Continua la serie di post in risposta ad un commento del post precedente (si era già off-topic e la mia risposta si allungava...)
Ciò che evolve deve avere tre caratteristiche. Primo, deve esistere, secondo deve mantenere un’identità attraverso il tempo, terzo deve cambiare. Entità come specie, genere, famiglia e così via non esistono nella realtà, ma sono definibili solo arbitrariamente, perciò (e per altri motivi) le escluderei. L’individuo, o il gene, non hanno una continuità individuale nel tempo. L’individuo muore, il gene scompare oppure diventa un altro gene e non è più se stesso. Perciò li escluderei. (E’ da notare che ciò che evolve è ente diverso da ciò che viene selezionato, in quanto la selezione è sempre negativa, taglia e basta. Quindi l’individuo o il gene possono essere ciò che viene selezionato, ma non ciò che evolve). Direi che l’unico che può ambire al titolo è la popolazione, intesa come insieme di individui fra cui c’è scambio genico. Ancora meglio, il pool allelico della popolazione. Esiste, attraversa il tempo mantenendo una propria individualità, ma cambia mano a mano.
Non vorrei aprire un dibattito ontologico (quando scopri Quine, frasi come "per prima cosa qualcosa deve esistere", "sono definibili solo arbitrariamente, quindi non esistono", lasciano il tempo che trovano...), però, però...
Intendiamoci: a naso il tuo discorso mi piace e direi che mi trova perfettamente d'accordo.
Ma anche la vita, nel suo complesso, esiste, attraversa il tempo mantenendo una propria individualità, e cambia mano a mano.
Sì, questa mia è una provocazione, però la tua precisazione secondo cui ciò che viene selezionato è qualcosa di diverso da ciò che evolve mi insinua il dubbio se si stia discutendo di nomi o di cose.
Il dibattito Gould-Dawkins su quale sia il soggetto fondamentale dell'evoluzione non è un dibattito aristotelico sull'essenza e gli accidenti, ma cerca invece proprio di stabilire quale sia, se ci sia, un piano principale su cui agisce la selezione naturale. Volendo semplificare, per Dawkins la selezione non avviene a livello di specie, di gruppo né di individuo, ma a livello di gene (opportunamente definito in maniera intensiva come una qualsiasi porzione di DNA che sia abbastanza piccola da durare per un gran numero di generazioni e da essere distribuita in un gran numero di copie). Certamente se questa tesi, come si legge in giro, si traducesse semplicemente nel fatto che oggetto dell'evoluzione è solo la distribuzione di frequenza allelica di una popolazione, tu e Dawkins andreste felicemente a braccetto. Se poi si facesse notare che, nei casi più semplici, la tua definizione di popolazione come insieme di individui fra cui c’è scambio genico è ampiamente sovrapponibile all'usuale definizione di specie, anche Gould non ti riserverebbe sguardi troppo torvi.
Da una parte, la scoperta di DNA non-codificante, e più in generale la possibilità di analisi statistiche a livello di sequenze nucleotidiche, ha aperto le porte a tutto un modo, spesso fenotipicamente cieco, che si presta magnificamente all'approccio di Dawkins. Dall'altra (io cito sempre l'articolo con Lewontin I pennacchi di San Marco) è evidente che esistano spinte evolutive su piani così diversi (coadattamento, pleiotropia, flusso genico, simbiosi, deriva genetica, allometria...) che sarebbe ingenuo limitarsi ad un singolo approccio.
E allora certo, se consideriamo l'andamento temporale del pool allelico di una popolazione fra cui c'è scambio genico, potremo osservare precisamente, e magnificamente, un andamento evolutivo squisitamente darwiniano. Questo approccio, però, privilegiando il concetto di allele, ignora di principio tutte quelle dinamiche non-alleliche, su cui pure, seguendo Dawkins, si possono innestare meccanismi darwiniani di selezione.
Allo stesso modo, poi, è possibile montare un grandangolo sulla nostra prospettiva e considerare l'evoluzione di popolazioni, di specie, da un punto di vista che sì, potremmo dire ecologico e che sì, si presta bene ad un'analisi "banalmente" Malthusiana à la Lotka-Volterra, ma su cui potremmo ugualmente identificare, sul lungo periodo, dinamiche adattive di tipo darwiniano.
Sono d'accordo, puoi benissimo dire che per una gazzella il ghepardo è semplicemente un fattore ambientale e che i veri competitor della gazzella sono le gazzelle sue simili. Ma questa io la considero (semplicemente) una prospettiva in più (feconda e illuminante), non la prospettiva a cui ricondurre tutte le altre, a quel punto irrilevanti.
Per esempio, prendiamo la tua metafora delle ciotole adattive: è bellissima perché mette in evidenza l'esistenza di vincoli "genetici" (la compatibilità o la competizione fra alcuni caratteri funzionali espressi da certi geni che "compongono" lo stesso organismo) che possono essere altrettanto o addirittura più forti di vincoli più "visibili" come certe caratteristiche ambientali o l'esistenza di determinati predatori o competitori ecologici — a questo proposito mi vengono sempre in mente gli esempi di Diamond sul fatto che zebre, rinoceronti e leoni della savana, potenzialmente utili come animali da macello o da forza lavoro, non sono stati domesticati perché, a differenza delle specie della mezzaluna fertile, non esiste una mutazione capace di renderli mansueti, di farli accoppiare in cattività e di farli convivere in branchi ad alta densità abitativa (le stalle negli insediamenti umani).
Però questo non toglie che, accanto a questi vincoli genetici, gli altri vincoli restino, ed ha poco senso zoomare sempre a livello allelico per descrivere forzanti ecologiche, fisiche, geometriche, che si esplicano a livello di singolo individuo, di popolazione o di specie.
7 comments:
Mi scuso fin dall’inizio, per la mole del commento, ma è roba di cui mi piace discutere. Mi inviti a nozze a tuo rischio e pericolo.
Prima di entrare nel merito della discussione, vorrei chiarire quale sia il mio punto di vista riguardo alcuni argomenti, così almeno sappiamo se stiamo parlando della stessa cosa.
L’esistenza… Io trovo che esistano, in natura, con ciò intendendo senza bisogno di vincoli arbitrari, o, per meglio dire, anche fuori dalla nostra testa, alcune categorie. “Popolazione” mi pare per lo più accettabile (con la riserva di qualche pezzetto di dna virale qui e là),”individuo” è già più complessa (penso al fenotipo esteso), “clade monofiletico” è buona e univoca, ma è arbitraria nell’individuare nel tempo il progenitore comune. “Specie” non ha una definizione, ne ha cento, a seconda di quale sia il campo in cui si sta usando il termine. E nessuna di esse funziona indipendentemente dal campo in cui è usata. Tutte le altre categorie tassonomiche di livello superiore sono, o vorrebbero essere, cladi monofiletici, con l’alea di cui sopra, e cioè da dove dobbiamo far iniziare la parentela per parlare di genere invece che di famiglia? E’ un criterio arbitrario. Alla fin fine tutta la vita è un clade monofiletico. E sono sicuro che un tassonomo marziano avrebbe individuato categorie diverse (non che i nostri tassonomi sembrino terrestri, beninteso). Per questo mi sembra doveroso limitarsi a considerare categorie che abbiano un riscontro univoco nel reale. Se tu mi dicessi che è la specie che evolve, io ti chiederei di definirla, e per ogni definizione ti troverei un’eccezione, e credo che a forza di modificare la definizione si arriverebbe a qualcosa di molto simile al mio pool allelico di popolazione.
Poi, credo di essere stato un po’ troppo sintetico nella mia risposta, ma sarà l’argomento di un mio prossimo post. Comunque il punto fondamentale è questo: la selezione è sempre negativa. In altri termini, in assenza di qualunque pressione selettiva, ogni individuo si riproduce. L’implicazione di ciò è che l’ente che evolve è l’insieme degli enti che vengono selezionati. Non può essere l’ente che viene selezionato, per via che la selezione è solo negativa, e quindi chi viene selezionato scompare dalla linea germinale (direi per definizione. Un possibile casino semantico viene magari dalla selezione, chessò, di razze canine. Si dice di selezionare i migliori, ma in realtà sono i peggiori che vengono selezionati, e tolti dalla razza). Capirai quindi, e mi scuso nel dirtelo, come mi si arriccino i mignoli dei piedi quando leggo di “spinte evolutive”. Come può esistere una spinta evolutiva in assenza di finalismo? Come può esistere una spinta evolutiva se la selezione taglia e basta?
Per inciso, il dna non codificante non è fenotipicamente cieco. Esiste, quindi ha un’espressione fenotipica. Che poi questa possa venire cooptata per altri utilizzi, i quali portino a espressioni fenotipiche più eclatanti della mera esistenza, è indiscutibile meccanismo evolutivo. Che questo possa, _a posteriori_ essere visto come exaptation, anche è indiscutibile. Non a priori, però, altrimenti presupponiamo un finalismo.
Io non trovo antitetiche le posizioni di Dawkins e di Gould, almeno in linea di principio e prima dei casini fomentati ad arte (da entrambi, e da terzi). Dawkins, prima di diventare un guru, proponeva il suo gene egoista solo come angolo visuale euristicamente valido, e Gould aveva una visione d’insieme, anche o soprattutto storica e umanistica, insuperata, la quale, a volte, lo faceva scivolare nel finalismo. Ma entrambi parlavano correttamente dello stesso ambito scientifico, da angoli visuali diversi. Ho la sconfinata, gargantuelica presunzione di piazzarmi in mezzo, e di parlare non di un gene, e neppure di un genere, ma di un pool allelico.
Beh, intanto ho aperto, forse, un ambito di discussione.
In realtà ci contavo, in una tuo (approfondito) commento: è precisamente il motivo per cui ti ho risposto con un nuovo post, per mettere la discussione in un thread dedicato.
Purtroppo i tempi di questo blog sono molto lunghi, e di ambiti di discussione aperti in realtà ce ne sono parecchi, seppur intrecciati — i nomi e le cose (diciamo, per non esagerare, limitatamente alla tassonomia), le spinte evolutive e i mignoli dei piedi, il fenotipo del DNA non-codificante (ma anche tu, diamine, "esiste, quindi ha un’espressione fenotipica", ma perché devi sempre buttarla sull'ontologia?), il finalismo (Dio me ne scampi!), il giusto mezzo fra Dawkins e Gould (anch'io, anch'io!), etc etc... — per cui dovrò appellarmi alla tua pazienza, in attesa di una risposta nel merito.
Stay tuned.
Mi sa che mi conviene rispondere a pezzetti, così comincio a buttar fuori qualcosa, altrimenti la discussione non parte.
E comincio subito con l'intento di rilassare i mignoli dei tuoi piedi, ché anch'io mi surriscaldo facilmente a sentir parlare di teleologia e miglioramenti in ambito evolutivo. Ma da queste parti, suvvia, siamo tutti darwinisti vaccinati, possiamo benissimo parlare per metafore senza dover spiegare ogni volta che non c'è nessun orologiaio dietro.
Devo davvero tradurre in linguaggio non-finalistico un'espressione come "pressione evolutiva"?
Quando un cambiamento ambientale produce una selezione (va bene, prendiamola nel tuo senso minimalista di "potatura") che "punisce" certe caratteristiche e ne "lascia passare" altre, usiamo l'espressione metaforica, molto colorita e da non prendere alla lettera, di "pressione evolutiva" verso quei caratteri "più adatti" al nuovo ambiente.
Devo rifrasare anche l'espressione, apparentemente più finalistica, di "spinta evolutiva"?
Quando qualche individuo o un sottogruppo di una popolazione "decide" di sfruttare più intensamente una qualche risorsa marginale (tipo, chessò, scendere dagli alberi, o allargarsi verso un habitat vicino ma diverso, ad esempio perché improvvisamente resosi accessibile orograficamente, o perché una nicchia ecologica si è svuotata per chissà quale ragione, etc etc), su quegli individui si manifestano delle pressioni evolutive (da intendersi in maniera a-finalistica come spiegato sopra) che privilegiano (che lasciano passare, a scapito di altri) adattamenti fisiologici più o meno specifici per il nuovo ambiente.
Ovviamente — devo precisarlo? — tali pressioni non individuano un percorso univoco ed ascendente (come quello dalla scimmia verso l'uomo, così copiosamente riprodotto a mo' di fila indiana), l'evoluzione procede "a cespusglio", meglio ancora "a corallo", la selezione è in negativo, etc, etc, etc...
Come stanno i tuoi piedi?
To be continued.
Sul fatto che il DNA non-codificante sia fenotipicamente cieco: non ho letto molto a riguardo e il mio esempio sarà puramente ipotetico, ma immagina che nelle fasi di duplicazione alcune sequenze di DNA siano state in grado di escogitare dei meccanismi per fare copie di se stesse, in modo da aumentarne la propria frequenza di apparizione (all'interno dell'introne, senza intaccare l'esone). Siccome tali sequenze non sarebbero comunque tradotte, il loro effetto sarebbe virtualmente nullo sull'organismo. Ora, io credo di capire cosa intendi con "esistono, quindi hanno un'espressione fenotipica": tali ipotetiche sequenze autoreplicantesi avrebbero alla lunga comunque un qualche effetto (e.g. rallentare o rendere meno efficiente o addirittura compromettere del tutto la duplicazione o la trascrizione...) che potrebbe venir selezionato "fenotipicamente".
Ma questa obiezione non coglie il punto delle mie considerazioni, le quali, quando insistono nel dire che l'evoluzione avviene su più livelli, vogliono sottolineare la presenza di una grande varietà di meccanismi in gioco, per cui, per "capire" un particolare risultato evolutivo (un individuo, una popolazione, una specie, un habitat, un ecosistema), bisogna tener conto di vincoli e "pressioni" (vedi mio commento precedente) a diversi livelli (molecolare, fisico, geografico, ecologico...), oltre che, ça va sans dire, della contingenza.
(To be continued)
I miei piedi stanno meglio, grazie. Però, e permettimi la pedanteria, è sempre bene usare i termini corretti. Le analogie e le metafore ci possono stare, ma hanno un costo, che è quello di doversene continuamente ricordare, ricordarsi che sono analogie e metafore. E ogni tanto lo si dimentica, e ci si confonde. Per farti un esempio, e anticiparti il mio prossimo post, la selezione di parentela è normalmente intesa come un mezzo per portare il maggior numero possibile dei propri geni alla prossima generazione. In realtà si confonde la causa con l’effetto. Quello che si duplica, e che passa, è il gene per aiutare i parenti. Il fatto che i parenti condividano, oltre al gene per aiutare i parenti, anche un buon numero degli altri geni dell’aiutante, è una conseguenza, non la causa. E la confusione viene dalla metafora evoluzione/economia, metafora euristicamente valida, salvo i casi in cui ci si dimentica che la gazza che aiuta al nido non ha la più pallida idea di cosa siano i geni e comunque non gliene potrebbe fregare di meno delle percentuali.
Il dna non codificante… Ha un’espressione fenotipica nell’esistere, dicevo. E’ punto di rilievo anche quello che tu noti, anche se le salamandre non sembrano portarne il peso. Ma c’è chi dice che il dna spazzatura possa avere funzione strutturale. Comunque io mi riferivo più esattamente al punto di vista gouldiano, delle exaptation (in senso moooolto lato). Io direi che ogni singolo fottuto gene sia stato, a suo tempo, dna non codificante. Voglio dire, se tu hai tutti e solo i geni che ti servono, ogni (in prima approssimazione), ogni mutazione ti frega. E’ straordinariamente improbabile che tu possa liberare dalla sua funzione un gene indispensabile con una mutazione, e ottenere un gene funzionale non solo come tappabuchi per lo scopo precedente, ma anche per un altro, diverso, scopo. Duplicazioni inutili e non funzionali sono materia prima per esperimenti evolutivi. In questo senso dicevo che l’espressione fenotipica della mera esistenza di pezzi di dna non è irrilevante.
Quanto al tuo ultimo paragrafo, dobbiamo, temo, chiarire ancora alcuni punti. Posso essere d’accordo (ma voglio pensarci meglio) che _la selezione_ avvenga su più livelli. Anche se mi sembra più un modo di vederla che un dato di realtà. Ma sull’evolvere, su cosa sia che evolve, credo dovremmo discutere ancora un po’.
Bello parlarne, comunque.
Danilo: mai sentito parlare di genetica non mendeliana? Suppongo di no, da come pontifichi su cose di cui non hai la piu' pallida idea
Tupaia, ma sei davvero tu?
Scusate il ritardo, provo a concludere il mio commento.
Sulla questione dell'esistenza, provo a farla molto breve.
Il fatto è che non esistono definizioni univoche in un qualche senso assoluto del termine: per ogni definizione è possibile evidenziare casi di confine, in cui la situazione è sfumata e le distinzioni problematiche. Rendersi conto di questo, però, non significa accettare un relativismo radicale: il punto è capire la rilevanza di tali situazioni limite rispetto alla questione su cui la definizione pretendeva di essere pertinente.
Il fatto che ci siano innumerevoli definizioni di specie, per tornare a noi, non significa, di per sé, che il concetto sia vuoto o inconsistente, almeno fintantoché le diverse definizioni non pretendano di essere hegelianamente intercambiabili: potrebbe benissimo darsi che diversi contesti abbiano bisogno di diversi tratti caratteristici, e che tali concetti diversi abbiano tuttavia un'elevata sovrapposizione tale da indurre all'uso di un medesimo termine, quello di specie, a dispetto di più o meno sottili differenze. Le critiche dovrebbero evidenziare inconsistenze fra la particolare definizione e il ruolo che tale definizione dovrebbe ricoprire in quel particolare contesto: pensare di poter cercare, per una definizione, un riscontro assoluto con la realtà significa credere nel mito del museo secondo cui, come le etichette si riferiscono agli oggetti esposti nelle bacheche di un museo, così le parole si riferirebbero alle cose.
Ora, se il tuo intento era sottolineare che in un contesto evoluzionistico il concetto più appropriato di "specie", o meglio, quello più appropriato se si cerca il mattone fondamentale su cui si applicano le principali dinamiche evolutive, è quello di popolazione, ben venga una tale definizione. L'esistenza, però, anche per questa particolare definizione, anche in questo particolare contesto, di casi limite e l'esistenza di dinamiche che si esplicano eminentemente su piani diversi da quello di popolazione — perché agenti a livelli più fini, come quello di gene o addirittura di sequenza; o perché agenti a livelli più grandi, come quello di ecosistema o di bauplan — mi fa propendere verso una visione meno riduzionista del processo evolutivo.
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