Ho finalmente finito di leggere Il gene egoista di Dawkins. Di più, dietro suggerimento di Federico, mi sono anche bevuto il breve libro di Sterelny Kim: Dawkins contro Gould.
Ma non c'è niente da fare, nonostante Kim penda sensibilmente dalla parte di Dawkins, a me continuano a sembrare di gran lunga quelle di Gould, le posizioni le più ragionevoli.
— ∴ —
Intendiamoci, il libro di Dawkins ha dalla sua diversi punti sicuramente positivi. La cosa che mi ha colpito maggiormente, nella parte iniziale del libro, è la sua definizione di gene (che riprende da C. G. Williams). Partendo da una definizione a livello molecolare di selezione naturale come di "sopravvivenza differenziale di entità" — sopravvivenza, è questo il punto, sottoforma di copie — e dando per buona la riproduzione sessuata diploide (con l'abominevole duplicazione dei geni su alleli corrispondenti e crossing-over durante la meiosi che spezza e ricompone la sequenza di basi di ogni cromosoma in frammenti di lunghezza arbitraria), Dawkins propone una definizione intensiva di gene come una qualsiasi porzione di DNA che sia abbastanza piccola da durare per un gran numero di generazioni e da essere distribuita in un gran numero di copie. Una definizione simile, anche se apparentemente vaga, ha il notevole pregio di mettere in evidenza le condizioni minime perchè una porzione di DNA possa essere soggetta al meccanismo di selezione naturale. Sto pensando a tutti quegli studi di bioinformatica e dintorni, che analizzano il codice genetico dal punto di vista della teoria dell'informazione (in termini entropici e statistici) e che possono essere interessati a quella enorme porzione di DNA di ogni organismo che sembra non codificare per nessuna proteina e non avere nemmeno un ruolo attivo nella regolazione genica. In un simile contesto una definizione come quella proposta da Dawkins potrebbe essere molto utile, immagino, perchè tali porzioni di DNA non hanno un fenotipo su cui può esercitarsi una qualche pressione di selezione naturale "tradizionale", basata sull'utilità del fenotipo stesso. Dico "sto pensando" perchè in realtà di questo tipo di studi non si accenna neanche, nel Gene egoista. La ragione più probabile è che al tempo in cui il libro è stato pubblicato (per la prima volta) tali studi non esistevano ancora o quasi; e dunque non se ne può certo fare una colpa a Dawkins. Quel che invece lascia molto perplessi è l'idea che un approccio simile possa essere sufficiente per spiegare l'evoluzione della vita sulla Terra non solo a partire dalle prime molecole replicantisi nel brodo prebiotico primordiale, ma addirittura in tutto il suo ulteriore e complicato svolgimento dietro le doppie mura di una membrana e un nucleo cellulare.
Volendo riassumere in un singolo giudizio, tranchant e semplicistico, le (mie) critiche alle idee di Dawkins, potremmo dire che è ingenuo.
La parte in assoluto più ingenua appare, senza dubbio, quella sulla cosiddetta selezione parentale. La sua teoria potrà anche essere ragionevolmente applicata (e con successo) per spiegare la stranezza del comportamento "sociale" degli insetti a riproduzione aplodiploide (in cui le femmine sono diploidi e i maschi aploidi, e la trasmissione dei dei geni alla generazione successiva avviene attraverso un meccanismo piuttosto complicato...), ma appare troppo semplicistica per essere applicata anche nel caso di specie con socialità molto più complessa come i mammiferi e addirittura alla sociobiologia.
Personalmente avrei da discutere fin dai presupposti teorici alla kin-selection. Non mi è per niente chiaro, infatti, come si risponde all'obiezione che tutti gli organismi appartenenti ad una stessa specie hanno, parenti o meno, oltre il 90% dei geni in comune. In una nota aggiunta ad una ristampa del libro, Dawkins si limita a rimandare ad un suo altro articolo per una risposta a questa obiezione (non poteva almeno accennare all'idea?), limitandosi a dire che i parenti hanno una percentuale di geni in comune oltre alla base comune a tutta la specie. Non capisco però come, seguendo ragionamenti analoghi a quelli di Dawkins, non si possa immaginare un gene che, risiedendo nella parte "comune" del patrimonio genetico di una specie, non fosse stato selezionato per la sua capacità di codificare per un qualche comportamento altruistico nei confronti di un qualsiasi individuo della specie. Ma al di là di questi dettagli che potremmo dire "tecnici", le perplessità fondamentali restano quelle di un meccanismo troppo delicato (la probabilità di far sopravvivere un gene identico presente in un altro organismo imparentato) in un contesto troppo complesso (quello del comportamento sociale di organismi molto evoluti). Di più: tutte le critiche di Gould ai presupposti stessi della sociobiologia, Dawkins o non Dawkins, mi paiono estremamente forti e convincenti, per cui sono portato a un forte scetticismo per tutti i tentativi di spiegare in termini evolutivi semplici dei caratteri molto specifici del comportamento di animali superiori.
Ancor più in generale, quello che mi lascia estremamente scettico sul modo di procedere di Dawkins è questa (non solo sua) tendenza a spiegare un po' tutto sulla base dell'utilità evoluzionistica. Bastano poche letture di Gould per convincersi che le mutazioni geniche non possono produrre qualsiasi cosa e che le infinite potenzialità dell'evoluzione sono letteralmente potate dalle soluzioni adottate contingentemente in una certa fase della storia della vita sulla Terra e che forniscono la base di partenza per ogni sviluppo evolutivo successivo (e allo stesso modo, può non aver sempre senso cercare a tutti i costi di trovare una spiegazione adattiva ad ogni caratteristica di un essere vivente, come, probabilmente, è il caso della mantide religiosa che decapita il suo "sposo" durante l'accoppiamento...). Le possibili forme animali e vegetali teoricamente possibili sono fortemente limitate non solo dai vincoli fisici e strutturali, ma anche e forse soprattutto dai limiti "chimici" dell'esistenza di una mutazione che possa portare a intraprendere una particolare soluzione adattiva (vedi il paradigmatico esempio del pollice del panda). Un altro esempio di questi limiti proveniente da una mia lettura recente (e non si tratta di Gould) è quello della domesticabilità di specie animali e vegetali selvatiche. La lettura, l'avrete subito intuito, è Armi acciaio e malattie [›››] . La domesticazione di una specie vegetale o animale rappresenta una vera e propria speciazione, corrispondente ad una o più mutazioni che corrispondono all'acquisizione di caratteristiche che rendono la specie selvatica adatta alla coltivazione o alla convivenza con l'uomo. Il punto cruciale è che non tutte le specie possono essere domesticate. Ad esempio, quasi tutte le specie di animali africani potenzialmente utili come animali da macello o da forza lavoro non sono stati domesticati perchè, a differenza delle specie della mezzaluna fertile, non esiste una mutazione capace di renderli mansueti, di farli accoppiare in cattività e di farli convivere in branchi ad alta densità abitativa (le stalle negli insediamenti umani). Non sono riusciti nella domesticazione nè gli abitanti indigeni di quei luoghi con la semplice selezione artificiale, nè i moderni etologi armati dei potenti mezzi della biotecnologia. Semplicemente le zebre, i rinoceronti e i leoni della savana non possono essere domesticati. La visione di Dawkins, invece, parte dal presupposto che tutto ciò che è ragionevolmente immaginabile (una zebra docile come un cavallo) può essere realizzato dall'evoluzione e dunque qualsiasi caratteristica di un animale o un vegetale ha una specifica ragion d'essere in termini di utilità e vantaggio per l'individuo (o per il gene, secondo Dawkins). Partire con quest'idea, dunque, colora di ingenuità qualsiasi ulteriore ragionamento. E di fronte a questa ingenuità, anche obiezioni tecniche (come quella di un patrimonio genetico largamente condiviso anche da specie molto diverse) appaiono come le meno rilevanti. Persino obiezioni e dubbi sulla nascita del presupposto tecnico basilare per la teoria di Dawkins, la riproduzione sessuata diploide, che resta senza risposta (almeno nei semplicistici termini di Dawkins).
Per par conditio, concluderò citando comunque un altro paio di cose che ho trovato molto interessanti del Gene egoista, e che spiccano sulla generale atmosfera di ingenutià che si respira per il libro. Una è l'idea del fenotipo esteso. Per quanto possa non avere grandi conseguenze pratiche, trovo del tutto ragionevole considerare concettualmente come elementi codificati dai geni anche dei tratti esterni all'organismo come le case dei tricotteri o le dighe dei castori. L'altra cosa interessante è la spiegazione in termini di teoria dei giochi e di strategie evolutivamente stabili di alcuni comportamenti sociali elementari (e sottolineo elementari) che pur essendo all'apparenza altruistici, sono in realtà il risultato di una selezione "egoistica" sulla base del bene del singolo individuo. Si noti, comunque, che si tratta di un comportamento di gruppo che non ha basi parentali e che vede comunque nell'organismo, e non nel singolo gene, l'unità di base per la selezione.
PS
Merita un poscritto anche la contrapposizione fra Dawkins e Gould su un piano diverso da quello strettamente evoluzionistico, ovvero su quello della concezione della scienza. Sterelny Kim include anche questi temi nella contrapposizione fra i due scienziati, ma io considero questo un argomento completamente a sé stante. La posizione di Dawkins, su questi temi, è in gran parte completamente condivisibile e, al contrario, le ultime prese di posizione di Gould, soprattutto nei confronti della religione, compendiate nel suo ultimo libro (che però non ho letto), mi trovano tendenzialmente in forte disaccordo. Tuttavia, di nuovo, anche sulla questione della natura della scienza e del metodo scientifico, le posizioni di Dawkins tendono spesso ad essere troppo semplicistiche e non posso che trovare sacrosante le obiezioni che Gould solleva a queste sue ingenità, sia sottolineando l'ineluttabile storicità del processo scientifico (soprattutto perchè quello di Gould è un relativismo scientifico, non un relativismo tout court), quanto e soprattutto argomentando contro i tentativi di ammantare di rigore scientifico i metodi e i risultati della sociobiologia.