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21 October 2016

Una pacifica transizione di potere

 
Sempre di grande profondità intellettuale, come al solito, Jeffrey Tucker — Why Refusing to “Accept” Election Results Causes Shock and Alarm — senza cadere nella retorica autocelebrativa della democrazia in un senso meramente superficiale.
(In scia, sul finale, ho apprezzato anche il suo vecchio pezzo sul deep state.)
 
 

22 September 2016

I pericoli della società post-fattuale

 
Il Post riprende un lungo articolo dell'Economist, Yes, I’d lie to you, sul presunto recente dilagare di bufale e complottismi.
 
Ma non è ridicolo che nel discutere la questione della manipolazione della realtà e delle informazioni, si metta sullo stesso piano le teorie complottiste con le menzogne "ufficiali"che sono servite a giustificare guerre pesantissime in termini di vittime — e costi? Di più, si menzionano queste ultime nello spazio di una parentetica ("sì, è vero, ci hanno mentito anche in quel caso, però...") ma ci si dilunga nel resto dell'articolo a parlare delle altre frivolezze, arrivando a commentare che, ahinoi, queste cose senza internet probabilmente non sarebbero successe...
 

24 June 2016

Brexit /2

 
Maledetta attualità, ancora.
Qualche ulteriore commento[1], sempre in chiave libertaria, ancora a caldo subito dopo l'esito, un po' a sorpresa, del referendum nel Regno Unito.
La questione è un po' la solita, se l'abbandono del mercato unico europeo sia una scelta anti-liberale, sott'intendendo che l'adesione ad un'area di libero scambio sia, più o meno per definizione, un'opzione liberale.
Il punto è che in questa narrazione c'è qualcosa che non torna.
L'area Euro viene dipinta come uno po' come l'analogo per le merci ed il commercio degli accordi di Schengen per la libera circolazione delle persone. Ma a ben guardare l'appartenenza all'Unione Europea rappresenta un vincolo, per il paese partecipante, ad uniformarsi ad un insieme di regolamenti e legislazioni finalizzate ad uniformare le condizioni economiche e commerciali fra gli Stati membri. Be', capite bene che questo è l'esatto contrario del libero mercato ed è invece precisamente un cartello di rendite di posizione artificiali su scala continentale — pensate alle quote latte, alla Politica Agricola Comune, etc, etc...
Anche in chiave internazionale, l'uscita di una Pese forte come il Regno Unito da un simile cartello si traduce in un nuovo attore sul mercato globale con cui poter trattare in maniera indipendente: quando la Cina, la Russia o l'America, il Canada e la Svizzera vorranno affacciarsi sul vecchio continente non avranno più un interlocutore unico, ma Europa e Regno Unito si presenteranno in competizione[2].
 
Tutto questo per dire che per un libertario l'opzione del Regno Unito di uscire dall'Area Euro non si pone come un travagliato trade-off fra ragioni contrastanti, fra l'anelito indipendentista e la rinuncia al liberismo: si tratta invece di un'opzione che si muove nella direzione "giusta" su entrambi i fronti — disintegrazione politica e disintegrazione[3] economica.
Se poi produrrà addirittura un effetto a catena per cui a breve seguiranno anche la Scozia e la Catalunya — e, chissà, magari poi in scia anche il Veneto di Yoshi e la Sardegna di Fabristol — be', tanto meglio ancora!
 

[1] Anche per questo post, come per il precedente, valgono le solite avvertenze del caso: poco o punto è farina del mio sacco e dunque i meriti sono suoi, i granchi miei.
[2] Per citare un argomento prettamente anarco-capitalista — non-libertari, vi prego, voi ignorate del tutto questa nota! — i vincoli europei non permettevano alla City di Londra di funzionare come paradiso fiscale; ora non è detto che lo diventerà, ma certamente avrà molto più spazio di manovra.
[3] Yoshi usa il termine integrazione economica, per definire l'optimum libertario, ma il senso, chiaramente, è quello della divisione del lavoro, del vantaggio comparato, dell'anti-autarchia, che sono i giochi a guadagno condiviso del libero mercato. L'uso del termine integrazione, in questo senso, può risultare fuorviante, perché è lo stesso termine che viene usato appunto a livello europeo per indicare, però, una condizione di omogeneizzazione del mercato che è l'esatto opposto di quello che, io capisco, intende Yoshi.

21 June 2016

Brexit

 
Maledetta attualità[1].
I miei libertari di riferimento online si sono entrambi schierati contro la Brexit: Yoshi, l'esule svizzero, e Fabristol, l'esule britannico.
Il mio libertario di riferimento offline, invece, ha espresso le sue simpatie per la Brexit, e un sentimento di equilibrio mi spinge a raccoglierle in questo post; valgono le solite avvertenze del caso: i meriti vanno a lui, gli errori sono miei.
 
Esiti così diversi sulla questione Brexit, pur in prospettiva libertaria, possono essere ricondotti essenzialmente al dibattito thick/thin libertarianism, che però mi è difficile riassumere senza appiattirlo.
Mi limiterò a muovere alcuni rilievi, senza un vero e proprio filo conduttore.
 
Una prima considerazione riguarda i rischi commerciali ed economici di un'uscita dal mercato europeo. Il punto è che tali conseguenze sono più o meno velatamente minacciate: scegliere di restare in Europa per paura di ritorsioni non sarebbe una scelta libera, ma di paura contro arroganza e prepotenza (vedi il Monti secondo cui non si dovrebbe permettere la ratifica elettorale degli accordi internazionali). Se davvero questo è il problema, il dito andrebbe puntato sul bullo, non sulla vittima.
Un altro argomento liberale contro la Brexit sarebbe che le principali motivazioni a favore dell'uscita sono di natura illiberale (nazionalismi, deficit-spending, protezionismo...), ma usarle per prendere le parti del Leviatano europeo significa un po' scegliere con una logica dell'amico in quanto nemico del mio nemico.
A difesa di uno schierarsi libertario per la Brexit ci sono invece le solite ragioni che Yoshi riassume nell'espressione "disintegrazione politica": esercitare il diritto d'uscita è l'opzione liberale per eccellenza; far parte del cartello degli Stati che permettono "il potere contrattuale di aprire o chiudere le relazioni commerciali con il resto del mondo" lo è molto meno.
Sommando tutto, non voglio dire sia chiaro cosa dovrebbe votare un libertario britannico, ma certamente l'elemento più libertario di tutta la faccenda è proprio la possibilità stessa del voto: mostrare al mondo ed a sé stessi che è possibile, che non è immorale, uscire; meglio ancora se l'uscita scatena divisioni tra regioni che vogliono rimanere e regioni che vogliono uscire.
Alla fine, per tornare alla questione thick/thin libertarianism, non si può obbligare a non discriminare...

[1] Questo post devo per forza scriverlo entro il 23 altrimenti va a male, ma lo spunto per scriverlo sono un paio di post recentissimi e non ho nemmeno avuto molto tempo per rimuginarci sopra... prendetelo come un rapido tweet un po' più lungo di 140 caratteri.
 

26 June 2013

Democrazia /6 — Perché questo qui è persino peggio di quello là

Questo qui, ovviamente, sarebbe Grillo, e quello là, manco a dirlo, Berlusconi. E il perché ce lo spiega lo Smeriglia, ormai qualche giorno fa.
Mi è già capitato di dire che Grillo rappresenta l'espressione più stridente della contraddizione profonda del concetto di democrazia, e nonostante ciò pare resti una contraddizione invisibile: lo Smeriglia sembra non accorgersi che le critiche che volge a Grillo — il suo ergersi a paladino del bene comune — sono critiche al cuore stesso della democrazia, che per sua stessa definizione vorrebbe rappresentare lo strumento per raggiungere il bene comune, altrimenti sarebbe dittatura della maggioranza; che chiunque si candidi, chiunque vada a votare, lo fa — nella più nobile e ingenua delle ipotesi — per il bene comune.
(Sia chiaro, ho preso di mira lo Smeriglia perché pare una persona intelligente e acuta, ma si tratta di una miopia del tutto generalizzata, soprattutto a sinistra.)

22 December 2012

La democrazia per la scienza

(Un altro post verosimilmente rubato a fabristol)
Questo recente post di Amedeo Balbi, Geek di tutto il mondo, unitevi! rappresenta una straordinaria cartina tornasole capace di mettere in evidenza quanto sia cambiata la mia prospettiva col libertarismo.
 
Qualche anno fa avrei condiviso ogni singola virgola di quel post, avrei partecipato totalmente al suo sentimento di indignazione e di sconforto e di impotenza nel rendersi conto una volta di più di quale accozzaglia di ignoranza e incompetenza fosse composta la nostra classe dirigente.
Qualche anno fa sarei entrato nel merito della discussione. Oggi mi rendo conto — non riesco a capacitarmi di come si possa non rendersi conto — che è il gioco stesso ad essere perverso.
Per restare nell'ambito del post di Balbi sulle politiche per la ricerca scientifica, anche assumendo un'indiscutibile competenza della classe politica, è davvero così ovvio che esistano risposte oggettive a tali questioni? Chessò, se sia meglio Marte o Titano?? Se sia il caso o meno di finanziare ancora per altri 40 anni la ricerca in teoria delle stringhe? E mi sono volutamente tenuto alla larga da temi "scottanti" come l'evoluzione, i cambiamenti climatici o le medicine alternative.
 
Qualche anno fa mi sarei schierato senza tema di errore a fianco di quelli come Balbi. Oggi mi rendo conto — non riesco a capacitarmi di come si possa non rendersi conto — di quale sia la contraddizione insita in una tale posizione.
Da una parte, infatti, siamo nel bel mezzo di un tipico processo di discussione democratica, da parte dell'elettore, delle politiche che i suoi rappresentanti eletti saranno chiamati a realizzare; dall'altra, quello stesso processo di discussione democratica viene implicitamente disdegnato, difendendo elitariamente un proprio punto di vista come migliore: l'argomento a favore di determinate politiche (per la ricerca scientifica), infatti, non si basa su un presunto principio democratico — "ah, questi politici, che non fanno quello che vuole la gente!" — ma su una presunta oggettività della tesi, che purtuttavia si caratterizza come paradossale, nel senso etimologico del termine di contro l'opinione comune: "ah, questi politici, che se saranno votati dalla maggioranza non faranno quello che è giusto fare".
Parlar male della sinistra non significa voler difendere posizioni di destra (lungi da me, i libertari sono in alto), però questa contraddizione profonda pervade tutto il pensiero di sinistra, dando ragione del termine radical chic: da una parte la pretesa di avere la ricetta giusta, di sapere come si devono fare le cose, e dall'altra l'aver accettato il processo democratico del governo della maggioranza. Se credi che le cose debbano essere fatte in un certo modo e non in altri, l'aver accettato il metodo democratico dovrebbe essere vissuto come una limitazione, soprattutto in un ambito, come quello della ricerca scientifica, in cui stai esplicitamente dichiarando che la maggior parte delle persone non sa cosa sarebbe meglio fare (giusto per ribadire che non voglio difendere posizioni di destra, questi ultimi non vivono questa contraddizione… semplicemente perché tipicamente ammettono senza troppe remore la propria indole assolutista e la predilezione per metodi autoritari).
Del resto si tratta di una contraddizione intrinseca di qualsiasi "dibattito" democratico: non puoi pensare che la politica giusta sia quella scelta dalla maggioranza e, contemporaneamente, che tale maggioranza non sappia quale sia la politica giusta — e tu debba istruirla a tal proposito.
 
E l'ambito scientifico da cui sono partito è solo il caso particolare di una condizione del tutto generale. E' precisamente la stessa contraddizione che si sta palesando, in maniera più stridente che "nei periodi normali", in questi tempi di grillismo e antipolitica. Quel sentimento radical chic di Balbi per le competenze scientifiche dei politici (ma sia chiaro, il libertarismo non ha cambiato la mia immagine scientifica del mondo, e ovviamente sono d'accordissimo con lui nel giudicare come rozze le competenze scientifiche dei politici, ma non è di questo che stiamo parlando) è lo stesso di coloro che criticano Grillo e il suo populismo (e, ugualmente, sia chiaro che non voglio qui minimamente difendere le più che variegate posizioni di Grillo). La democrazia è questo: governo della maggioranza (che sarebbe meglio chiamare minoranza meglio organizzata), che con la scusa dell'aver avuto il più dei voti si auto-giustifica nella prevaricazione sulle varie minoranze (che insieme sono la maggioranza meno organizzata).
Nei giorni scorsi di primarie del PD e parlamentarie di Grillo, la contraddizione era stridente e perforante, ovunque si leggesse. Riporto un solo link fra mille, un po' a caso, a mo' di casalinga di Voghera del web: il suo discorso gira completamente a vuoto, criticando le scelte dei candidati "dall'alto", "di partito", che sarebbero appunto per questo "non democratiche", ma allo stesso tempo criticando i modi di Grillo, cercando qualche ragione per poter dichiarare anch'essi "non democratici": perché non ci sarebbe un programma su cui l'elettore dovrebbe basare la sua scelta (l'elettore, questa figura mitologica del saggio che tutto pondera e tutto considera prima di consacrare il proprio voto), perché non ci sarebbe garanzia sulle procedure (e se invece questa garanzia ci fosse stata, sarebbe bastato questo a garantire un esito diverso? più saggio? più competente?). Alla fine il dubbio gli viene ("davvero non vedo molte ragioni per dargli torto"), insieme alla convinzione che non ci siano vie di scampo.
Ma il dramma di tutto questo è che nessuno si rende conto che è proprio la democrazia, a non offrire scampo; che è il gioco stesso che porta al baratro.
Perché? Perché io stesso non me ne rendevo conto, fino a pochi anni fa?
Forse perché non si riescono ad immaginare alternative. Forse perché l'unica alternativa alla democrazia che si riesce ad immaginare è una dittatura: la democrazia non è perfetta, ma è il meno peggio che abbiamo, si sente dire con rassegnazione vestita di saggezza.
Come l'adepto di una religione, che non vede nient'altro che il proprio credo. La religione di stato.