20 May 2009

Stephen Jay Gould

Un passaggio veloce, giusto il tempo per unirmi anch'io, con Marco, al ricordo di un grande: Stephen Jay Gould.
Lo conobbi per la prima volta con Questa idea della vita, ma conservo per sempre ricordi specifici per quasi tutti gli innumerevoli saggi che ho avuto modo di leggere, ciascuno frutto succoso capace di estasiarti parola dopo parola con un inconfondibile sintesi di intelligenza e stupore, con quella sua capacità di andare a fondo e di darti allo stesso tempo un respiro di grande vastità.
Marco mi perdonerà se gli rubo le parole per descrivere precisamente la sua stessa riverenza nei confronti di Gould. Se gli rubo le parole per ricordare la sua prosa quasi mantrica, la sua abitudine a scavare le motivazioni più profonde, soprattutto storicizzando ogni vita e ogni pensiero e per rimanere come lui compiaciuto che dai suoi articoli sono nati blog, libri, ragionamenti e ipotesi-teorie; alla faccia della divulgazione che non serve a niente.
Come Marco, oggi metto anch'io da parte qualche personale divergenza di opinioni, incapace comunque di intaccare anche solo minimamente la singolare venerazione che nutro nei suoi confronti.

18 May 2009

W|A, CyC e Quine

Sorta di Trackback a questo post su Moto browniano.
 
Avevo letto di Wolfram|Alpha su Punto-Informatico, ma, a sentir quel che si diceva allora, sembrava solo l'ennesimo tentativo di rifare google e, lo confesso, gli avevo dato pochissima importanza.
Che se non me l'avesse suggerito Federico, non sarei nemmeno andato a provarlo.
E invece.
Sono rimasto davvero impressionato.
Sì, ok, al momento non è ancora onniscente, e se gli chiedete il codice swift della vostra banca, rimarrà interdetto. E comunque non è con Google che bisogna fare i confronti.
Intendiamoci, non sono qui a scommettere che sarà un successo. Dico solo, anch'io, che sembra un esperimento di grande interesse, da tenere d'occhio. Certo, se si pensa ai suoi obiettivi più ambiziosi, le difficoltà sono chiaramente enormi: sono le difficoltà del web semantico e dell'intelligenza artificiale.
Non conoscevo Cyc, ma un'occhiata al suo funzionamento lascia più di un dubbio sulle sue reali possibilità di successo, soprattutto se pensato davvero con l'intento di riprodurre l'intelligenza umana, e soprattutto per noi quineiani, che consideriamo ingenua l'idea che esista un'ontologia distinta dal linguaggio e su cui quest'ultimo poggerebbe le sue fondamenta referenziali.
Ma, come dice Federico, W|A potrebbe benissimo avere un grande successo anche senza raggiungere il traguardo estremo di una vera IA. E del resto, un'idea di questo successo, pur nel limitato dominio delle scienze dure o comunque in quei domini in cui esistono dati che possono esser forniti in pasto agli algoritmi, possiamo già farcela, adesso.

17 May 2009

Konsole 2.2 e KDE 4.2

Lavoro nuovo, ufficio nuovo, computer nuovo, kubuntu nuova: Jaunty Jackalope. Sono passati sei mesi, KDE4 è cresciuto, senza dubbio (nel senso che all'inizio era davvero inutilizzabile!), ma ci sono ancora molte cose da sistemare. E non si tratta solo di aspetti marginali: qui c'è Konsole che manca di funzionalità basilari che minano pesantemente l'usabilità.
Una per tutte, l'impossibilità di poter configurare in alcun modo le dimensioni della finestra all'avvio di ogni sessione. C'era, semplicissima, l'opzione --geometry, ma viene semplicemente ignorata. Invece ogni nuova Konsole si apre con le dimensioni che (h)a(veva) la finestra di Konsole che per ultima è stata ridimensionata. Un disastro.
Ho sperato che compiz (ebbene sì, uso ancora compiz come compositing window manager) potesse venirmi in aiuto col suo Size rules in Window Rules, ma è possibile solo fissare le dimensioni di certe finestre in maniera "permanente", non solo all'avvio, col risultato che se si prova poi, durante l'utilizzo di Konsole, a ridimensionare la finestra, questa ritornerà ineluttabilmente, di lì a poco, in un tempo apparentemente casuale, alle dimensioni fissate con compiz.
Un'altra grave pecca, di cui però — attenzione, segue spoiler! — sono riuscito a venire a capo, è quella per cui non è possibile disattivare le impostazioni sul flow control via Ctrl+S/Ctr+Q (cfr. screenshot qui di lato). Il risultato è che ogni volta che siete corsi troppo in fretta nella backward history search con Ctrl+R e volete invertire la direzione con Ctrl+S (forward history search), vi ritrovate con la shell bloccata. Per non parlare di emacs -nw, in cui sarete costretti a digitare esplicitamente nel minibuffer tutti quei comandi che hanno un Ctrl+S nella sequenza di shortcut (non solo il forward history search, dunque, ma anche l'altrettanto usato save-buffer...!)
Per fortuna almeno per questo problema del flow control sono riuscito a trovare una soluzione. Nonostante la cosa possa apparire strana (e infatti non ho capito bene come possa un'opzione di shell modificare un comportamento di Konsole, dal momento che mi figuro il secondo come un semplice wrapper della prima) è sufficiente disattivare l'attributo ixon di xterm con stty. Che tradotto significa che basta aggiungere nel .bashrc la riga
stty -ixon
Ad ogni modo, a parte questi disagi comunque abbastanza gravi, KDE4 comincia ad essere usabile. Sul laptop continuo a mantenere la vecchia e gloriosa Hardy Heron con KDE3.5, ma in ufficio sto appunto usando la 9.04. Continuo a trovare completamente inutile tutto l'ambaradan della widget dashboard (sono affezionato al mio conky che per fortuna, in un modo comunque abbastanza rattoppato — una per tutte, le finestre di conky non restano appiccicate sul desktop quando eseguo uno show desktop per ridurre tutte le finestre ad icona... e la cosa è particolarmente seccante! — riesco ad usare anche con KDE4) e mi capita spesso di non trovare l'opzione per settare qualcosa.
Ma insomma, in qualche modo, mi arrangio.

11 May 2009

Deficit attentivo in filosofia: Cacciari contro Quine

Con un po' di ritardo, alla fine ho trovato il tempo per ascoltarmi la registrazione della puntata di Uomini e profeti di Radio 3 con l'intervento di Massimo Cacciari, segnalata da ToMaTe ormai qualche tempo fa.
Il deficit del titolo di questo post si riferisce a questo commento, sempre di ToMaTe, e, istintivamente, matura grossomodo nella prima metà della trasmissione, in cui il filosofo sindaco di Venezia ci rende edotti su questioni di incontri/scontri di civiltà, di culture, di elementi non-ordinabili. Matura istintivamente proprio in contrapposizione a quel commento sul mio blog, in contrapposizione alla filosofia di Quine. Per me, infatti, sono queste riflessioni generali sull'Uomo Europeo, sull'Occidente, la Storia, la Crisi dei Vincitori, che mettono a dura prova le mie capacità di concentrazione.
Intendiamoci, non ho nulla contro Cacciari, anzi, lo considero un filosofo di grandissimo spessore, mille miglia sopra, chessò, tanto per dire il primo che mi passa per la testa, Giovanni Reale. Cacciari ha sempre attirato la mia curiosità, e la seconda parte della trasmissione lo conferma in pieno, quando espone con incredibile lucidità l'insanabile contraddizione tra religiosità e secolarizzazione, tra culto e laicità, muovendo da una prospettiva teologica, storica e socio/politica che fa da contr'altare perfetto alle mie solite argomentazioni di stampo più squisitamente empirico/epistemologico.
E, lungi da me, non voglio nemmeno sostenere che sia io, nei miei post, ad essere più convincente ed accattivante di Cacciari. Nè che Quine sia di facile comprensione e che dunque siano ingiustificate le esitazioni di ToMaTe.
La differenza che vorrei sottolineare, invece, riguarda direttamente i temi trattati, che seppure chiamansi entrambi filosofia, non potrebbero, ai miei occhi, essere cose più diverse e distanti.
La filosofia di cui si occupa Quine è più "scientifica", più "fisica" rispetto a quella di Cacciari (e per questo mi assumo personalmente tutta la colpa di non riuscire ad affascinare a Quine un fisico come ToMaTe). Quando Quine discute quel che c'è e quel che non c'è (ontologia), quando discute su come si costruisce il processo di conoscenza (gnoseologia), quando discute sul dove sta, se sta, il confine fra fatti e convenzioni, è fondamentalmente molto vicino nello spirito a quell'Einstein che traccia la distinzione fra coordinate, tetradi e connessioni, da una parte, e, dall'altra, le proprietà geometriche degli oggetti fisici che con quelle coordinate, tetradi e connessioni cerchiamo di descrivere (e torniamo alla tesi, che condivido appieno, sulla morale "anti-relativista" della Relatività).
Per questo sono profondamente convinto che conoscere il pensiero di Quine, essere passati almeno una volta attraverso la sua devastante tempesta ed essere riemersi con lui, ancora vivi, rappresenti un'integrazione notevole del bagaglio culturale (nel senso più alto del termine) di uno scienziato, piuttosto che un semplice complemento "umanistico" (nel senso più ridotto del termine) alla sua cultura generale.
 
Non sono molto d'accordo con ToMaTe, invece, sull'adesione al Cacciari conclusivo che parla dell'impossibilità di una scienza unitaria, di un'unica legge e dell'ineluttabilità di una pluralità di leggi: secondo me la natura è una sola, e se ancora non riusciamo ad unificare le nostre visioni è solo per difficoltà tecniche contingenti.
Anche la storia dell'atlante di mappe privo di un'unica mappa globale, come metafora di un'essenziale frammentarietà del reale, non mi convince: le mappe si raccordano bene, localmente, l'un l'altra, ad indicare la perfetta consistenza delle singole descrizioni in un'unica varietà coerente, che semplicemente non può essere "appiattita" uniformemente.
L'irriducibilità è tutt'altra cosa. Come spiegava bene, in un contesto molto di verso, J. S. Bell a proposito dell'idea di Bohr di complementarietà.

07 May 2009

Dubitare di tutto o credere a tutto

Douter de tout ou tout croire, ce sont deux solutions également commodes, qui l'une et l'autre nous dispensent de réfléchir.
(Henri Poincaré, La science et l'hypothèse)
 
Dubitare di tutto o credere a tutto sono due soluzioni ugualmente comode che ci dispesano entrambe dal riflettere.
 

05 May 2009

Complementarietà, Contraddizioni, Bell e Bohr

Bohr elaborò una filosofia di quello che sta dietro le ricette della teoria [della Meccanica Quantistica, ndh]. Anziché essere disturbato dall’ambiguità di principio, egli sembra trovarci ragioni di soddisfazione. Egli sembra gioire della contraddizione, per esempio, tra onda e particella che emerge in ogni tentativo di superare una posizione pragmatica nei confronti della teoria. [...] Non allo scopo di risolvere queste contraddizioni e ambiguità, ma nel tentativo di farcele accettare egli formulò una filosofia, che chiamò complementarietà. Pensava che la complementarietà fosse importante non solo per la fisica, ma per tutta la conoscenza umana. Il suo immenso prestigio ha portato quasi tutti i testi di meccanica quantistica a menzionare la complementarietà, ma di solito in poche righe. Nasce quasi il sospetto che gli autori non capiscano abbastanza la filosofia di Bohr per trovarla utile. Einstein stesso incontrò grandi difficoltà nel cogliere con chiarezza il senso di Bohr. Quale speranza resta allora per tutti noi?
Io posso dire molto poco circa la complementarietà, ma una cosa la voglio dire. Mi sembra che Bohr usi questo termine in senso opposto a quello usuale. Consideriamo per esempio un elefante. Dal davanti esso ci appare come una testa, il tronco e due gambe. Dal dietro esso è un sedere, una coda e due gambe. Dai lati appare diverso e dall’alto e dal basso ancora diverso. Queste varie visioni parziali risultano complementari nel senso usuale del termine. Si completano una con l’altra, risultano mutuamente consistenti, e tutte assieme sono incluse nel concetto unificante di “elefante”. Ho l’impressione che assumere che Bohr usasse il termine complementare in questo senso usuale sarebbe stato considerato da lui stesso come un non aver colto il punto e aver banalizzato il suo pensiero. Lui sembra piuttosto insistere sul fatto che, nelle nostre analisi, si debbano usare elementi che si contraddicono l’un l’altro, che non si sommano o non derivano da un tutto. Con l’espressione complementarietà egli intendeva, mi pare, l’opposto: contraddittorietà. Sembra che Bohr amasse aforismi del tipo: l’opposto di una profonda verità rappresenta anch’esso una profonda verità; la verità e la chiarezza sono complementari. Forse egli trovava una particolare soddisfazione nell’usare una parola familiare a tutti attribuendogli un significato opposto a quello usuale. La concezione basata sulla Complementarietà è una di quelle che io chiamerei le visioni romantiche del mondo ispirate dalla teoria quantistica.
John Stewart Bell
(citato da Gian Carlo Ghirardi in Un'occhiata alle carte di Dio)

03 May 2009

/tmp in RAM

Usate spesso lo stand-by (suspend-to-ram) e/o l'ibernazione (suspend-to-disk)? E in particolare l'usate lasciando il vostro firefox aperto, con le sue due o tre finestre, ciascuna con una ventina o più di tab attivi? E avete notato che spesso, nel resume dopo il suspend, un'intensa attività di I/O del disco rende la macchina completamente inutilizzabile per un tempo piuttosto lungo? Tanto più lungo quanto più lungo è stato il tempo in cui il computer è rimasto sospeso?
Be', allora andate pure a ripescare quel post di pollycoke in cui vi spiegava come montare la directory /tmp in RAM: forse sarà inutile per tutto il resto, ma scoprirete che quelle lunghe attese diventeranno un ricordo del passato, e potrete finalmente davvero "accendere" e usare il vostro laptop in tempi rapidissimi!

01 May 2009

Cervelli di Boltzmann: una fluttuazione?

Qualche giorno fa sono rimasto abbastanza sorpreso nel notare un anomalo aumento nel traffico verso un mio vecchio post su quell'obiezione a tutta una classe di spiegazioni à la principio antropico, evocata con l'immagine dei cervelli di Boltzmann.
Poi ho scoperto, sempre via Cosmic Variance, che non si trattava di una fluttuazione casuale, ma di una più o meno diretta conseguenza della pubblicazione di questa vignetta di Dilibert.

26 April 2009

Farewell

Addio, fisica.
 
Che poi, di fatto, è già un paio d'anni che la fisica era evaporata dal mio lavoro.
Ad ogni modo, da domani mi attende il mio ufficio brevetti.
 
See you space cowboy.

25 April 2009

Sinnerman

Era da tanto che non ascoltavo questa canzone.
Ho scoperto — o forse, non saprei dire, mi sono ricordato — che mi fa piangere.
Davvero, non sto scherzando: appena Nina Simone attacca su quel ritmo martellante, che non smetterà un attimo di picchiare forte, dall'inizio alla fine, per dieci interminabili minuti, in una fuga disperata, una specie di ballo di san vito maledetto, senza la pazzia di una mente obnubilata ma con una follia lucida, una disperazione che vede, sente e capisce tutto; nonappena, dicevo, la sua voce di tenebra attacca, gli occhi mi si allagano e devo raccogliere tutte le mie forze per trattenere le lacrime.
E' incredibile: se leggo queste righe che ho appena scritto, mi vien da ridere (e da vergognarmi), ma se rifaccio partire Sinnerman, sono pronto a sottoscriverle parola per parola.
Non so cosa sia, precisamente.
So solo che, anche a ri-ascoltarla otto volte di fila (e non è un'esagerazione, l'ho fatto davvero), ogni volta, mi fa piangere.
Forse è il testo: delirante, assurdo, senza un inizio e senza una fine, angosciante, ansimante, rotto. Dannato.
O magari invece è una di quelle cose di cui parla Aubrey McFato: forse è semplicemente la musica che ti prende direttamente lì, allo stomaco, senza passare dal cervello: quella voce scura, nera, e i suoi armonici; quel pianoforte ipnotico, quel silenzio senza fiato, incalzante di battito di mani, quelle urla finali. Forse è perchè muove direttamente le corde che ci portiamo dentro dall'alba dei tempi, scritte direttamente nel sangue.
O forse ancora è la storia che si nasconde dietro questa canzone della tradizione spiritual americana. La storia del suo popolo, la sua oppressione, la schiavitù, l'ingiustizia, il dolore. I campi di cotone e, ora, la Casa Bianca.
   —   ∴   —   

  Oh sinnerman, where you gonna run to
  Sinnerman, where you gonna run to
  Where you gunna run to
  All on that day

  Well, I run to the rock
  Please hide me, I run to the rock
  Please hide me, I run to the rock
  Please hide me, lord
  All on that day

  Well, the rock cried out
  I can't hide you, the rock cried out
  I can't hide you, the rock cried out
  I ain't gonna hide you, god
  All on that day

  I said rock, what's a matter with you rock
  Don't you see I need you rock
  Don't let down
  All on that day

  So I run to the river
  It was bleedin', I run to the sea
  It was bleedin', I run to the sea
  It was bleedin'
  All on that day

  So I run to the river
  It was boilin', I run to the sea
  It was boilin', I run to the sea
  It was boilin'
  All on that day

  So I run to the lord
  Please help me, lord
  Dont you see me prayin'
  Dont you see me down here prayin'

  But the lord said
  Go to the devil, the lord said
  Go to the devil
  He said go to the devil
  All on that day

  So I ran to the devil
  He was waiting
  I ran to the devil, he was waiting
  I ran to the devil, he was waiting
  All on that day

  I cried, power
  Power (x7)
  Bring down (x5)
  Power (x14)

  Oh yeah

  Oh, I run to the river
  It was boilin', I run to the sea
  It was boilin', I run to the sea
  It was boilin'
  All on that day

  So I ran to the lord
  I said, lord hide me
  Please hide me
  Please help me
  All on that day

  He said, god, where were you
  When you are old and prayin'

  Lord, lord, hear me prayin'
  Lord, lord, hear me prayin'
  Lord, lord, hear me prayin'
  All on that day

  Sinnerman, you oughta be prayin'
  Oughta be prayin', sinnerman
  Oughta be prayin'
  All on that day

  I cried, power
  Power (x12)
  All down (x2)
  Bring it down
  Power (x4)

  Oh power,
  Power, lord
  Don't you know that I need you, lord
  Don't you know that I need you
  Don't you know that I need you

  Oh lord, please
  Oh lord
  Oh lord
 
thanks to dag wieers

23 April 2009

Quine - 4 - Affresco (3/3)

Noi siamo come naviganti che devono restaurare la loro nave in mare aperto, senza poterla mai smontare in un cantiere e senza poterla mai ricostruire con parti migliori.
Otto Neurath
 
(continua da: 2/3)
 
Lo vedete anche voi, ci sono macerie ovunque.
C'è qualcosa che si salva? Siamo davvero costretti al relativismo più indifferente, liberi di cambiare a piacimento la nostra ontologia ogni secondo martedì del mese? Certamente no. Quine si limita a spogliare dell'aura di assolutezza molti concetti fondamentali, ma per mettere a nudo la loro vera natura. Rendersi conto che il riferimento è imprescrutabile non significa doverlo estirpare dai nostri discorsi ma significa "semplicemente" essere consapevoli che esso ha senso solo sullo sfondo di uno schema concettuale complessivo. Il relativismo ontologico non è indifferenza ontologica e non ci esime dall'importante compito di capire come e perchè alcuni schemi concettuali, da quelli del senso comune fino a quelli più raffinati della scienza, sono migliori di altri.
Cosa esiste davvero, dunque, e cosa no? La risposta di Quine, pragmatista da buon americano, è semplicemente "qualsiasi cosa, se ci serve". Abbiamo solo gli stimoli sensoriali come punto di partenza, e ad essi dobbiamo tornare: accettare corpi, classi, numeri, atomi, in questo viaggio di andata e ritorno, ha solo un valore strumentale — essere è essere il valore di una variabile.
E allora anche un empirista non proverà più fastidio se l'ontologia della fisica comprende irriducibilmente enti astratti come i numeri e le classi, e se il rischio di paradossi è sempre dietro l'angolo. Ci siamo già svezzati dal mito della distinzione analitico-sintetico, ormai sappiamo che l'apparente solidità e certezza della matematica è dovuta semplicemente alla sua centralità nella rete delle nostre conoscenze, nel sistema complessivo delle scienze; alla sua "lontananza" dai bordi del nostro campo di forze i cui limiti sono l'esperienza.
E concludo direttamente con Luca: quel che resta saldo e intoccabile, alla fin fine, sono gli stessi dati dai quali era partito il nostro bambino nel suo viaggio verso il mondo: stimoli dei recettori sensoriali. La scienza, pure se si situa a un livello di complessità filogenetica e ontogenetica immensamente più alto, non deve rendere conto ad alcuna entità di ordine superiore. L'unico dogma residuo dell'empirismo, la fedeltà agli stimoli sensoriali, è vendicato.

22 April 2009

Quine - 4 - Affresco (2/3)

Noi siamo come naviganti che devono restaurare la loro nave in mare aperto, senza poterla mai smontare in un cantiere e senza poterla mai ricostruire con parti migliori.
Otto Neurath
 
(continua da: 1/3)
 
Un'altra vittima illustre di questa riformulazione è proprio la stessa filosofia. Vittima almeno nella misura in cui era sempre stata concepita fino ad allora, una filosofia prima che si occupasse della domanda transcendentale delle condizioni di conoscenza. Una tale domanda presuppone una forte distinzione sintetico/analitico, ma Quine ha mostrato che tale differenza è apparente, non essenziale. La ricerca dei modi di conoscenza, cioè, è anch'essa una ricerca empirica, da portare avanti, dunque, con gli stessi metodi della scienza. E' questo il senso della metafora di Neurath, tanto cara a Quine, che ho citato in cima (e a cui si riferisce il Quine Fact numero 1): l'epistemologia è essa stessa un'impresa scientifica. Un circolo vizioso, apparentemente: la scienza usata per studiare le condizioni di costituzione della scienza stessa. Ma il punto è che non ci sono alternative: non possiamo tirarci fuori e giudicare la scienza da un terreno più sicuro. In questo senso per Quine la filosofia è scientifica, non c'è soluzione di continuità fra filosofia e scienza, nè in termini di metodo nè in termini di valore: è questo il senso dell'espressione naturalismo epistemologico.
Il percorso conoscitivo, come dicevamo, è un viaggio di andata e ritorno. Il punto di partenza può essere uno solo: le nostre percezioni, i nostri stimoli sensoriali; ma questi rappresentano anche l'unico possibile approdo finale a cui si può ritornare, dopo il lungo viaggio della spiegazione. La scienza stessa ci mostra che il nostro unico canale di contatto col mondo non è costituito dagli oggetti che ci circondano, ma dagli stimoli più elementari che colpiscono i nostri recettori (sulla retina, sulla pelle, nel timpano, etc). Queste sensazioni, però, sono essenzialmente private: non abbiamo modo di verificare cosa stia percependo una persona in un dato momento. A parte, ovviamente, basarci sul suo comportamento, e cioè sulle correlazioni stimolo-risposta. L'empirismo, insomma, non può che declinarsi in termini di comportamentismo. E del resto, nota Quine, questo è precisamente il modo con cui, concretamente, procede il bambino nello sviluppo delle sue competenze linguistiche.
Con un approccio squisitamente scientifico, almeno negli intenti, Quine ripercorre "ontologicamente" le tappe di apprendimento linguistico del bambino, con l'idea che esso possa ricapitolare "filogeneticamente" la genesi del linguaggio nella specie umana, e con la convinzione che questa circostanza sia contestuale alla formazione dell'ontologia stessa del bambino. Questo è un tratto caratteristico di Quine, il legame strettissimo fra linguaggio e ontologia: non esistono concettualizzazioni della realtà indipendenti dal linguaggio ordinario.
Il bambino non può che partire con la semplice associazione fra gli stimoli verbali delle persone che gli stanno intorno, percepiti olofrasticamente, e gli stimoli non-verbali che esperisce in prima persona, secondo i condizionamenti tipici del comportamentismo. Quindi, attraverso questo continuo feedback di associazioni fra stimoli verbali e non-verbali, il bambino comincia contemporaneamente a risolvere la struttura tanto dei primi (comincia a distinguere i fonemi, a costruire soggetti, predicati, strutture (co-)referenziali, pluralizzazioni, anafore...) quanto dei secondi (comincia con la postulazione di oggetti concreti e prosegue con quella di entità via via più astratte come termini generici singolari, classi, numeri...). La differenza fra le prime fasi e il risultato finale di una fluente padronanza della lingua madre è notevole ma non essenziale, è solo questione di grado: all'inizio la relazione fra stimoli e suoni è evidente nella sua semplicità e nella sua verificabilità su base comportamentale; in seguito il significato non si trova più a dipendere solo da stimoli non-verbali diretti ma dalla fitta rete di interazioni che il linguaggio stesso contribuisce a tessere. In ogni caso tutto quel che possiamo osservare restano sempre e soltanto correlazioni fra stimoli sensoriali e risposte verbali o stimoli verbali e risposte verbali. E la stessa identica cosa accadrebbe a un ipotetico antropologo linguista che volesse imparare la lingua sconosciuta di una popolazione mai incontrata prima. Un ipotetico manuale di traduzione rimarrebbe essenzialmente indeterminato, anche se non arbitrario, dal momento che non saremmo in grado di determinare in quale delle diverse ontologie empiricamente equivalenti i parlanti della lingua ignota pensano realmente. Ma la critica di Quine è radicale: non c'è bisogno di immaginare una lingua ignota: anche quando parlo con persone nella mia stessa lingua è sempre in atto una sorta di traduzione, di interpretazione continua dei suoni nel mio privato spazio cognitivo: il riferimento stesso si dimostra indeterminato.
Qual è l'insegnamento di fondo, in tutto ciò? Il senso è che la dicotomia significante/significato evapora; l'indeterminatezza della traduzione, l'imperscrutabilità del riferimento, la relatività ontologica, non sono difficoltà pratiche, ma mettono in luce precisamente i limiti dell'approccio mentalistico: singoli significati dietro singole parole, le idee nella mente, sono tutti concetti vuoti. Di più, il famoso mito di un museo in cui gli oggetti esposti sono i significati e le parole sono le etichette, rappresenta il principale responsabile di molte insensatezze filosofiche.
 
(continua: 3/3)

21 April 2009

Quine - 4 - Affresco (1/3)

Noi siamo come naviganti che devono restaurare la loro nave in mare aperto, senza poterla mai smontare in un cantiere e senza poterla mai ricostruire con parti migliori.
Otto Neurath
 
(continua da: 0/3)
 
Il primo passo del percorso di Quine, il primo e più importante crollo che si trascinerà dietro quasi tutto il tempio della filosofia, è la critica alla distinzione analitico/sintetico. Quest'ultima è una terminologia kantiana, ma si tratta di un filo rosso che percorre tutta la filosofia: è, in fondo, quel che Leibniz chiamava distinzione fra verità di ragione e verità di fatto, e che Hume, il mitico Hume, distingueva come relazioni fra idee, da una parte, e materia di fatto, dall'altra. Per dirla con esempi, si tratta della differenza tra frasi come "piove o non piove", o "se sei scapolo, non sei sposato" da un lato, e, dall'altro, frasi come "Giovanni è a messa".
La differenza, lo capite benissimo, è allo stesso tempo evidente e fondamentale. Tanto evidente che, sono pronto a scommetterci, se non avevate mai sentito parlare di Quine, non avreste mai pensato ci fosse qualcuno che osasse metterla in dubbio. Tanto fondamentale che su di essa si basa proprio tutto il programma riduzionista: da una parte c'è la logica e la matematica, certa senza alcuna ombra di dubbio, e dall'altra ci sono i fatti "nudi e crudi" della realtà, e compito del filosofo è proprio quello di separare, nella nostra immagine del mondo, ciò che è linguaggio, convenzione, da ciò che è "là fuori" (e poter così eliminare, nel cestino della metafisica, quel che resta).
Le prime formulazioni delle sue critiche risalgono agli anni trenta del secolo scorso, ma il saggio di riferimento, Due dogmi, viene pubblicato nel 1951. Quine mostra che tutti i tentativi proposti fino ad allora di salvare la distinzione analitico/sintetico (giusto per citarne qualcuno: la nozione di necessità, le descrizioni di stato di Carnap, regole semantiche, regole linguistiche come la sostituzione dei termini salva veritate...) tutti questi tentativi, mostra Quine, non sono altro che petizioni di principio o spiegazioni obscura per obscuriora. Di più: Quine afferma che qualsiasi tentativo in questo senso è destinato a fallire.
L'argomentazione di Quine è duplice e possiamo pensarla come un viaggio di andata dall'esperienza alla conoscenza, e poi un ritorno di nuovo all'esperienza.
La prima tappa è il famoso olismo epistemologico: ogni teoria scientifica, ogni visione del mondo, anche quella dell'uomo comune, si presenta al vaglio dell'esperienza non pezzo per pezzo, ma come un tutto unitario. Non esiste un unico strato empirico che un singolo enunciato può indicare come "suo". La seconda tappa è una concezione del significato secondo cui l'unico modo sensato di attribuire un contenuto ad un enunciato è solo in termini delle sue conseguenze, se vero, nel nostro mondo di esperinza: capisco che Giovanni è a messa perchè se l'enunciato è vero attravero la strada, entro in chiesa e ci trovo Giovanni.
Se ammettiamo queste due circostanze, dunque, Quine dimostra che non ci è concesso di poter determinare univocamente se il significato e la verità di un enunciato dipendono dall'esperienza o da convenzioni linguistiche. La componente fattuale e quella linguistica di ogni enucniato, e dunque di tutta la nostra descrizione del mondo, fino a quella scientifica, risulteranno inestricabilmente intrecciate. E' la famosa stoffa grigia di enunciati, nera di fatti e bianca di convenzioni, ma priva di fili del tutto neri e altri del tutto bianchi.
Le conseguenze sono pesanti e vaste, costringendo a ripensre praticamente tutti i temi della tradizione filosofica: dalla giustificazione della matematica alla teoria del significato, dall'ontologia all'epistemologia fino alla concezione stessa della filosofia.
Crollano dunque molti piani dell'edificio positivista, e Quine ci costringe a riconoscere che la nostra immagine del mondo, scienza compresa, non si costruisce attraverso un rispecchiamento fedele della realtà, ma è essa stessa un costrutto teorico non univoco e impossibile da ridurre a una base empirica predeterminabile. Ma, sottolinea Quine, questo non significa affatto affermare che tutto è equivalente e qualsiasi cosa può andar bene. I muri portanti dell'empirismo restano ben piantati: Quine diffiderà sempre di criteri ontologici troppo liberali e anzi riconosce un legame molto stretto fra esperienza e scienza, e considera quest'ultima di fondamentale importanza nella nostra cultura.
In effetti, quello di Quine rappresenta il più profondo e fecondo tentativo compiuto nel nostro secolo di riformulare il programma empirista su nuove basi.
 
(continua: 2/3)

20 April 2009

Quine - 4 - Affresco (0/3)

Noi siamo come naviganti che devono restaurare la loro nave in mare aperto, senza poterla mai smontare in un cantiere e senza poterla mai ricostruire con parti migliori.
Otto Neurath
 
Squilli di trombe!
Rullo di tamburi!
Cominciamo, finalmente, ad entrare nel merito di Quine!
(Ma chissà poi se e dove andremo a finire...)
 
Per cominciare, invece di entrare direttamente nel dettaglio delle sue tesi principali, vorrei proporvi un volo dall'alto sul suo percorso filosofico. Un passaggio importante, per mettere tutto in prospettiva, ma arduo, per me, da compilare, perchè presuppone una conoscenza vasta e approfondita del logico americano, e una capacità di riordinare le sue tesi in un disegno organico; tutte competenze, come dicevo, che io certamente non ho.
Ma, per voi, ho pensato di rielaborare, in maniera semplificata e concisa, la bellissima introduzione di Luca Bonatti alla traduzione italiana del Quidditates (aiutandomi anche con il primo capitolo dell'introduzione a Quine di Gloria Origgi).
Vi avverto che, nonostante l'attesa spasmodica (è nientemeno che il quarto post espressamente dedicato a Quine... senza nemmeno contare le divagazioni complesse, quantistiche e quant'altro) non troverete qui di seguito alcun serio tentativo di argomentazione. Se mai un giorno proverò a suggerire qualche argomentazione alle tesi di Quine, non potrà che essere su un punto specifico, per circoscrivere il più possibile un discorso che altrimenti si espanderebbe come un gas perfetto ad occupare tutto lo spazio a disposizione.
 
(continua: 1/3)