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13 July 2016

La struttura di incentivi

 
 
Puff, pant... maledetta attualità[*].
 
 
L'esito del referendum nel Regno Unito, come già prima l'ascesa di consensi per Donald Trump, ha riportato in auge le discussioni sui fondamenti della democrazia[1][2][3][4][5][6].
A voler essere populisti, si potrebbe riassumere che secondo questi parrucconi la democrazia è bella finché sono d'accordo col risultato elettorale, altrimenti "il popolo non era ben informato", "era preda della demagogia", etc, etc.
Un compendio più congruo e perìto è invero che, senza adeguata temperanza, sulla democrazia incombe la trasfigurazione in oclocrazia.
 
Scherzi a parte, ho cercato un po' in rete, ma non ho trovato esiti condivisi su una linea di demarcazione, nelle lunghe ed elaborate discussioni che pur non faticano a trovare problemi nel concetto stesso di democrazia[§], e che, esplicitamente o implicitamente, sembrano risolversi tutte nel Churchill de la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre.
Già Aristotele distingueva le forme di governo "buone" (monarchia, aristocrazia e, appunto, democrazia) da quelle "cattive" (tirannide, oligarchia e, appunto, oclocrazia) indipendentemente dall'estensione della consultazione decisionale (uno, pochi o, appunto, tutti).
Il presupposto comune a questo tipo di contrapposizioni è che esisterebbero criteri di legittimità diversi dalla volontà di un monarca, dalle decisioni di un consiglio di saggi o, appunto, dall'esito di un voto a suffragio universale; diversi, e più importanti.
L'idea, cioè, è prorpio che esistano dei diritti (individuali o — nel dubbio lo concediamo — collettivi) che, anche se a maggioranza, un'assemblea non ha legittimità a violare.
 
 
Una posizione di questo tipo può essere caratterizzata come giusnaturalista, in contrapposizione ad una giuspositivista.
 In quest'ultima, l'unico diritto possibile è quello positivo, ovvero quello concretamente osservato nei fatti: l'unica legge è la legge del sovrano — che sia una persona fisica (un monarca) o un'istituzione (un parlamento) — e non ha bisogno di alcuna legittimazione al di fuori della sua origine. In questa prospettiva il diritto acquista carattere meramente formale e, non essendo più questione di equità e probità, ma di semplice validità, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura direttamente come la scelta del criterio di validità per la legge [†].
In una prospettiva giusnaturalista, invece, esistono dei princìpî universali a cui il diritto positivo deve aderire per poter essere considerato giusto. Il diritto naturale [‡], però, è dato solo in termini di valori universali e generici: ad esempio il principio di non aggressione ("non uccidere") oppure il diritto di proprietà ("non rubare"). Si pone quindi il problema di dover tradurre tali criteri generali in leggi specifiche che fungano da riferimento quando i tribunali sono chiamati a giudicare casi concreti. Per questo, in prospettiva giusnaturalistica, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura come la scelta di un semplice regolamento, di una procedura contingente, che ha valore validante da un punto di vista pratico e formale, ma che non pretende di fungere da giustificazione della legge, e certamente non si pone al di sopra di essa.
 
 
Sulla base di quali criteri, dunque, giudicheremo la bontà di una forma piuttosto che un'altra del diritto positivo, della forma concreta che esso assume in uno specifico contesto storico e sociale? In prospettiva giusnaturalista, ovviamente, sarà in primo luogo il criterio di giustizia, il quale viene invece escluso di principio da una prospettiva giuspositivista, che non potrà che ricorrere ai rimanenti criteri di coerenza, chiarezza, certezza e coercibilità.
Cosa distingue, dunque, la monarchia dalla tirannide? la democrazia dall'oclocrazia? In prospettiva giusnaturalista la risposta è semplice, ed è una distinzione di merito: la monarchia è illuminata se il Re amministra la giustizia con saggezza, è dittatura se la piega al suo arbìtrio.
Può una monarchia essere migliore di una democrazia? Certamente, per un giusnaturalista: ad esempio se il Re è illuminato mentre il parlamento è corrotto e opera in maniera clientelare sulla spinta di lobby potenti.
 
Ma in linea generale, è possibile stabilire se la democrazia sia migliore, almeno tendenzialmente, della monarchia?
In questo caso, non potendo entrare nel merito della legge in vigore in una specifica democrazia o monarchia, il giudizio deve procedere analizzando la struttura di incentivi messa in atto da una piuttosto che dall'altra forma di esercizio del potere legislativo/giudiziario.
 
Ad esempio, un possibile argomento a favore della democrazia, rispetto alla monarchia, è che quest'ultima potrebbe essere più facilmente vittima degli arbìtrî di un singolo (il monarca) rispetto all'esito di una votazione di un'assemblea che coinvolge molti soggetti diversi (l'intera popolazione, o suoi delegati, etc, etc...).
Chiaramente il fatto di passare attraverso una delibera assembleare/parlamentare non è sufficiente a garantire che il voto non vìoli i princìpî del diritto naturale ed è dunque legittimo chiedersi se e quali limitazioni (ad esempio una costituzione), o sue modifiche (ad esempio tramite l'estensione/riduzione del suffragio, sulla base di determinati requisiti) o sue alternative (ad esempio attraverso l'esercizio del potere legislativo in forma anarchica[※]), possano introdurre ulteriori vincoli e/o incentivi affinché la legge risultante tenda ad inseguire maggiormente ai princìpî del diritto naturale. È legittimo chiedersi, cioè, se sia possibile migliorare, di quanto, e a che prezzo, le capacità di questa forma di governo a maggioranza nell'individuare, tradurre ed attuare i princìpî generali e universali del diritto naturale.
È difficile sopravvalutare questo aspetto e dunque giova sottolinearlo una volta di più: poco importa il wishful thinking dell'affidarsi alla buona fede, ai nobili intenti e all'integrità intellettuale del monarca, dei legislatori, dei giudici o dei funzionari; a nulla vale respingere le critiche ad un sistema sulla base del fatto che il suo particolare fallimento è attribuibile alla disonestà e all'egoismo di uno o più attori specifici in carica in quel momento: un sistema sarà tanto migliore quanto più metterà in atto feedback capaci di alimentare circoli virtuosi e di soffocarne i viziosi.
 
 
Consideriamo ad esempio il caso dei limiti al potere del legislatore posti da una costituzione: è ingenuo pensare che essi, semplicemente, verranno rispettati; che un governo non proverà a forzare i confini del suo potere solo perché così è scritto su un documento di nobili intenti. Da questo punto di vista non meravigliano i numerosi dibattiti, spesso oggettivamente capziosi, sulla costituzionalità o meno di questo o quel provvedimento.
In questi termini, l'idea della separazione dei poteri di Montesquieu sembrerebbe già meno ingenua: dividere il potere in funzioni da affidare a soggetti diversi dovrebbe innescare precisamente quei controlli incrociati capaci di limitare il reciproco arbìtrio. In realtà non è chiarissimo quali siano gli incentivi che dovrebbero indurre ciascuno dei tre soggetti istituzionali — legislativo, giudiziario ed esecutivo — ad agire in modo da impedire agli altri due di abusare del proprio potere e non invece, per esempio, ad agire di concerto in maniera da aumentare reciprocamente il proprio potere[¶].
Come ultimo esempio — per far riferimento a proposte avanzate recentemente nei dibattiti sollevati da Trump e Brexit — consideriamo il caso della restrizione del voto che lo conceda solo a chi riesce a superare un esame di educazione civica basato sulla conoscenza delle procedure e della forma delle istituzioni della propria nazione: che razza di incentivi potrebbe mai introdurre nel feedback elettorale una simile selezione, al fine di migliorare la "convergenza" del processo democratico verso il rispetto del diritto naturale? Piuttosto, se proprio si volesse introdurre delle limitazioni al suffragio universale, sarebbe più sensato, chessò, escludere o limitare in qualche modo il diritto di voto ai dipendenti pubblici, i quali hanno un palese conflitto di interessi nel votare leggi che prelevano risorse pubbliche per assegnarle a se stessi.
Più genericamente, il meccanismo delle periodiche elezioni dovrebbe imbastire proprio il principale feedback dei governati verso l'azione dei governanti, ma esiste tutta una branca della sociologia politica che va sotto il nome di public choice theory che ha messo ben in evidenza le numerose strutture di incentivi perversi presenti nei correnti regimi democratici: i feedback elettorali sono pressoché sterilizzati quando non addirittura invertiti (quasi sempre i fallimenti dello Stato hanno l'effetto nell'opinione pubblica di chiedere ancora più interventi statali) e in generale sono spinti ad emergere nelle posizioni di potere proprio i caratteri umani più approfittatori (l'accentramento del potere che fa gola a demagoghi e dittatori). Insomma, precisamente l'opposto di quel che si presuppone ingenuamente per un corretto funzionamento della cosa pubblica.
 
 
In questi termini una condizione anarchica rappresenta inevitabilmente la miglior struttura di incentivi immaginabile.
Non lasciatevi ingannare dalla sfera semantica di disordine e caos che si suole associare al termine anarchia: qui intendiamo riferirci a quella condizione in cui sono presenti una pluralità di soggetti paritari, privi cioè di un referente ultimo che possa accentrare su di sè e monopolizzare il potere sugli altri soggetti. Sembra una proposta radicale ed estremista, ma si tratta in realtà semplicemente di proseguire sulla strada che considera un progresso il passare da una monarchia ad una oligarchia per via dell'aumento dei soggetti coinvolti nel processo decisionale del potere; un progresso l'ulteriore passaggio da un'oligarchia ad una democrazia e ancora un progresso, almeno negli intenti, l'ulteriore introduzione della separazione dei poteri.
La competizione istituzionale che motivava, con una certa ingenuità, la separazione dei poteri di Montesquieu, in questo modo si realizzerebbe più efficacemente: poiché la pluralità di soggetti istituzionali sarebbero in diretta competizione per la stessa funzione, si instaurerebbero precisamente quei meccanismi concorrenziali che renderebbero davvero democratico, nel senso etimologico del termine, l'esercizio del potere.
 
 
Al di là del finale[◊], spero con questo post di aver almeno chiarito alcuni termini della questione e aver inquadrato il contesto in cui ha senso o non ha senso collocare le critiche e le proposte di modifica del regime democratico nell'attuale declinazione dello Stato moderno.
 

[*] Solite avvertenze, anche se questo post è prevalentemente un mio personale tentativo di rielaborare e tirare le fila.
 
 
[†] In una concezione positivista il potere legislativo, semplicemente, si pone al di sopra della legge stessa, sua diretta emanazione: ad esempio il diritto di resistenza, banalmente, non è contemplato. È significativo osservare che nel moderno stato di diritto il diritto di resistenza è formalmente escluso — a parte alcune eccezioni come, notevolmente, quella della costituzione tedesca.
[‡] L'uso del termine naturale non inganni: non si presuppone necessariamente che tali princìpî siano da ricercare nella natura, biologica, ecologica o etologica, né che rimandino ad un qualche stato originario della società umana. Esistono molte interpretazioni del diritto naturale (personalmente mi ritrovo piuttosto affine all'argumentation ethics di Hans-Hermann Hoppe, per quel poco che ne ho intuito) e l'unica cosa che le accomuna è essenzialmente il rifiuto che a fondamento della legge possano esserci solo la tipologia di fonti di produzione giuridica.
[※] In cui, cioè, più corpi normativi e più tribunali operano contemporaneamente e in competizione fra loro, come soggetti paritari e indipendenti. Si tratta di una possibilità tutt'altro che meramente ipotetica e teorica, anzi è precisamente la situazione corrente in contesti di diritto internazionale o di arbitrato fra privati.
[¶] Per una interessante trattazione della questione della struttura di incentivi si rimanda al capitolo 9 de Il problema dell'autorità politica di Michael Huemer, pubblicato di recente in italiano da liberilibri.
[◊] messo più per completezza espositiva che davvero per argomentare; del resto quella anarchica è una concezione del potere troppo fuori dagli schemi a cui siamo stati abituati a pensare, in cui invece l'ordine e la pace sociale potrebbero essere raggiunte soltanto attraverso l'imposizione coercitiva di un leviatano, unico e super-partes.

24 June 2016

Brexit /2

 
Maledetta attualità, ancora.
Qualche ulteriore commento[1], sempre in chiave libertaria, ancora a caldo subito dopo l'esito, un po' a sorpresa, del referendum nel Regno Unito.
La questione è un po' la solita, se l'abbandono del mercato unico europeo sia una scelta anti-liberale, sott'intendendo che l'adesione ad un'area di libero scambio sia, più o meno per definizione, un'opzione liberale.
Il punto è che in questa narrazione c'è qualcosa che non torna.
L'area Euro viene dipinta come uno po' come l'analogo per le merci ed il commercio degli accordi di Schengen per la libera circolazione delle persone. Ma a ben guardare l'appartenenza all'Unione Europea rappresenta un vincolo, per il paese partecipante, ad uniformarsi ad un insieme di regolamenti e legislazioni finalizzate ad uniformare le condizioni economiche e commerciali fra gli Stati membri. Be', capite bene che questo è l'esatto contrario del libero mercato ed è invece precisamente un cartello di rendite di posizione artificiali su scala continentale — pensate alle quote latte, alla Politica Agricola Comune, etc, etc...
Anche in chiave internazionale, l'uscita di una Pese forte come il Regno Unito da un simile cartello si traduce in un nuovo attore sul mercato globale con cui poter trattare in maniera indipendente: quando la Cina, la Russia o l'America, il Canada e la Svizzera vorranno affacciarsi sul vecchio continente non avranno più un interlocutore unico, ma Europa e Regno Unito si presenteranno in competizione[2].
 
Tutto questo per dire che per un libertario l'opzione del Regno Unito di uscire dall'Area Euro non si pone come un travagliato trade-off fra ragioni contrastanti, fra l'anelito indipendentista e la rinuncia al liberismo: si tratta invece di un'opzione che si muove nella direzione "giusta" su entrambi i fronti — disintegrazione politica e disintegrazione[3] economica.
Se poi produrrà addirittura un effetto a catena per cui a breve seguiranno anche la Scozia e la Catalunya — e, chissà, magari poi in scia anche il Veneto di Yoshi e la Sardegna di Fabristol — be', tanto meglio ancora!
 

[1] Anche per questo post, come per il precedente, valgono le solite avvertenze del caso: poco o punto è farina del mio sacco e dunque i meriti sono suoi, i granchi miei.
[2] Per citare un argomento prettamente anarco-capitalista — non-libertari, vi prego, voi ignorate del tutto questa nota! — i vincoli europei non permettevano alla City di Londra di funzionare come paradiso fiscale; ora non è detto che lo diventerà, ma certamente avrà molto più spazio di manovra.
[3] Yoshi usa il termine integrazione economica, per definire l'optimum libertario, ma il senso, chiaramente, è quello della divisione del lavoro, del vantaggio comparato, dell'anti-autarchia, che sono i giochi a guadagno condiviso del libero mercato. L'uso del termine integrazione, in questo senso, può risultare fuorviante, perché è lo stesso termine che viene usato appunto a livello europeo per indicare, però, una condizione di omogeneizzazione del mercato che è l'esatto opposto di quello che, io capisco, intende Yoshi.

21 June 2016

Brexit

 
Maledetta attualità[1].
I miei libertari di riferimento online si sono entrambi schierati contro la Brexit: Yoshi, l'esule svizzero, e Fabristol, l'esule britannico.
Il mio libertario di riferimento offline, invece, ha espresso le sue simpatie per la Brexit, e un sentimento di equilibrio mi spinge a raccoglierle in questo post; valgono le solite avvertenze del caso: i meriti vanno a lui, gli errori sono miei.
 
Esiti così diversi sulla questione Brexit, pur in prospettiva libertaria, possono essere ricondotti essenzialmente al dibattito thick/thin libertarianism, che però mi è difficile riassumere senza appiattirlo.
Mi limiterò a muovere alcuni rilievi, senza un vero e proprio filo conduttore.
 
Una prima considerazione riguarda i rischi commerciali ed economici di un'uscita dal mercato europeo. Il punto è che tali conseguenze sono più o meno velatamente minacciate: scegliere di restare in Europa per paura di ritorsioni non sarebbe una scelta libera, ma di paura contro arroganza e prepotenza (vedi il Monti secondo cui non si dovrebbe permettere la ratifica elettorale degli accordi internazionali). Se davvero questo è il problema, il dito andrebbe puntato sul bullo, non sulla vittima.
Un altro argomento liberale contro la Brexit sarebbe che le principali motivazioni a favore dell'uscita sono di natura illiberale (nazionalismi, deficit-spending, protezionismo...), ma usarle per prendere le parti del Leviatano europeo significa un po' scegliere con una logica dell'amico in quanto nemico del mio nemico.
A difesa di uno schierarsi libertario per la Brexit ci sono invece le solite ragioni che Yoshi riassume nell'espressione "disintegrazione politica": esercitare il diritto d'uscita è l'opzione liberale per eccellenza; far parte del cartello degli Stati che permettono "il potere contrattuale di aprire o chiudere le relazioni commerciali con il resto del mondo" lo è molto meno.
Sommando tutto, non voglio dire sia chiaro cosa dovrebbe votare un libertario britannico, ma certamente l'elemento più libertario di tutta la faccenda è proprio la possibilità stessa del voto: mostrare al mondo ed a sé stessi che è possibile, che non è immorale, uscire; meglio ancora se l'uscita scatena divisioni tra regioni che vogliono rimanere e regioni che vogliono uscire.
Alla fine, per tornare alla questione thick/thin libertarianism, non si può obbligare a non discriminare...

[1] Questo post devo per forza scriverlo entro il 23 altrimenti va a male, ma lo spunto per scriverlo sono un paio di post recentissimi e non ho nemmeno avuto molto tempo per rimuginarci sopra... prendetelo come un rapido tweet un po' più lungo di 140 caratteri.