Ecco quel che penso sulla questione.
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Accettiamo pure la distinzione terminologica di Gould e dei suoi magisteri: da una parte l'universo empirico, quel tessuto grigio,
nero di fatti e bianco di convenzioni, e dall'altra il mondo di valori, significato e scopo. Ebbene, l'ingenuità più clamorosa di Gould, quasi grossolana, è quella di pensare che tale distinzione valga anche per scienza e religione, e in particolare che la religione limiterebbe il suo
magistero alla sfera dei valori.
A margine di tutto ciò, al di là di scienza e fede, ci sarebbe anche la piccola sfocatura del pensare che quello empirico e quello dei valori siano davvero mondi separati privi di qualsiasi rapporto reciproco. Parlo di piccola sfocatura perchè le posizioni di Gould a riguardo sono sacrosante. Mi riferisco a quelle posizioni espresse tante volte in molti suoi saggi, ma non in NOMA, contro i ricorrenti tentativi di basare scelte politiche, etiche e morali (spesso di orientamento razzista) sulla base di (presunte) scoperte scientifiche (soprattutto in campo biologico, antropologico e/o etnologico). Su questi temi mi trovo in accordo con Gould senza riserve. Cito Schrödinger solo perchè ho a portata di mano il suo efficace compendio di quella che credo sia anche la posizione di Gould, che condivido:
La vita ha valore in sé. “Rispettare la vita”, così ha compendiato Albert Schweitzer il precetto fondamentale della morale. La natura non ha alcun rispetto per la vita e si comporta con essa come se avesse da fare con ciò che vale di meno al mondo. Prodotta milioni di volte, la più gran parte di essa è tuttavia nuovamente distrutta o data in pasto come preda ad altre vite. Proprio questo è il metodo principale per produrre nuove forme di vita. “Non devi torturare. Non devi infliggere dolore.” La natura non sa nulla di tutto ciò. Le sue creature sono destinate al martirio reciproco, in una lotta continua. “Non vi è nulla né di buono né di cattivo, ma il pensiero rende le cose tali.” Nessun fatto naturale è in se stesso buono o cattivo, e nemmeno bello o brutto. I valori mancano. I valori, e in modo particolare lo scopo e il significato. La natura non agisce finalisticamente. Se parliamo dell’adattamento di un organismo all’ambiente, sappiamo che questo è solo un modo di esprimerci che ci riesce comodo. Se prendiamo la cosa alla lettera, restando nell’àmbito della nostra immagine del mondo, c’inganniamo. In quest’immagine tutto è collegato in maniera strettamente causale.
In questo senso Gould ha ragione da vendere: diffidate da coloro che cercano di convincervi che la loro morale è quella "naturale" o che sarebbe "innaturale" una posizione diversa dalla loro. Soprattutto se non hanno altra argomentazione che questa.
Ma, fermo restando tutto ciò, strettamente parlando non è vero — ed è questa la piccola sfocatura — che il mondo dei valori è rigorosamente separato dal mondo empirico. Certo, il giudizio di valore, ad esempio su un assassino, spetta solo a noi, non è racchiuso nei fatti bruti (sic) dell'assassinio in sè; ma certamente per noi che emettiamo il giudizio sarà ugualmente fondamentale la conoscenza del fatto empirico (è stato davvero lui ad uccidere? come ha ucciso? etc, etc...). L'esempio dell'assassino può sembrare banale, ma si pensi a "descrizioni empiriche" riguardanti lo sviluppo embrionale: la scienza non è chiamata a dare giudizi, solo a descrivere i fatti, ma se emergono particolari nuovi su quei fatti e la loro descrizione "scientifica" cambia, è evidente che anche i nostri giudizi di valore possono uscirne modificati.
Ora, per tornare a bomba, questa sorta di subordinazione dei valori alla conoscenza (se la nostra conoscenza cambia, possono cambiare i nostri giudizi, ma non viceversa) è, in fondo, precisamente il motivo per cui gli ambiti religiosi non si limitano affatto alla sfera morale.
C'è una famosa contraddizione che riguarda le morali "religiose" e che può essere esposta in maniera semplicissima: uccidere è male perchè lo vieta Dio, o Dio vieta di uccidere perchè è male?
In realtà la contraddizione si scioglie subito in paradosso nonappena ci si rende conto che il quadro generale etico-morale cui il fedele deve (o vuole) attenersi non viene calato da solo dall'alto dei comandamenti divini. Il metro di giudizio che viene professato discende da — o quantomeno va a braccietto con — una concezione completa della realtà: poiché la religione afferma che (Dio le ha rivelato che) l’uomo ha determinate caratteristiche e non altre, che il mondo ha una certa natura e non un'altra, allora è giusto e naturale comportarsi in quel particolare modo piuttosto che in un altro. La religione fornisce un quadro completo, unitario e organico della realtà e dell’uomo.
Di più: in questa cosmologia completa di fatti e valori, quasi sempre sono i fatti, e non i valori, a costituire il messaggio fondante della religione, che sarebbe completamente snaturata se fosse ridotta a mero "contesto empirico" alla propria legge morale. Il cuore del cristianesimo è un fatto concreto — la
resurrezione, di Cristo 2000 anni fa e nostra alla fine dei tempi — mentre la scala di valori che ne deriva rappresenta un elemento, se non secondario, appunto "derivato", subordinato.
Tutto questo confuta senza ombra di dubbio l'idea di Gould degli ambiti separati: c'è una sovrapposizione chiara e lampante, un vero e proprio conflitto di interessi fra scienza e religione. Un conflitto dovuto non a giudizi di valore della scienza, alla quale sono completamente estranei, ma ad affermazioni empiriche delle religioni.
Visto che ormai sono in ballo, faccio un altro passo, piccolo a questo punto, che dall'evidenza di questa sovrapposizione passa facilmente a scoprire la contraddizione fra scienza e fede. Acettata la sovrapposizione di ambiti, sorge infatti il problema dell'accordo nel merito: il problema dell'eventuale conciliazione fra l'immagine empirica del mondo suggerita dalla scienza in un particolare momento storico, e quella professata — da sempre? — dalla religione.
Ma qui il gioco, come dicevo, è facile. Mi basterebbe fare l'Odifreddi della situazione e citare, ad esempio, le affermazioni sulla verginità di Maria o sulla
transustanziazione dell'eucarestia durante la consacrazione — che tra l'altro presuppone una concezione delle cose fatta di
sinolo fra
forma e
sostanza, che è del tutto estranea all'attuale immagine scientifica del mondo. Ma il problema si pone anche se ci limitiamo ad affermazioni più generiche come l'esistenza di Dio stesso o il concetto di anima, l'idea che qualcosa di noi possa sopravvivere alla nostra morte. Tali affermazioni
empiriche possono essere
apparentemente non in contrasto con la concezione scientifica del mondo (effettivamente la scienza non ha dimostrato esplicitamente e specificatamente che i corpi non potranno resuscitare) oppure possono essere completamente contrarie ad essa (l’età del nostro pianeta, la posizione cosmologica da esso occupata). Nel primo caso vengono accettate (oserei dire ingenuamente) in quanto non apertamente in contraddizione (ma a costo di quali contorti espedienti riconciliatori, a quale prezzo intellettuale!). Nel secondo caso, poichè è costretta a cedere l’affermazione religiosa — non si può sbattere contro un muro e continuare a dire «non esiste» a lungo! — ci si giustifica con una interpretazione allegorica e simbolica di quelle stesse affermazioni.
In definitiva, il fatto stesso che, checché ne dica Gould, le grandi religioni cristiane guardino con grande perplessità (per usare un eufemismo e conceder loro il beneficio del dubbio) alla teoria dell'evoluzione naturale è dovuto a nient'altro che al suo essere in qualche modo in contraddizione con la loro concezione del mondo empirico secondo cui ci sarebbe una differenza (essenziale, fondamentale, ontologica, soprannaturale) fra gli uomini e gli animali, diversa e non solo per grado da qualsiasi altra differenza possa invece sussistere fra i diversi animali.
PS
Basterebbero tutto ciò, ma accanto alle singole questioni di merito, in cui uno può mettersi d'impegno e ogni volta cercare una conciliazione, c'è infine anche una questione di metodo: da una parte abbiamo la verità assoluta e rivelata, dall'altra una continua ricerca di essa, senza pretese e senza privilegi di autorità.
In linea di principio uno potrebbe pensare che non si tratti di una differenza problematica: dopotutto, nonostante la spettacolare fecondità del metodo galileiano, il cammino percorso dovrebbe essre irrilevante rispetto alla meta raggiunta: se con la ricerca scientifica ho (ri)trovato la verità rivelata, non ho contraddizioni da risolvere. Ma è una scelta difficile e delicata, perchè lascia ogni volta nel dubbio che tutto il castello crolli all'arrivo di una nuova scoperta che cambi l'immagine scientifica del mondo. O, nella convinzione di fede che una simile eventualità non possa mai verificarsi, rende inutile la ricerca scientifica di una verità già posseduta.