcosa di consapevole, o che le persone la pensano proprio in questi termini. Certamente qualcuno lo fa, ma il punto è che non devono farlo, perchè il loro comportamento sia comunque descrivibile in questi termini.
D: Possiamo anche avere molti bambini senza accettare una religione, se vogliamo.
Scott: Certo, possiamo, ma lo facciamo, in media? Non ho numeri a portata di mano, ma credo che esistano studi che supportano il fatto che le persone religiose hanno in media più figli.
Ora, c'è un altro fattore chiave, ed è che alcune volte l'irrazionalità può essere la scelta più razionale, perchè è l'unico modo di dimostrare a qualcun altro che sei convinto di qualcosa. Tipo, se qualcuno si presenta alla tua porta chiedendoti cento dollari, è molto più probabile che tu glieli dia se ha gli occhi iniettati di sangue e un'aria davvero irrazionale — non hai idea di cosa starà per fare! L'unico modo di rendere efficace una strategia simile è fare in modo che l'apparenza di irrazionalità sia convincente. Il tizio non potrebbe semplicemente fingere, altrimenti lo capiresti. Deve essere molto, molto irrazionale e mostrarsi capace di vendicarsi di te a qualsiasi costo. Se credi che il tizio difenderà il suo onore fino alla morte, probabilmente non vorrai avere a che fare con lui.
Quindi la teoria è che la religione è un modo per convincere se stessi. Uno può dire di credere in un certo codice morale, ma gli altri possono capire che sta mentendo e non fidarsi di lui. D'altra parte, se uno ha una barba molto lunga e prega tutti i giorni e sembra davvero credere che l'aspetterà un inferno eterno se infrangerà i suoi precetti, sta costruendo il suo stesso convincimento. Secondo questa teoria la religione funzionerebbe come un modo di pubblicizzare una convinzione su un certo insieme di regole. Naturalmente le regole possono essere buone o possono essere terribili. Nondimeno, questa specie di convincimento pubblico ad obbedire a un insieme di regole, condite con ricompense e punizioni sovrannaturali, sembra essere un elemento importante di come le società si sono organizzate per migliaia di anni. E' il motivo con cui i potenti hanno convinto i propri sudditi a non ribellarsi, gli uomini hanno convinto le proprie mogli ad essere fedeli e le mogli convinto i propri mariti a non abbandonarle, eccetera.
Insomma, mi sembra che questi siano i tipi di forze "di teoria dei giochi" che Dawkins e Hitchens e gli altri crociati anti-religioni devono affrontare e che forse non riconoscono sufficientemente nei loro scritti. Ciò che gli rende le cose facili, naturalmente, è che i loro oppositori non possono semplicemente saltar fuori e dire "sì, naturalmente sono tutte sciocchezze, ma servono per queste importanti funzioni sociali!" Invece i difensori delle religioni spesso ricorrono ad argomenti che si demoliscono facilmente (almeno dopo Hume e Darwin) perchè la loro vera condizione, sebbene considerevolmente più forte, è di quelle che è molto difficile da sostenere apertamente!
Riassumendo, magari è vero che gli uomini (se sopravviveremo abbastanza a lungo) potrebbero arrivare a ripudiare le religioni, ora che abbiamo qualcosa di meglio con cui sostituire il loro potere esplicativo. Ma prima che ciò accada, credo che avremo bisogno almeno di capire meglio le funzioni sociali che la religione ha giocato per la maggior parte della storia e ancora gioca nella maggior parte del mondo, e forse avremo bisogno di trovare meccanismi sociali alternativi per risolvere lo stesso tipo di problemi.
D: Stavo pensando se ci fosse un altro caso in cui l'irrazionalità sia preferibile alla razionalità.
Scott: Da dove iniziare?
D: Specialmente se hai un'informazione incompleta. Come se avessi un politico che è ben convinto e che non cambierebbe mai i suoi ideali: saresti molto più sicuro che farà quel che dice di voler fare.
Scott: Perchè ha convinzioni. Crede in quel che dice. Per la maggior parte dei votanti, questo conta molto più che l'effettivo contenuto delle convinzioni. Bush da un'impressione molto buona di convinzione.
D: Ma non sono sicuro che ciò sia il meglio per gli interessi degli Stati Uniti.
Scott: Esatto, questo è il punto! Come combatti persone che sono diventati maestri nel meccanismo dell'irrazionalità razionale? Dicendo "no, guarda qui, i tuoi fatti si sono rivelati sbagliati"? A che gioco stai giocando? Prendi un altro esempio: un single al bar. Quelli che hanno più successo sono quelli più abili a convincere se stessi (almeno temporaneamente) di certe falsità: "Sono il più figo qui". Questo è un chiaro caso in cui l'irrazionalità sembra razionale, in un certo senso.

04 March 2009

Chi vuol essere evoluzionsta

A 200 anni dalla nascita di Darwin e a 150 dalla pubblicazione dell'Origine delle specie, Galileo, giornale di scienza e problemi globali, mette alla prova i suoi lettori e propone dieci quesiti sul celebre naturalista inglese e sulle sue teorie.

12 February 2009

12 febbraio 1809

Che poi, a volersi ritirare un po' in disparte, oggi si festeggerebbero i 200 anni dalla nascita di Darwin (per i 150 anni della pubblicazione dell'origine delle specie bisognerà invece aspettare novembre, sempre di quest'anno).
Insomma, il Darwin Day nell'Anno di Darwin.
Di auguri di buon compleanno ce n'è all'infinito, in giro. Qualche spunto da cui partire potete trovarne qui o qui... e ovviamente su Progetto Galileo!

02 February 2009

Darwin fra le stelle

Dopo Rovelli, l'estate scorsa ho avuto modo di apprezzare molto il suo amico Lee Smolin nel bellissimo Three Roads to Quantum Gravity. Lo stesso Lee Smolin che ha proposto la teoria della selezione naturale cosmologica di cui parlo su Progetto Darwin.
Devo confessare che all'inizio ho storto il naso: Smolin mi aveva fatto un'ottima impressione, ma qul nome pomposo, selezione naturale cosmologica, sembrava alludere troppo ad uno di quei tanti tentativi, maldestri e inappropriati, di sovrapporre due ambiti molto distanti, e quindi apparentemente scorrelati, quali la cosmologia e la biologia. Lasciava immaginare uno di quegli approcci "finalistici" alla cosmologia che vanno sotto il nome generico di principio antropico e che, per così dire, non trovano proprio il classico consenso universale della comunità scientifica.
Ma ho dovuto ricredermi presto: la selezione naturale cosmologica rappresenta forse l'unico caso di applicazione rigorosa — addirittura falsificabile — dei principi più generali della teoria di Darwin in un ambito diverso da quello biologico.
Ne riporto dunque, per sommi capi, le idee principali. Il taglio sarà divulgativo (non che io ne abbia una conoscenza molto più approfondita...), il riferimento originale che ho seguito è l'articolo di Smolin stesso: The status of cosmological natural selection.
 
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La motivazione principale che ha spinto a formulare la selezione naturale cosmologica — motivazione che è all'origine anche di quasi tutte le versioni del principio antropico — è il cosiddetto problema della sintonizzazione fine (fine tuning); la constatazione, cioè, che i parametri fondamentali del modello standard delle particelle elementari e della cosmologia sembrano assumere valori numerici "molto particolari", nel senso che una loro anche piccolissima modifica distruggerebbe il delicatissimo equilibrio di processi che hanno portato alla formazione nell'universo di una grande quantità di stelle dalla vita molto lunga e ridurrebbe drasticamente l'enorme varietà chimica degli elementi che invece osserviamo — e che consideriamo fondamentale per lo sviluppo della vita così come la conosciamo.
L'obiezione più elementare al considerare questa circostanza come un problema da spiegare, e cioè che le costanti fondamentali sono quelle che sono e, proprio perchè costanti, non possono cambiare, viene notevolmente ridimensionata da una caratteristica che ha la teoria più accreditata per spiegare il modello standard a un livello più profondo: la cosiddetta teoria delle stringhe. Senza entrare nei dettagli, la teoria delle stringhe ha una forma del tutto generale in cui il modello standard e le sue costanti fondamentali discendono in maniera contingente, non necessaria, a seconda dello stato in cui si trova — concedetemi questa concisa terminologia tecnica da considerare come espressione evocativa — la geometria del background spazio-temporale. L'idea, dunque, è che le costanti fondamentali dell'universo avrebbero potuto davvero essere diverse (e magari lo sono, in remote regioni dell'universo); e quindi la domanda sul perchè, allora, abbiano assunto proprio questi valori e non altri, appare sotto una luce meno speculativa, meno, per così dire, metafisica, e può legittimamente aspirare a diventare, un giorno, parte integrante dell'ambito di indagine della fisica — esattamente com'è successo per la cosmologia stessa, entrata a buon diritto nei programmi di ricerca in fisica nella prima metà del secolo scorso dopo la scoperta della legge di Hubble, della radiazione cosmica di fondo, e delle prime stime sull'abbondanza cosmica degli elementi.
In questo contesto, dunque, appare più accettabile il ragionamento alla base di tutte le varie forme di principio antropico, le quali pretendono di giustificare a posteriori la "straordinarietà" dei particolari valori assunti dalle costanti del modello standard basandosi semplicemente sul fatto che, letteralmente, altrimenti non saremmo qui a discuterne. Ma la sterilità di tutte le varie forme di principio antropico sta nel fatto che esse si limitano a questa mera "giustificazione" del fine tuning, senza alcuna possibilità di fare alcuna previsione specifica che possa essere verificata o falsificata.
Su questo, invece, la selezione naturale cosmologica è profondamente diversa.
 
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Forti, dunque, delle possibilità teoriche offerte dalla teoria delle stringhe, consideriamo uno "spazio", un insieme astratto di diversi "modelli standard" così come sono ammessi dalla teoria. I presupposti essenziali di una qualsiasi teoria di selezione naturale cosmologica sono essenzialmente due, in stretta analogia con l'evoluzione nella biosfera. Da una parte deve esistere una "popolazione" di questi universi possibili, ciascuno con una sua probabilità più o meno elevata di "presentarsi" (l'equivalente di una popolazione di individui biologici sulla Terra). Dall'altra deve esistere un processo capace di generare un'evoluzione in quella popolazione di universi, un processo che coinvolga la "nascita" ed eventualmente la "morte" di questi universi, in modo tale che la distrubuzione della popolazione di universi possa cambiare nel tempo a seconda di quali universi nascano più frequentemente e quali meno.
Ma perchè da una teoria del genere si possano dedurre delle conseguenze falsificabili devono verificarsi ulteriori condizioni.
Innanzitutto il processo evolutivo deve condurre ad una popolazione di universi distribuita in maniera molto particolare, altamente non casuale, in modo da poterla riconoscere proprio sulla base delle sue caratteristiche. In particolare devono esserci delle quantità misurabili del nostro universo che risultano molto frequenti negli universi della popolazione a cui si giunge con il processo di evoluzione: in questo modo possiamo dire che il processo di evoluzione della nostra teoria spiega il valore di quella quantità che misuriamo nel nostro universo. Ma non basta: devono esserci delle altre quantità misurabili del nostro universo, ma che non sono ancora state misurate, che risultino anch'esse molto frequenti negli universi della popolazione a cui si giunge con il processo di evoluzione della nostra teoria: in questo modo possiamo dire che la nostra teoria prevede che il nostro universo presenti queste altre quantità misurabili.
Basta? No: per poter dire di essere davvero davanti a una possibile spiegazione del fine tuning, i meccanismi di questo processo di selezione devono essere estremamente sensibili a quelle caratteristiche peculiari (l'esistenza di una chimica complessa e di molte stelle a vita lunga) su cui le costanti del modello standard si sono così finemente sintonizzate.
Notate bene che queste ultime condizioni non fanno alcun riferimento ai dettagli della teoria delle stringhe che sta alla base della possibilità di avere diversi costanti per il modello standard, mentre fanno riferimento solo alle caratteristiche del modello standard che si intende spiegare. E questo è del tutto analogo al caso biologico, in cui è possibile fare previsioni verificabili senza conoscere alcunchè di genetica molecolare — anzi, storicamente è successo proprio così!
 
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Ebbene, la selezione naturale cosmologica non è nient'altro che un esempio — l'unico, al momento — di possibile meccanismo di selezione che soddisfa i criteri che abbiamo descritto. La sua enorme importanza, indipendentemente dal fatto che un giorno verrà o meno falsificata, sta proprio nel fatto che dimostra la possibilità di avere una spiegazione del fine tuning che fa previsioni falsificabili.
Ecco quali sono i suoi assunti e meccanismi di base.
La prima assunzione fondamentale è che il Mondo consiste in un insieme di universi come quello in cui viviamo, ciascuno caratterizzato da un particolare stato del background spazio-temporale della teoria di stringhe che descrive tutti gli universi possibili e dunque da particolari valori di quelle che chiamiamo costanti fondamentali del nostro modello standard.
L'altra assunzione fondamentale riguarda la creazione di nuovi universi. Questi nascerebbero come stato inziale di un Big Bang a partire dalle singolarità che si trovano al centro dei buchi neri presenti in altri universi. In particolare si assume che il meccanismo di generazione è tale per cui il nuovo universo avrà costanti fondamentali solo leggermente diverse da quelle dell'universo che contiene il buco nero che lo ha generato.
Già si delinea quale sarà la situazione a cui si arriva partendo da simili assunzioni. Poichè gli universi capaci di generare più buchi neri avranno generato più universi a sè simili, la popolazioni di universi a cui arriveremo in breve sarà costituita per la stragrande maggioranza proprio da quegli universi che sono capaci di generare più buchi neri.
Più rigorosamente, esiste quella che un biologo evoluzionista chiamerebbe la fitness function di ogni universo. Chiamiamo c la "configurazione" di un universo, i valori delle sue costanti fondamentali, e chiamiamo B(c) proprio il numero medio di buchi neri che un universo di tipo c produce nella sua vita. Si può allora dimostrare che, in condizioni del tutto generali, un meccanismo di generazione come quello che abbiamo descritto conduce in breve tempo ad una popolazione di universi in cui la stragrande maggioranza delle configurazioni c è vicina a un massimo locale di B(c).
Un universo scelto a caso in questa popolazione avrà dunque questa importante caratteristica: qualsiasi piccolo cambiamento nella sua configurazione c potrà solo lasciare B(c) invariato oppure diminuirlo. Assumendo quindi che il nostro universo sia scelto a caso, la previsione fondamentale della selezione naturale cosmologica è che non ci sia essenzialmente alcuna possibilità di aumentare il numero di buchi neri prodotti da nostro universo spostando qualche costante fondamentale del modello standard.
 
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Vediamo ora quali sono le conseguenze di questa previsione fondamentale, sia in termini di spiegazioni e sia in termini di previsioni che questo modello presuppone.
La selezione naturale cosmologica, se si dimostrasse corretta, spiegherebbe il fine tuning perchè la formazione di stelle di grande massa, necessarie per la formazione di buchi neri astronomici, si basa sulla chimica del carbonio, e per ben due motivi. Il primo è che il meccanismo principale di raffreddamento delle gigantesche nubi di gas dove si formano le stesse di grande massa è proprio l'emissione di radiazione da moto vibrazionale delle molecole di ossido di carbonio. Il secondo è che ghiaccio e polvere di carbonio costituiscono anche un'efficace schermo alla radiazione ultravioletta per queste nubi. La selezione naturale cosmologica, cioè, sarebbe in grado di spiegare come mai l'universo sembra così finemente sintonizzato sulla possibilità di esistenza delle stelle e della chimica del carbonio senza far alcun riferimento diretto all'esistenza della vita e all'uomo. E spiegherebbe anche altre particolari coincidenze come il fatto che la costante di Fermi abbia precisamente il valore giusto perchè funzioni il meccanismo delle supernovae.
Ma veniamo alle previsioni della selezione naturale cosmologica.
Una di queste riguarda un limite superiore per la massa delle stelle di neutroni. Non entreremo nei dettagli, ma il punto è che la massa delle stelle di neutroni è legata alla massa dei mesoni K e la presenza di stelle di neutroni molto pesanti sarebbe un'indicazione del fatto che, potendo variare la massa dei mesoni K, si formerebbero molti più buchi neri di quelli che si formano col valore che ha nel nostro universo. Al momento tutte le stelle di neutroni sembrano avere una massa inferiore a questo limite, ma basterebbe una singola osservazione di una stella di neutroni più pesante per falsificare la selezione naturale cosmologica.
Un'altra previsione è ancora più tecnica. Solo per citarla, riguarda alcune caratteristiche dei modelli di universo inflazionario, che devono soddisfare alcune particolari caratteristiche per non consentire, variando alcune costanti fondamentali, di aumentare la probabilità di formazione di buchi neri. Al momento, tutte le indicazioni indirette indicano che i modelli di universo inflazionario soddisfano le condizioni previste dalla selezione naturale cosmologica
Un'ulteriore previsione riguarda la formazione di stelle nelle fasi primordiali dell'universo. La selezione naturale cosmologica verrebbe infatti falsificata se ci fossero modalità di formazione di stelle diverse da quelle che osserviamo, che non si basassero ad esempio sulla chimica del carbonio. Ma in questo caso tali meccanismi sarebbero stati all'opera nelle fasi primordiali dell'universo, quando ancora carbonio e ossigeno non erano stati prodotti in grande quantità. E dunque in quelle fasi primordiali dovevano esserci molte supernove che potremmo osservare oggi guardando a grandi distanze (siccome la velocità della luce è finita, guardare a grandi distanze significa guardare a fasi passate della vita dell'universo). Finora le osservazioni non hanno indicazioni in questo senso.
 
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Al momento, dunque, la teoria della selezione naturale cosmologica non è stata ancora falsificata dalle osservazioni sperimentali. Ma l'importanza di questo modello rimarrebbe anche nell'eventualità che in futuro questo dovesse succedere. Essa ha fornito il primo esempio concreto di teoria capace di affrontare in problema del fine tuning in cosmologia in modo tale da fornire previsioni falsificabili e senza invocare alcun principio antropico.

23 January 2009

Ateismo, agnosticismo e laicismo: panegirico sui massimi sistemi

Ormai è notizia vecchia: dopo Stati Uniti, Australia e Spagna, anche l'Italia fa avrebbe voluto far seguito all'iniziativa degli autobus a Londra della British Humanist Association: l'UAAR aveva fatto un'offerta per uno spazio pubblicitario sugli autobus di Genova in cui sarebbe campeggiato lo slogan che vedete qui di fianco. Sollevare il dibattito sulla questione religiosa era certamente uno degli obiettivi dell'iniziativa e altrettanto certamente sembra che questo obiettivo sia stato raggiunto, almeno a guardare la blogosfera.
A parte queste considerazioni molto interessanti di Morgan, il dibattito fra i blog mi è sembrato girare principalmente intorno all'assenza di un avverbio dubitativo sull'esistenza di Dio, che era invece presente (l'avverbio, non Dio) a Londra e a Madrid (in Australia, come da noi, la campagna è stata vietata, e in California non hanno citato direttamente Dio ma hanno fatto riferimento solo alle religioni, "Imagine No Religion"); ad esempio da Marco o da Leonardo (apro una piccola parentesi: questa volta Leonardo mi ha davvero deluso, il suo post è soltanto un esempio di benaltrismo da manuale: ha pontificato in non si sa bene che direzione — in difesa delle religioni? in difesa del comunismo? ma solo quello agnostico? contro la scienza? semplicemente contro l'UAAR? — inanellando una serie di considerazioni storico-sociali escatologiche così enormi che l'autobus di Genova non si riesce più nemmeno a vedere: l'esistenza di un pianeta extrasolare trattata come l'esistenza della teiera di Russell, le ragioni "economiche" per l'esistenza delle religioni, l'importanza del ruolo consolatorio delle religioni, l'importanza dell'azione caritatevole delle religioni, il pessimismo storico e il pessimismo cosmico leopardiano, uno sciocco slogan "sei ateo solo perchè te lo puoi permettere"... Tutto questo sproposito solo per criticare uno slogan sciocco? Vabbe', chiusa parentesi).
Le critiche, nei post e nei relativi commenti, si sono articolate essenzialmente in due tempi (concettuali, non cronologici). Dapprima si è criticata la forma, il tono che quell'assenza dava all'iniziativa: lasciava intendere, dicono quasi tutti, la stessa identica sicumera delle religioni, che pretendono di essere le uniche depositarie dell'unica Verità su(ll'unico) Dio. Quindi, in un secondo tempo, si scatenava il dibattito sul contenuto: ma è davvero così certa la non esistenza di Dio?
Sul primo tempo del dibattito non vorrei dilungarmi: una discussione sulla modalità dell'iniziativa dovrebbe essere portata avanti dai promotori stessi, perchè non può che andare di pari passo con una discussione sulle motivazioni dell'iniziativa. Quali sono gli obiettivi? Convincere? Rappresentare? Provocare? Stimolare? La risposta alla critica "dovevate lasciare quel probabilmente" può essere molto diversa in ciascuno dei casi.
Vorrei invece commentare il secondo tempo della discussione, perchè entra più squisitamente nel merito della questione.
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La maggior parte dei critici critica perchè non si sentirebbe di sottoscrivere un'affermazione così forte. Come dicevo, non voglio discutere del fatto che un'affermazione dubitativa sarebbe stata sottoscritta anche dagli agnostici, perchè questo sarebbe tornare a discutere degli scopi dell'iniziativa e quindi delle sue modalità. Voglio invece entrare proprio nel merito della questione "ateismo", e in particolare vorrei rispondere a due domande specifiche: primo, che "sicurezza" abbiamo dell'esistenza di Dio; secondo, se è vero che una posizione scettica forte, atea appunto, sarebbe del tutto simile a una posizione dogmatica e dunque soggetta a tutte le critiche che vengono avanzate verso le religioni.
Le due domande in qualche modo sono legate e credo che tutto il problema sia riconducibile, in fondo, ad una disputa su una parola: "teoria". Un esempio concreto di una simile discussione potete trovarla in calce a un post quasi apparentemente "ingenuo" di Progetto Galileo. Una discussione emblematica, nonostante a un certo punto possa sembrare un accapigliarsi per un dettaglio: quella di Darwin è solo una teoria?
C'è una situazione di fatto nota a tutti e su cui concorderebbero entrambi i contendenti di questa disputa, ed è che la scienza non ha certezze, che si limita a proporre modelli, che questi modelli possono essere corroborati da una mole impressionante di verifiche sperimentali e nonostante ciò possono essere mandati in frantumi anche da una singola falsificazione.
Cio che li tiene distanti mille miglia è il valore di questa incertezza. Stefano insiste sulla mancanza di certezze come un'entità indissolubile e assoluta: o ce l'hai, o è come non avere niente. Sul fronte opposto invece si tengono in conto anche le sfumature: non essere certi di niente non significa che qualsiasi cosa è equivalente a un'altra.
E allora quella di Darwin è solo una teoria, se si va alla ricerca di certezze assolute, di quelle certezze che dopo Berkeley non sappiamo più dove trovare. Che teoria, invece, è quella di Darwin, se si cerca di capire il mondo che ci circonda per come meglio ci riesce!
Per Dio — e non è un'imprecazione — il modo di porsi è lo stesso. Esiste davvero, Dio? E come fai, qualsiasi sia la tua risposta, ad esserne davvero così sicuro?
Lasciamo da parte i credenti: loro su questo, probabilmente, non avrebbero dubbi, in senso assoluto. E, per un attimo, lasciamo da parte anche gli agnostici, che vorrebbero poter non rispondere. Prendiamo gli atei, che rispondono di no, Dio non esiste. Come fanno ad esserne sicuri? Be', la risposta è la stessa del caso di Darwin: non ne sono affatto assolutamente sicuri! Ma sanno che non si può essere sicuri di niente, a quel modo, e che nonostante ciò si può cercare di capire il mondo che ci circonda in modo comunque accettabile, anzi, di cui si può ben andare orgogliosi. Ed evidentemente rispondono di no perchè gli sembra proprio che Dio non esista, e di ciò credono di avere ottime ragioni, le migliori che si possono avere in un mondo in cui non esistono certezze assolute. Che ci volete fare, dicono anche che non esistono UFO di origine extraterrestre, ma, se mettete loro il coltello alla gola dell'aggettivo assoluta, crolleranno e ammetteranno che no, non ne hanno certezza.
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L'obiezione del credente, e probabilmente anche dell'agnostico, è che con Dio non si ha a che fare con una "cosa del mondo", che il trascendente esula completamente dall'indagine scientifica e dunque dalla sua scala di certezze. E di fronte ad un'obiezione del genere, effettivamente, la discussione si deve fermare. Cioè, si potrebbe anche continuare, si potrebbe ribattere che è ingenuo pensare che scienza e fede riguardino due mondi diversi e separati (il famoso NOMA), si potrebbe argomentare, seguendo Quine, sull'unità della nostra conoscenza del reale, ma sarebbe una cosa lunga e noi si era partiti con due domande specifiche.
E torniamo a quelle domande, dunque.
Primo: che sicurezza hanno gli atei della non esistenza di Dio? Be', ognuno potrà specificare la percentuale che preferisce, ma il senso di tutto questo post vorrebbe chiarire che non ha senso ribatter loro "ma come puoi? ne hai forse la prova incontrovertibile?" perchè non è questo che intendono quando si dicono certi della non esistenza di Dio.
Secondo: ma l'ateismo è dunque dogmatico e fondamentalista come una qualsiasi religione? La domanda ovviamente va spezzata: è dogmatico? è fondamentalista? Strettamente parlando non è dogmatico, perchè non pretende di avere la verità rivelata (e da chi, se non c'è un Dio?). Certo che, quanto a "sicurezza" della propria tesi, qualche ateo potrebbe non sentirsi meno certo e irremovibile di un credente. E se questo può bastare a qualcuno per etichettarmi come dogmatico, che etichetti pure.
E sul fondamentalismo?
Be', prima di rispondere sul fondamentalismo dell'ateo, vorrei dar voce subito all'obiezione dei credenti: ma non è vero che siamo tutti fondamentalisti!
La risposta, cioè, è che il fondamentalismo non è legato al carattere di certezza di una convinzione, ma al contenuto specifico della convinzione. Credere che non ci sia niente di trascendente non è necessariamente un credo fondamentalista. Credere che esista un Dio che ci ama, altrettanto. Il problema sorge quando questo Dio che ci ama pretende che tutti "assecondino le sue leggi".
E allora è inutile paragonare il dogmatismo di fede del credente con la spavalda certezza dell'ateo per dedurre che il fondamentalismo delle religioni è nascosto anche dietro chi nega l'esistenza di Dio. Per rispondere davvero alla domanda sul fondamentalismo ateo bisogna rispondere a ben altre domande: gli atei cercano di impedire ai credenti di professare la propria fede? Di praticarla?
Rispondere di no a queste domande non significa dichiararsi agnostico perchè non si sta discutendo nel merito delle convinzioni religiose, ma si sta discutendo di libertà religiosa. E questa cosa, che non sta nè dalla parte dell'ateo, nè dalla parte del credente nè tantomeno dalla parte dell'agnostico, si chiama laicismo.

13 January 2009

Progetto Galileo e Progetto Darwin 2009

Per vostra informazione, oggi è uscito il mio secondo contributo a Progetto Galileo.
Ma la vera notizia è la partenza dell'iniziativa Progetto Darwin 2009: una serie di articoli sull’evoluzionismo che verranno pubblicati nei prossimi mesi per festeggiare i 200 anni dalla nascita di Carletto Darwin e i 150 anni dalla pubblicazione del suo L'origine delle specie. Ci saranno articoli non solo dal punto di vista scientifico e divulgativo, ma anche da punti di vista inusuali e speriamo interessanti.
Sì, a un certo punto potrebbe anche comparire un mio pezzo, ma gli altri saranno sicuramente molto meglio: non perdeteveli!
 
PS/UPDATE
Oggi è già uscito il primo pezzo!

17 March 2008

Non-Overlapping Magisteria

Finalmente trovo il tempo di commentare la mia lettura, ormai lontana nel tempo, del Nonoverlapping magisteria di Gould.
Ecco quel che penso sulla questione.
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Accettiamo pure la distinzione terminologica di Gould e dei suoi magisteri: da una parte l'universo empirico, quel tessuto grigio, nero di fatti e bianco di convenzioni, e dall'altra il mondo di valori, significato e scopo. Ebbene, l'ingenuità più clamorosa di Gould, quasi grossolana, è quella di pensare che tale distinzione valga anche per scienza e religione, e in particolare che la religione limiterebbe il suo magistero alla sfera dei valori.
 
A margine di tutto ciò, al di là di scienza e fede, ci sarebbe anche la piccola sfocatura del pensare che quello empirico e quello dei valori siano davvero mondi separati privi di qualsiasi rapporto reciproco. Parlo di piccola sfocatura perchè le posizioni di Gould a riguardo sono sacrosante. Mi riferisco a quelle posizioni espresse tante volte in molti suoi saggi, ma non in NOMA, contro i ricorrenti tentativi di basare scelte politiche, etiche e morali (spesso di orientamento razzista) sulla base di (presunte) scoperte scientifiche (soprattutto in campo biologico, antropologico e/o etnologico). Su questi temi mi trovo in accordo con Gould senza riserve. Cito Schrödinger solo perchè ho a portata di mano il suo efficace compendio di quella che credo sia anche la posizione di Gould, che condivido:
La vita ha valore in sé. “Rispettare la vita”, così ha compendiato Albert Schweitzer il precetto fondamentale della morale. La natura non ha alcun rispetto per la vita e si comporta con essa come se avesse da fare con ciò che vale di meno al mondo. Prodotta milioni di volte, la più gran parte di essa è tuttavia nuovamente distrutta o data in pasto come preda ad altre vite. Proprio questo è il metodo principale per produrre nuove forme di vita. “Non devi torturare. Non devi infliggere dolore.” La natura non sa nulla di tutto ciò. Le sue creature sono destinate al martirio reciproco, in una lotta continua. “Non vi è nulla né di buono né di cattivo, ma il pensiero rende le cose tali.” Nessun fatto naturale è in se stesso buono o cattivo, e nemmeno bello o brutto. I valori mancano. I valori, e in modo particolare lo scopo e il significato. La natura non agisce finalisticamente. Se parliamo dell’adattamento di un organismo all’ambiente, sappiamo che questo è solo un modo di esprimerci che ci riesce comodo. Se prendiamo la cosa alla lettera, restando nell’àmbito della nostra immagine del mondo, c’inganniamo. In quest’immagine tutto è collegato in maniera strettamente causale.
In questo senso Gould ha ragione da vendere: diffidate da coloro che cercano di convincervi che la loro morale è quella "naturale" o che sarebbe "innaturale" una posizione diversa dalla loro. Soprattutto se non hanno altra argomentazione che questa.
Ma, fermo restando tutto ciò, strettamente parlando non è vero — ed è questa la piccola sfocatura — che il mondo dei valori è rigorosamente separato dal mondo empirico. Certo, il giudizio di valore, ad esempio su un assassino, spetta solo a noi, non è racchiuso nei fatti bruti (sic) dell'assassinio in sè; ma certamente per noi che emettiamo il giudizio sarà ugualmente fondamentale la conoscenza del fatto empirico (è stato davvero lui ad uccidere? come ha ucciso? etc, etc...). L'esempio dell'assassino può sembrare banale, ma si pensi a "descrizioni empiriche" riguardanti lo sviluppo embrionale: la scienza non è chiamata a dare giudizi, solo a descrivere i fatti, ma se emergono particolari nuovi su quei fatti e la loro descrizione "scientifica" cambia, è evidente che anche i nostri giudizi di valore possono uscirne modificati.
 
Ora, per tornare a bomba, questa sorta di subordinazione dei valori alla conoscenza (se la nostra conoscenza cambia, possono cambiare i nostri giudizi, ma non viceversa) è, in fondo, precisamente il motivo per cui gli ambiti religiosi non si limitano affatto alla sfera morale.
 
C'è una famosa contraddizione che riguarda le morali "religiose" e che può essere esposta in maniera semplicissima: uccidere è male perchè lo vieta Dio, o Dio vieta di uccidere perchè è male?
In realtà la contraddizione si scioglie subito in paradosso nonappena ci si rende conto che il quadro generale etico-morale cui il fedele deve (o vuole) attenersi non viene calato da solo dall'alto dei comandamenti divini. Il metro di giudizio che viene professato discende da — o quantomeno va a braccietto con — una concezione completa della realtà: poiché la religione afferma che (Dio le ha rivelato che) l’uomo ha determinate caratteristiche e non altre, che il mondo ha una certa natura e non un'altra, allora è giusto e naturale comportarsi in quel particolare modo piuttosto che in un altro. La religione fornisce un quadro completo, unitario e organico della realtà e dell’uomo.
Di più: in questa cosmologia completa di fatti e valori, quasi sempre sono i fatti, e non i valori, a costituire il messaggio fondante della religione, che sarebbe completamente snaturata se fosse ridotta a mero "contesto empirico" alla propria legge morale. Il cuore del cristianesimo è un fatto concreto — la resurrezione, di Cristo 2000 anni fa e nostra alla fine dei tempi — mentre la scala di valori che ne deriva rappresenta un elemento, se non secondario, appunto "derivato", subordinato.
Tutto questo confuta senza ombra di dubbio l'idea di Gould degli ambiti separati: c'è una sovrapposizione chiara e lampante, un vero e proprio conflitto di interessi fra scienza e religione. Un conflitto dovuto non a giudizi di valore della scienza, alla quale sono completamente estranei, ma ad affermazioni empiriche delle religioni.
 
Visto che ormai sono in ballo, faccio un altro passo, piccolo a questo punto, che dall'evidenza di questa sovrapposizione passa facilmente a scoprire la contraddizione fra scienza e fede. Acettata la sovrapposizione di ambiti, sorge infatti il problema dell'accordo nel merito: il problema dell'eventuale conciliazione fra l'immagine empirica del mondo suggerita dalla scienza in un particolare momento storico, e quella professata — da sempre? — dalla religione.
Ma qui il gioco, come dicevo, è facile. Mi basterebbe fare l'Odifreddi della situazione e citare, ad esempio, le affermazioni sulla verginità di Maria o sulla transustanziazione dell'eucarestia durante la consacrazione — che tra l'altro presuppone una concezione delle cose fatta di sinolo fra forma e sostanza, che è del tutto estranea all'attuale immagine scientifica del mondo. Ma il problema si pone anche se ci limitiamo ad affermazioni più generiche come l'esistenza di Dio stesso o il concetto di anima, l'idea che qualcosa di noi possa sopravvivere alla nostra morte. Tali affermazioni empiriche possono essere apparentemente non in contrasto con la concezione scientifica del mondo (effettivamente la scienza non ha dimostrato esplicitamente e specificatamente che i corpi non potranno resuscitare) oppure possono essere completamente contrarie ad essa (l’età del nostro pianeta, la posizione cosmologica da esso occupata). Nel primo caso vengono accettate (oserei dire ingenuamente) in quanto non apertamente in contraddizione (ma a costo di quali contorti espedienti riconciliatori, a quale prezzo intellettuale!). Nel secondo caso, poichè è costretta a cedere l’affermazione religiosa — non si può sbattere contro un muro e continuare a dire «non esiste» a lungo! — ci si giustifica con una interpretazione allegorica e simbolica di quelle stesse affermazioni.
In definitiva, il fatto stesso che, checché ne dica Gould, le grandi religioni cristiane guardino con grande perplessità (per usare un eufemismo e conceder loro il beneficio del dubbio) alla teoria dell'evoluzione naturale è dovuto a nient'altro che al suo essere in qualche modo in contraddizione con la loro concezione del mondo empirico secondo cui ci sarebbe una differenza (essenziale, fondamentale, ontologica, soprannaturale) fra gli uomini e gli animali, diversa e non solo per grado da qualsiasi altra differenza possa invece sussistere fra i diversi animali.
 
PS
Basterebbero tutto ciò, ma accanto alle singole questioni di merito, in cui uno può mettersi d'impegno e ogni volta cercare una conciliazione, c'è infine anche una questione di metodo: da una parte abbiamo la verità assoluta e rivelata, dall'altra una continua ricerca di essa, senza pretese e senza privilegi di autorità.
In linea di principio uno potrebbe pensare che non si tratti di una differenza problematica: dopotutto, nonostante la spettacolare fecondità del metodo galileiano, il cammino percorso dovrebbe essre irrilevante rispetto alla meta raggiunta: se con la ricerca scientifica ho (ri)trovato la verità rivelata, non ho contraddizioni da risolvere. Ma è una scelta difficile e delicata, perchè lascia ogni volta nel dubbio che tutto il castello crolli all'arrivo di una nuova scoperta che cambi l'immagine scientifica del mondo. O, nella convinzione di fede che una simile eventualità non possa mai verificarsi, rende inutile la ricerca scientifica di una verità già posseduta.

11 February 2008

Darwin day: i pennacchi di San Marco

Quest'anno, a differenza dell'anno scorso, vorrei cogliere l'occasione del Darwin Day per segnalarvi la versione online di un celebre articolo di Stephen Jay Gould e Richard Lewontin che vi propongo:
 
I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss
 
L'aria che si respira in queste poche pagine è davvero lontana anni luce da quella de Il gene egoista. Non è questione di mettere in discussione come errati singoli fenomeni e le loro spiegazioni, come l'interessante concetto di fenotipo esteso, quanto quello di capire qual è l'ordine di importanza, in generale, nella storia della vita sulla Terra, delle spinte adattive rispetto a meccanismi evolutivi di tipo non-adattivo (deriva genetica, allometria, et cetera...).
Per chi non ha mai letto niente di Gould, queste poche pagine possono rappresentare l'occasione per un invitante assaggio della sua prosa.
 
L'UARR di Milano organizza per il Darwin Day una conferenza il 20 febbraio; se invece siete dalle parti di Roma, potete partire da qui; del resto febbraio è un mese ricco di appuntamenti... :)
 
PS
Sullo SWIF potete anche trovare un'intera sezione dedicata a quest'articolo, con una nota introduttiva, un link alla versione originale, un'altra versione italiana corredata di immagini, e del materiale di approfondimento sia sul lato darwiniano ed evoluzionistico, che architettonico.
 
PPS
Lap(l)aciano, non mi sono dimenticato: ho letto nonoverlapping magisteria, prima o poi scriverò un commento...

30 October 2007

Richard Dawkins contro Stephen Jay Gould

Ho finalmente finito di leggere Il gene egoista di Dawkins. Di più, dietro suggerimento di Federico, mi sono anche bevuto il breve libro di Sterelny Kim: Dawkins contro Gould.
Ma non c'è niente da fare, nonostante Kim penda sensibilmente dalla parte di Dawkins, a me continuano a sembrare di gran lunga quelle di Gould, le posizioni le più ragionevoli.
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Intendiamoci, il libro di Dawkins ha dalla sua diversi punti sicuramente positivi. La cosa che mi ha colpito maggiormente, nella parte iniziale del libro, è la sua definizione di gene (che riprende da C. G. Williams). Partendo da una definizione a livello molecolare di selezione naturale come di "sopravvivenza differenziale di entità" — sopravvivenza, è questo il punto, sottoforma di copie — e dando per buona la riproduzione sessuata diploide (con l'abominevole duplicazione dei geni su alleli corrispondenti e crossing-over durante la meiosi che spezza e ricompone la sequenza di basi di ogni cromosoma in frammenti di lunghezza arbitraria), Dawkins propone una definizione intensiva di gene come una qualsiasi porzione di DNA che sia abbastanza piccola da durare per un gran numero di generazioni e da essere distribuita in un gran numero di copie. Una definizione simile, anche se apparentemente vaga, ha il notevole pregio di mettere in evidenza le condizioni minime perchè una porzione di DNA possa essere soggetta al meccanismo di selezione naturale. Sto pensando a tutti quegli studi di bioinformatica e dintorni, che analizzano il codice genetico dal punto di vista della teoria dell'informazione (in termini entropici e statistici) e che possono essere interessati a quella enorme porzione di DNA di ogni organismo che sembra non codificare per nessuna proteina e non avere nemmeno un ruolo attivo nella regolazione genica. In un simile contesto una definizione come quella proposta da Dawkins potrebbe essere molto utile, immagino, perchè tali porzioni di DNA non hanno un fenotipo su cui può esercitarsi una qualche pressione di selezione naturale "tradizionale", basata sull'utilità del fenotipo stesso. Dico "sto pensando" perchè in realtà di questo tipo di studi non si accenna neanche, nel Gene egoista. La ragione più probabile è che al tempo in cui il libro è stato pubblicato (per la prima volta) tali studi non esistevano ancora o quasi; e dunque non se ne può certo fare una colpa a Dawkins. Quel che invece lascia molto perplessi è l'idea che un approccio simile possa essere sufficiente per spiegare l'evoluzione della vita sulla Terra non solo a partire dalle prime molecole replicantisi nel brodo prebiotico primordiale, ma addirittura in tutto il suo ulteriore e complicato svolgimento dietro le doppie mura di una membrana e un nucleo cellulare.
Volendo riassumere in un singolo giudizio, tranchant e semplicistico, le (mie) critiche alle idee di Dawkins, potremmo dire che è ingenuo.
La parte in assoluto più ingenua appare, senza dubbio, quella sulla cosiddetta selezione parentale. La sua teoria potrà anche essere ragionevolmente applicata (e con successo) per spiegare la stranezza del comportamento "sociale" degli insetti a riproduzione aplodiploide (in cui le femmine sono diploidi e i maschi aploidi, e la trasmissione dei dei geni alla generazione successiva avviene attraverso un meccanismo piuttosto complicato...), ma appare troppo semplicistica per essere applicata anche nel caso di specie con socialità molto più complessa come i mammiferi e addirittura alla sociobiologia.
Personalmente avrei da discutere fin dai presupposti teorici alla kin-selection. Non mi è per niente chiaro, infatti, come si risponde all'obiezione che tutti gli organismi appartenenti ad una stessa specie hanno, parenti o meno, oltre il 90% dei geni in comune. In una nota aggiunta ad una ristampa del libro, Dawkins si limita a rimandare ad un suo altro articolo per una risposta a questa obiezione (non poteva almeno accennare all'idea?), limitandosi a dire che i parenti hanno una percentuale di geni in comune oltre alla base comune a tutta la specie. Non capisco però come, seguendo ragionamenti analoghi a quelli di Dawkins, non si possa immaginare un gene che, risiedendo nella parte "comune" del patrimonio genetico di una specie, non fosse stato selezionato per la sua capacità di codificare per un qualche comportamento altruistico nei confronti di un qualsiasi individuo della specie. Ma al di là di questi dettagli che potremmo dire "tecnici", le perplessità fondamentali restano quelle di un meccanismo troppo delicato (la probabilità di far sopravvivere un gene identico presente in un altro organismo imparentato) in un contesto troppo complesso (quello del comportamento sociale di organismi molto evoluti). Di più: tutte le critiche di Gould ai presupposti stessi della sociobiologia, Dawkins o non Dawkins, mi paiono estremamente forti e convincenti, per cui sono portato a un forte scetticismo per tutti i tentativi di spiegare in termini evolutivi semplici dei caratteri molto specifici del comportamento di animali superiori.
Ancor più in generale, quello che mi lascia estremamente scettico sul modo di procedere di Dawkins è questa (non solo sua) tendenza a spiegare un po' tutto sulla base dell'utilità evoluzionistica. Bastano poche letture di Gould per convincersi che le mutazioni geniche non possono produrre qualsiasi cosa e che le infinite potenzialità dell'evoluzione sono letteralmente potate dalle soluzioni adottate contingentemente in una certa fase della storia della vita sulla Terra e che forniscono la base di partenza per ogni sviluppo evolutivo successivo (e allo stesso modo, può non aver sempre senso cercare a tutti i costi di trovare una spiegazione adattiva ad ogni caratteristica di un essere vivente, come, probabilmente, è il caso della mantide religiosa che decapita il suo "sposo" durante l'accoppiamento...). Le possibili forme animali e vegetali teoricamente possibili sono fortemente limitate non solo dai vincoli fisici e strutturali, ma anche e forse soprattutto dai limiti "chimici" dell'esistenza di una mutazione che possa portare a intraprendere una particolare soluzione adattiva (vedi il paradigmatico esempio del pollice del panda). Un altro esempio di questi limiti proveniente da una mia lettura recente (e non si tratta di Gould) è quello della domesticabilità di specie animali e vegetali selvatiche. La lettura, l'avrete subito intuito, è Armi acciaio e malattie [›››]. La domesticazione di una specie vegetale o animale rappresenta una vera e propria speciazione, corrispondente ad una o più mutazioni che corrispondono all'acquisizione di caratteristiche che rendono la specie selvatica adatta alla coltivazione o alla convivenza con l'uomo. Il punto cruciale è che non tutte le specie possono essere domesticate. Ad esempio, quasi tutte le specie di animali africani potenzialmente utili come animali da macello o da forza lavoro non sono stati domesticati perchè, a differenza delle specie della mezzaluna fertile, non esiste una mutazione capace di renderli mansueti, di farli accoppiare in cattività e di farli convivere in branchi ad alta densità abitativa (le stalle negli insediamenti umani). Non sono riusciti nella domesticazione nè gli abitanti indigeni di quei luoghi con la semplice selezione artificiale, nè i moderni etologi armati dei potenti mezzi della biotecnologia. Semplicemente le zebre, i rinoceronti e i leoni della savana non possono essere domesticati. La visione di Dawkins, invece, parte dal presupposto che tutto ciò che è ragionevolmente immaginabile (una zebra docile come un cavallo) può essere realizzato dall'evoluzione e dunque qualsiasi caratteristica di un animale o un vegetale ha una specifica ragion d'essere in termini di utilità e vantaggio per l'individuo (o per il gene, secondo Dawkins). Partire con quest'idea, dunque, colora di ingenuità qualsiasi ulteriore ragionamento. E di fronte a questa ingenuità, anche obiezioni tecniche (come quella di un patrimonio genetico largamente condiviso anche da specie molto diverse) appaiono come le meno rilevanti. Persino obiezioni e dubbi sulla nascita del presupposto tecnico basilare per la teoria di Dawkins, la riproduzione sessuata diploide, che resta senza risposta (almeno nei semplicistici termini di Dawkins).
Per par conditio, concluderò citando comunque un altro paio di cose che ho trovato molto interessanti del Gene egoista, e che spiccano sulla generale atmosfera di ingenutià che si respira per il libro. Una è l'idea del fenotipo esteso. Per quanto possa non avere grandi conseguenze pratiche, trovo del tutto ragionevole considerare concettualmente come elementi codificati dai geni anche dei tratti esterni all'organismo come le case dei tricotteri o le dighe dei castori. L'altra cosa interessante è la spiegazione in termini di teoria dei giochi e di strategie evolutivamente stabili di alcuni comportamenti sociali elementari (e sottolineo elementari) che pur essendo all'apparenza altruistici, sono in realtà il risultato di una selezione "egoistica" sulla base del bene del singolo individuo. Si noti, comunque, che si tratta di un comportamento di gruppo che non ha basi parentali e che vede comunque nell'organismo, e non nel singolo gene, l'unità di base per la selezione.
 
PS
Merita un poscritto anche la contrapposizione fra Dawkins e Gould su un piano diverso da quello strettamente evoluzionistico, ovvero su quello della concezione della scienza. Sterelny Kim include anche questi temi nella contrapposizione fra i due scienziati, ma io considero questo un argomento completamente a sé stante. La posizione di Dawkins, su questi temi, è in gran parte completamente condivisibile e, al contrario, le ultime prese di posizione di Gould, soprattutto nei confronti della religione, compendiate nel suo ultimo libro (che però non ho letto), mi trovano tendenzialmente in forte disaccordo. Tuttavia, di nuovo, anche sulla questione della natura della scienza e del metodo scientifico, le posizioni di Dawkins tendono spesso ad essere troppo semplicistiche e non posso che trovare sacrosante le obiezioni che Gould solleva a queste sue ingenità, sia sottolineando l'ineluttabile storicità del processo scientifico (soprattutto perchè quello di Gould è un relativismo scientifico, non un relativismo tout court), quanto e soprattutto argomentando contro i tentativi di ammantare di rigore scientifico i metodi e i risultati della sociobiologia.