12 February 2012

Darwin Day

Non è morto, s'era detto, questo blog.
Provo a confortare questa tesi oggi, riprendendo (l'impegno) ad onorare il Darwin day (un solo post all'anno, dai, ce la posso fare...).
E poiché chi passa da queste parti, insomma, siamo tutti darwinisti fino alle ossa, posso permettermi di celebrare Carletto segnalando un aspetto ancora controverso fra i tanti meccanismi in gioco nell'evoluzione delle specie.
Delle specie?
Sì, l'aspetto su cui volevo darvi qualche spunto di riflessione è proprio la questione del "cosa sono ad evolvere, le specie? le popolazioni? i fenotipi (estesi)? i geni?"
 
Come sapete sono di religione Gouldiana: l'idea che mi sono fatto è che non c'è una risposta univoca a questa domanda, e che l'evoluzione avviene, contemporaneamente, su piani differenti, con tempi, intensità e modi diversi e specifici. L'idea di un'evoluzione gene-centrica resa popolare da Dawkins rappresenterebbe, dunque, solamente uno di questi meccanismi (certamente impossibile da immaginare per Darwin stesso), ma trovo ingenuo e semplicistico elevarlo ad unico riferimento ultimo per qualsiasi dinamica evolutiva.
In particolare, uno degli aspetti che più mi lascia insoddisfatto è la selezione per parentela (kin-selection).
Ne avevo già parlato a suo tempo (ormai più di quattro anni fa!) in Dawkins contro Gould, da cui era anche scaturita un'interessante discussione con ospiti illustrissimi. Di recente mi è capitato di tornare sul tema leggendone su Leucophaea. L'articolo principale citato da Marco, M. Nowak, C. Tarnita, E. Wilson, The evolution of eusociality (pullicato su Nature quest'estate e di cui potete recuperare il PDF grazie a Google Scholar), sfonda, per quanto mi riguarda, una porta aperta (leggetevi, nel bellissimo post di Marco, chi era il Wilson che firma l'articolo...) anche se vorrei trovare il tempo di leggermi la rassegna citata da Marco, S. A. West, A. S. Griffin, A. Gardner, Social semantics: altruism, cooperation, mutualism, strong reciprocity and group selection, e le repliche all'articolo di Nowak, giusto per sentire anche l'altra campana...
 
Di un tema simile aveva parlato anche tupaia, proprio lo scorso Darwin day (sì, lo so, significa un'anno fa...), in un suo bellissimo post, Le specie egoiste, scritto a quattro mani con Danilo Avi — a proposito di tupaia, Marco nel suo post che ho citato qui sopra accenna all'eterocefalo glabro linkando l'articolo di wikipedia... invece che il bellissimo post di tupaia I wurstel con i denti! Lo scorso Darwin day, dicevo, tupaia e Danilo provano a guardare l'evoluzione naturale da una prospettiva di competizione intraspecifica, in contrapposizione all'usuale competizione interspecifica. E l'insight, per quel che mi riguarda, è davvero notevole: uno dei punti “vuoti” de Il gene egoista era proprio il fatto di partire dalla riproduzione sessuata, e utilizzarla come elemento chiave (la competizione fra alleli), senza però spiegarla. Del resto, nell’usuale interpretazione dell’evoluzione come della “sopravvivenza del più adatto”, la giustificazione della riproduzione sessuata arranca un po’, visto che il suo vantaggio (la maggior variabilità genetica e dunque una maggior capacità di far fronte a cambiamenti ambientali imprevisti) riguarda la specie intera e non il singolo individuo. Invece leggendo il post dell'orologiaio miope (e in particolare l’esempio degli insetti e della partogenesi) mi sembra quasi che le cose tornino magistralmente: la riproduzione sessuata è un meccanismo capace di portare vantaggio al singolo allele, nella misura in cui crea una diversificazione nel panorama competitivo intraspecifico. Sicuramente è una prospettiva da approfondire, ma è la prima volta che leggo una possibile spiegazione della nascita della rirproduzione sessuata che non mi lascia retrogusti di insoddisfazione.
Buon Darwin day a tutti!

10 January 2012

5 anni

I blog sono morti.
Questo blog è morto.
In realtà la seconda cosa non è, io credo, legata alla prima: i motivi per il prolungato (ancorché non improvviso) silenzio di questo blog sono, direi, del tutto contingenti e legati più a questioni mie personali che alla natura del mezzo e alla sua evoluzione nell'evoluzione di internet. Detto più semplicemente: fosse stato per me, ne avrei scritti di post!
Che ne facciamo, dunque, di questo blog?
I blog, si diceva — si legge in giro, proprio in questi giorni — sono morti. E in effetti è da un po' che non mi tocca fare pulizia di sottoscrizioni nel mio aggregatore per eccesso di input, che molti di quei feed sono diventati silenti di loro iniziativa. Non ho esperienza diretta di Facebook per giudicare se davvero il flusso si sia spostato su quel canale. Il fatto, poi, che a Google non piaccia che mi presenti solo come hronir non mi ha lasciato nemmeno provare G+. Non che avessi sete di social network, tutt'altro.
Insomma, questo blog non doveva morire.
Vediamo se riesco a resuscitarlo.
Ho anche avuto la tentazione di cominciarne uno nuovo, di blog. Rileggendo cose passate mi sono riscoperto così diverso, così cambiato. Su questioni specifiche, certo, come capita a tutti di cambiare idee (e l'incontro con la prospettiva libertaria me ne ha cambiate di idee, oh se me ne ha cambiate!), ma anche sul taglio stesso da dare al blog. Ci sono molti post di cui oggi mi vergogno (che per questo preciso motivo non starò qui a citare né tantomeno linkare) non solo o non tanto o nemmeno per il contenuto specifico quanto proprio per l'opportunità. Di più d'uno, comunque, e non lo nascondo per finta modestia, un po' me ne compiaccio ancora (anche se tutto, certo, è sempre migliorabile). Ma alla fine ho desistito, in gran parte per pigrizia (meglio dedicare tempo al contenuto, che al contenitore), ma non ultimo anche per non perdere (o dovermi riconquistare) quel centinaio di "seguaci" che feedburner dice io avrei.
Che ne facciamo, dunque, di questo blog?
Boh, vediamo, provo a ridarmi un po' di impegno su questo fronte. Ci sarebbero un sacco di cose su cui vorrei scrivere, ma un po' perché tendo ad essere perfezionista, un po' perché si tratta effettivamente di temi complessi su cui non vorrei limitarmi ad una battuta concisa, comincio sempre con l'allungare la mia to-do-list ideale e mi fermo lì, senza trovare il tempo di dar seguito anche ad uno solo dei punti in quella lista, che poi pian piano invecchiano e invogliano meno ad essere ripescati, etc etc.
Ma ormai siete abituati a non fidarvi troppo dei miei tempi, ed anche questo post potrebbe essere un'altra di quelle mie vuote apologie a cui non fa seguito più niente per mesi e mesi.
Forse dovrei fare come Fabristol, che scrive di getto e non si rilegge.
Vedremo.
Ah, perbacco, dimenticavo il vero motivo per cui avevo iniziato a scrivere questo post: non so se ve n'eravate accorti (feedburner dice che ci sono un centinaio di follower, ma gli accessi al blog sono poche e casuali unità al giorno, per cui no, forse non ve n'eravate accorti), ma nonostante google-reader abbia, ormai da un po' di tempo, disabilitato la possibilità di condividere articoli letti, la mia colonnina di destra non ha smesso di aggiornarsi, pur col suo solito ritmo placido. Il motivo è che quegli articoli vanno a costruire un "bundle", nella terminologia di google, grazie ad un tag specifico, e questa funzionalità non è stata (ancora) disabilitata da google. Questo significa anche che potete tenervi aggiornati sulle mie letture sottoscrivendo il solito feed — oh tempo le tue piramidi — direttamente dal vostro aggregatore, esattamente come se fossero i miei soliti google reader shared items.
Questo è tutto (per ora).

23 March 2011

Perché volano gli aerei

Quello del perché gli aerei sono in grado di alzarsi in volo è un fenomeno davvero curioso. Dal punto di vista sociologico, intendo, e sarebbe davvero interessante riuscire a ricostruire quando è nata, e come, e che trasformazioni ha subito la leggenda metropolitana della spiegazione bernoulliana, per così dire, della portanza esercitata dalle ali.
Non ne ho le capacità — ma magari basta solo cercare bene su internet per scoprire che qualcuno ha già fatto questa ricostruzione — e in questo post proverò invece solo ad esporre il vero meccanismo che riesce a sollevare da terra un corpo più pesante dell'aria. Non che abbia avuto io la capacità di scoprirlo, questo meccanismo, o anche solo di smantellare la plausibilità di quello bernoulliano (per quanto, a posteriori, abbia tutta l'aria dell'uovo di Colombo).
Anzi, vi anticipo subito i link a un paio di articoli disponibili online che ho usato come spunto e riferimento per quel che segue: il primo, How Airplanes Fly: A Physical Description of Lift (© Aviation Models, From Sport Aviation, Feb. 1999), in inglese, mi è stato suggerito ormai qualche anno fa dal buon KTF, ed è proprio quello leggendo il quale ho scoperto "la verità"; il secondo è un divertente articolo di Jef Raskin, Effetto Coanda, tradotto in italiano e pieno di esperimenti che potete riprodurre molto facilmente con attrezzatura minima e facilmente reperibile.
 
Ma entriamo nel merito, partendo dalla risposta sbagliata: secondo la spiegazione bernoulliana la portanza sarebbe generata dalla differenza di pressione che si instaura fra i due lati del profilo alare in conseguenza del fatto che la velocità dell'aria sarebbe maggiore al di sopra che al di sotto dell'ala. Sono molti i modi per accorgersi dell'insufficienza, se non dell'inconsistenza, di tale spiegazione (vi lascio all'articolo in inglese citato prima per i dettagli tecnici) e vanno dalla forma del profilo dell'ala (che dovrebbe assomigliare ad un goffo panettone ben lontano da qualsiasi idea di aerodinamicità) alla confutazione sperimentale del principio degli "uguali tempi di percorrenza" dell'aria, al di sopra e al di sotto dell'ala (che, curiosamente, è falso nel senso che la velocità al di sopra è maggiore di quella al di sotto molto più di quanto si dedurrebbe da tale principio, e tuttavia la differenza di pressione che ne seguirebbe non sarebbe comunque sufficiente a sollevare l'aereo). L'articolo in inglese, tra l'altro, ipotizza che la popolarità della spiegazione bernoulliana sia dovuta alla sua semplicità, ma a me la spiegazione in termini di differenza di pressioni non è mai parsa semplice (il principio di Bernoulli si applica in tubi di flusso definiti, e non è affatto ovvio che la colonna d'aria sovrastante l'ala possa ricadere in quell'approssimazione), e comunque, a posteriori, il confronto con la spiegazione "vera" è drammaticamente schiacciante: sia in termini di mera semplicità (i concetti tirati in ballo non richiedono quasi per niente conoscenze di fluidodinamica e si basano invece su elementari nozioni di dinamica newtoniana, disponibili già dopo il primo anno di fisica delle superiori e comunque esprimibili in maniera intuitiva anche a chi non ha alcuna conoscenza di fisica elementare) e sia in termini di potenza esplicativa (dal meccanismo di base di generazione della portanza è possibile giustificare molte caratteristiche elementari dei profili alari — ad esempio che sopra le ali non potete metterci niente, mentre sotto potete piazzarci motori, carico e bombe, oppure che è possibile il volo acrobatico rovesciato, in cui lo stesso profilo alare è in grado di generare, a richiesta, portanza in entrambi i versi, cosa impossibile secondo la spiegazione bernoulliana — e con poca ed elementare matematica da scuola superiore è possibile addirittura comprendere in maniera chiara alcuni elementi fondamentali del volo aereo: l'importanza assoluta dell'angolo di attacco, il fenomeno dello stallo, il meccanismo di regolazione della portanza tramite i flap, la questione della potenza, e quindi dell'energia, necessaria per il decollo e quella per il mantenimento della velocità di crociera...).
Invece la spiegazione bernoulliana resta popolarissima e viene utilizzata addirittura in alcuni manuali di volo. Persino nella pagina di wikipedia dedicata all'effetto Coanda, lo si descrive come un effetto "curioso" che potrebbe essere usato per costruire qualche "bizzarro velivolo" (e che verrebbe effettivamente usato da un particolare tipo di aereo)... per non parlare delle Yahoo!Answers, in cui anche quando la domanda va nella direzione giusta, perché gli aerei volano anche capovolti?, la risposta torna indietro "epiciclicamente" al paradigma bernoulliano.
 
Ma passiamo alla vera ragione per cui gli aerei sono in grado di volare.
Per farla breve, le ali sono in grado di deviare verso il basso l'aria che incontrano nel loro moto orizzontale; per la conservazione della quantità di moto (o, se volete, per il principio di azione e reazione), le ali (e con esse l'aereo) sono spinte in direzione contraria, verso l'alto.
Sì, va bene, ora cercherò di convincervi che le cose stanno proprio così.
Solitamente si disegna il flusso dell'aria come semplicemente "solcato" dal profilo dell'ala, con l'aria che riprende il suo flusso orizzontale dopo aver superato l'ala. In realtà quel che succede è che l'aria aderisce alla superficie alare essenzialmente per viscosità e, grazie alla forma e sopratutto all'inclinazione del profilo alare, ne risulta deviata verso il basso.

fonte: wikipedia, licenza CC-BY-SA-2.5.
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La spiegazione dettagliata del meccanismo di deviazione dell'aria si basa sulla viscosità dell'aria che la fa aderire all'ala e, per successivo moto laminare, provoca una "rotazione" del flusso degli strati d'aria che sovrastano quello a contatto con l'ala, rotazione che asseconda il profilo e l'inclinazione dell'ala stessa.
In maniera meno formale, ma più immediatamente esperibile, l'effetto può essere "toccato con mano" nel famoso esperimento del cucchiaio: prendete un cucchiaio per l'estremità del manico e tenetelo "a testa in giù", a mo' di pendolo, in modo che possa oscillare liberamente in direzione ortogonale alla superficie incurvata della "testa" del cucchiaio. Avvicinate dunque il cucchiaio in questa posizione al flusso d'acqua di un rubinetto in modo che la testa del cucchiaio vada a sfiorare il getto d'acqua con la sua parte convessa, sul lato "esterno". Quel che succederà è che, non appena il cucchiaio sfiorerà l'acqua, questa aderirà a quello e, seguendone il profilo, verrà deviata dal suo moto verticale in direzione del lato concavo, dalla parte della sua faccia interna.
L'esperimento è estremamente efficace perché si percepisce immediatamente, sotto le proprie dita, la forza che solleva in maniera evidente il cucchiaio, libero di oscillare in quella direzione, proprio nel verso opposto alla deviazione del flusso dell'acqua.
Ora: la spiegazione del meccanismo di adesione superficiale, certo, potrà essere di una certa complessità (ma non così elevata da essere surclassata dal principio di Bernoulli: in alcuni licei, senza bisogno di aspettare un corso universitario, il moto laminare viene introdotto facilmente come primo raffinamento del modello del fluido perfetto per fluidi debolmente viscosi), ma una volta preso per buono (eventualmente anche solo "empiricamente" con un esperimento come quello del cucchiaio), è sufficiente a spiegare, con elementi minimi di dinamica newtoniana, quasi tutti gli elementi più caratteristici degli aerei e del loro volo, ed è addirittura sufficiente per una stima non solo qualitativa ma addirittura quantitativa, seppur approssimata, di molte grandezze fisiche coinvolte.
 
Torniamo infatti all'aereo.
Per il pilota l'aria defluirà dalle ali essenzialmente lungo la direzione dell'angolo di attacco, per un osservatore a terra invece l'aria defluirà in direzione verticale: del resto questo è proprio quello che si percepisce davanti a un ventilatore, sotto un elicottero o dietro le turbine di un motore: le pale, infatti, non sono altro che ali rotanti!
Aumentando l'angolo di attacco delle ali, essenzialmente la loro inclinazione, si aumenterà la velocità verticale dell'aria uscente dall'ala, mentre aumentando la velocità orizzontale dell'ala aumenterà la quantità di aria deviata ogni secondo. In entrambi i casi, l'effetto sarà quello di aumentare la portanza.
Proviamo ad essere più quantitativi.
Per la conservazione della quantità di moto, solo per tenere sospeso un aereo di massa m (cioè per avere una spinta di portanza pari proprio a mg, con g l'accelerazione di gravità), è necessario spingere verso il basso, ogni secondo, una quantità d'aria M ad una velocità v tale per cui Mv = mg (per chi ha qualche dubbio, ho semplicemente considerato nulla la velocità iniziale dell'aria, per cui la quantità di moto finale dell'aria è pari proprio alla variazione di quantità di moto; per l'equazione di newton, proprio nella sua formulazione originale, questa è pari alla forza; se l'equazione non vi torna dimensionalmente, è perché la dipendenza temporale è nascosta: a sinistra M è un M(Δt) e a destra invece bisognerebbe scrivere più completamente mg Δt).
Ad esempio un Cessna 172 di circa una tonnellata di peso viaggia a velocità di crociera di circa 200 km/h; ipotizzando che spinga aria verso il basso a circa 15 km/h, dovrebbe spingere qualcosa come 2 tonnellate e mezza d'aria al secondo. A 200 all'ora percorre, in un secondo, una cinquantina di metri abbondanti, per un'apertura alare dell'ordine della decina di metri fanno circa 500 metri quadri; considerando la densità dell'aria di 1.2 kg al metro cubo, viene fuori che quelle due tonnellate e mezza su quei 500 metri quadri corrispondono ad uno spessore verticale di oltre 4 metri: le ali, cioè, spingono verso il basso, in media, ben 4 metri d'aria sopra di esse!
Sono conti "spannometrici", ci sta benissimo un fattore due o tre "d'approssimazione", ma con tutta quest'aria da tirar giù appare ancora più incredibile tornare indietro ad una spiegazione "di superficie" come quella bernoulliana.
 
La portanza come reazione alla deviazione d'aria verso il basso è una spiegazione "semplice", così semplice che c'è molto spazio per raffinamenti, ad esempio le turbolenze ai bordi dell'ala, che rendono rilevante, oltre all'angolo di attacco, anche la forma del profilo dell'ala e dunque un'analisi matematica avanzata di fluidodinamica come quella citata dal risponditore di Ulisse. Ma il principio di base, nella sua semplicità, permette altrettanto semplici spiegazioni di molte caratteristiche del volo aereo.
Cominciamo, ad esempio, col considerare come riferimento l'angolo d'attacco corrispondente ad una portanza pari proprio al peso dell'aereo e col definire un "angolo di attacco efficiente" come l'angolo formato dall'ala rispetto a quell'angolo di riferimento: ebbene, si trova proprio che la spinta verso l'alto o verso il basso è direttamente proporzionale a questo angolo efficiente, indipendentemente dalla specifica forma del profilo dell'ala!
Il pilota, ad esempio ancora, agisce essenzialmente sull'angolo di attacco per adeguare la portanza in risposta all'aumento di velocità dell'aereo (riducendo l'angolo per compensare l'aumento di portanza dovuto alla maggior quantità d'aria deviata), di quota (aumentando l'angolo per compensare il ridotto peso dell'aria deviata per la riduzione della densità dell'aria con l'aumento di quota) o semplicemente per richiedere più o meno spinta per salire o scendere di quota. Secondo la spiegazione bernoulliana, che si concentra solo sulla forma del profilo dell'ala, l'unica variabile che il pilota potrebbe controllare sarebbe la velocità orizzontale.
Aumentando troppo l'angolo di attacco, però, la forza di adesione a un certo punto non è più sufficiente a deviare l'aria lungo il profilo dell'ala, l'aria quindi smette del tutto di essere deviata verso il basso e la portanza bruscamente si riduce: è lo stallo!
Il fatto, poi, che l'aria venga deviata verso il basso seguendo il profilo superiore dell'ala spiega anche come mai sotto le ali gli aerei possono sbizzarrirsi ad avere ammenicoli di ogni tipo, dalle dimensioni certamente rilevanti dal punto di vista aerodinamico, ma, per quello che abbiamo detto, dagli effetti del tutto trascurabili dal punto di vista della portanza (avete mai visto un aereo con le turbine dei motori sopra le ali?).
Per non parlare del volo rovesciato, un'impossibilità totale per la spiegazione bernoulliana, che è invece possibile "semplicemente" gestendo opportunamente l'angolo di attacco dell'ala invertita.
 
Anche dal punto di vista energetico sono sufficienti considerazioni piuttosto elementari per rendere conto delle caratteristiche principali del volo aereo.
Prima di incontrare l'ala, l'aria può considerarsi immobile, per cui la sua energia cinetica finale dopo essere stata deviata verso il basso puó essere considerata essenzialmente come l'energia necessaria a generare la portanza. La potenza, che non è altro che l'energia da fornire ogni secondo, dipende dunque linearmente dalla quantità d'aria deviata ogni secondo (che a sua volta è direttamente proporzionale alla velocità orizzontale dell'aereo) e dipende quadraticamente dalla velocità verticale dell'aria deviata. La portanza stessa, invece, avevamo detto, dipende in modo lineare tanto dalla quantità d'aria deviata ogni secondo quanto dalla velocità verticale dell'aria deviata. Da ciò discende immediatamente un interessante corollario: se raddoppiamo la velocità di crociera dell'aereo, raddoppiamo la quantità d'aria deviata verso il basso, e dunque dobbiamo ridurre l'angolo di attacco in maniera da deviare l'aria verso il basso con velocità dimezzata (il peso dell'aereo, infatti, che stabilisce la portanza richiesta, non cambia). La potenza necessaria al volo, dunque, si dimezza! Al limite, andando abbastanza veloci si può ridurre la potenza richiesta a livelli trascurabili!
Il fatto, però, è che anche andare veloci richiede energia. Quella che abbiamo considerato finora è solo l'energia necessaria a generare portanza, ossia a sollevarci dal suolo. Come succede anche nel caso del moto sulla terraferma, per esempio per le automobili, il dover farsi largo attraverso un mezzo resistente come l'aria richiede energia e in particolare la potenza necessaria a mantenere una certa velocità è proprorzionale al cubo della velocità: semplificando e sintetizzando al massimo, la forza d'attrito è proporzionale alla quantità di moto relativa dell'aria che si incontra; raddoppiando la velocità, la quantità di moto dell'aria che si incontra quadruplica (raddoppia la velocità relativa e raddoppia la massa d'aria incontrata ogni secondo); ogni secondo, dunque, bisogna vincere una forza quattro volte maggiore per effettuare uno spostamento doppio (la velocità è raddoppiata), ovvero è necessaria una potenza otto volte maggiore.
Insomma, per volare è necessario fornire potenza per la portanza (inversamente proporzionale alla velocità di avanzamento) e potenza per avanzare (direttamente proporzionale al cubo della velocità).
A basse velocità, dunque, domina il termine di portanza: la potenza necessaria per sollevarsi e l'angolo di attacco sono considerevoli; a velocità più alte, alzarsi di quota diventa molto più "facile" che aumentare di un po' la velocità di crociera stessa.
Simili argomenti giustificano anche il design diverso di aerei fatti per volare a velocità relativamente basse rispetto a quelli progettati per velocità di crociera più elevate. Se, ad esempio, raddoppiamo la lunghezza dell'ala, raddoppiamo la quantità d'aria deviata ogni secondo, e dunque possiamo ridurre l'angolo di attacco in modo da dimezzare la velocità verticale di uscita dell'aria deviata. Analogamente a quanto detto sopra, la potenza necessaria per la portanza risulta così dimezzata. Al limite, un'ala infinitamente lunga non richiede energia per sollevarsi. Un'ala più lunga, però, deve vincere una resistenza maggiore contro l'aria che incontra. Per questo, dunque, aerei progettati per viaggiare a basse velocità in genere hanno fattori di forma che accentuano l'apertura alare, per ridurre la potenza necessaria alla portanza, dominante a basse velocità, mentre aerei "veloci" hanno in genere ali più corte, per ridurre l'attrito che domina i consumi a velocità elevate.
 
Insomma, la spiegazione di bernoulli pretendeva di spiegare qualitativamente la portanza con un meccanismo "semplice", ma nonappena lo si prendeva un minimo sul serio emergevano dubbi e perplessità (davvero l'aria percorre i due lati dell'ala in tempi uguali? e che forma deve mai avere l'ala per generare portanza a sufficienza?).
Qui invece abbiamo un meccanismo semplice, di meccanica newtoniana, capace di giustificare non solo qualitativamente, la portanza, ma anche quantitativamente, fornendo l'ordine di grandezza giusto per molte quantità fisiche in gioco e giustificando, con una serie di semplici corollari, molte caratteristiche degli aerei e del volo aereo.
 
A posteriori è davvero incredibile come mai fatichi a diventare patrimonio comune un meccanismo così semplice e allo stesso tempo così potente, capace, cioè, di fornire un quadro teorico essenzialmente completo entro cui interpretare la dinamica del volo.

02 February 2011

Borges fa ridere

In realtà la questione è più complicata di così, molto più complicata.
 
Anche un paesaggio naturale può suscitare impressioni, anche se, sì, è vero, se diventa espressione di qualcosa è solo per "colpa" dell'osservatore, dato che non c'è autore.
Ma il vero elemento di complicazione è Borges, e non solo per quelli della mia religione.
Le sue opere sono concettuali, estremamente concettuali, eppure tutto tranne che didascaliche; suscitano vivide impressioni, ma non lo fanno con l'immediatezza delle percezioni sensibili, bensì presupponendo, contemporaneamente, tutta la storia della filosofia e della letteratura passata (e futura); procedono con accostamenti inusuali di concetti remoti fino al paradosso, in stridente contrasto col senso comune. E sì, oltre a mille altre cose, spesso questi accostamenti sono anche divertenti.
Ma dovremmo per questo chiamare le finzioni di Borges semplici battute?
 
In realtà la questione è più complicata di così, molto più complicata.
Però mi ci ritrovo molto, in questa "pillola di filosofia estetica" di Astutillo Smeriglia.

23 January 2011

Non toccatemi Umberto Eco...

Qualche giorno fa si sono celebrati i 10 anni di wikipedia (sì, sì, mi precipito sempre tempestivo sulle notizie) e fra i mille omaggi dedicati alla migliore declinazione di internet in assoluto, mi è capitato di inciampare nuovamente nelle "critiche" di Eco, Umberto Eco, all'Internétte. E mi è venuto in mente che, a suo tempo, avevo promesso di dire la mia ed effettivamente avevo buttato giù un tentativo di risposta a queste critiche, presto partito per la tangente in un giudizio supponente su tutto Eco, Umberto Eco.
'Sta volta non mi limito a promettere di pubblicare, ma vado tosto a incollare quel che mi ero appuntato, anche se puzza un po' di vecchio e non pare più così profondo come immaginavo, o speravo.
 
Non toccatemi Umberto Eco, titolavo, sulla scia di un mio vecchio post, ma svelando l'agnizione finale subito nell'incipit: ...ma solo quando scrive romanzi: per il resto, non abbiate remore e dateci dentro.
Ad essere precisi questi miei giudizi risalgono a molti anni fa, ma direi che al massimo potrei scoprire di non essere più d'accordo col mio vecchio io sull'Eco romanziere, dubito di poter migliorare molto il giudizio sull'Eco saggista. Non che pensi le peggior cose di lui, intendiamoci, ma certo non lo trovo quel riferimento di illuminante saggezza che sembra caratterizzare la sua fama.
Lessi Il nome della rosa che ero troppo piccolo, come lettore, e non seppi apprezzarlo appieno. Ma riconosco, appunto, che con ogni probabilità il limite era mio. Più maturo, lessi Il pendolo di Foucault e mi divertii un sacco. Passai quindi a L'isola del giorno prima e lo definii un romanzo puro, nel senso in cui il termine viene usato in musica: un'opera composta non con intenti didascalici o descrittivi, ma per il solo gusto e piacere dell'opera stessa. Come il contrappunto bachiano mirava (solo) all'incastro armonico — punctum contra punctum — delle diverse voci, così ne L'isola del giorno prima Eco sembra scrivere solo per il gusto di scrivere, per il mero piacere della verbosità (emblematica è la loquela delle lettere di Roberto...).
Insomma, per me l'Eco romanziere fu un crescendo. Ma decisi di scprire anche l'altro lato.
Arrivai all'Eco saggista passando da quella specie di genere intermedio che sono Le bustine di Minerva, raccolte nel Diario minimo e ne Il secondo diario minimo, e già gli entusiasmi si raffreddarono molto. Ritrovai i giochi cacopedici à la Pilocatabasi, Tetrapiloctomia o Urbanistica Tzigana de Il pendolo di Foucault, ma fuori da quel contesto di romanzo avevano perso quasi tutto il loro brio e di essi non restava altro che infantilità e geekismo nel senso peggiore del termine. Certo, c'erano alcune bustine godibili (ricordo con piacere Elogio di Franti, oppure quella in cui si sfatava il mito che prima di Colombo tutti credessero la Terra piatta...), ma la maggior parte delle volte il risultato era insipido, oppure eccessivo. O addirittura firma di letterata ignoranza (vedi ad esempio la gita scolastica in gergo informatico). Per via della mia religione, il culmine del peggio mi è parso l'abbia raggiunto cercando di "riciclare" Borges: era inevitabile, chi prova a rifare Borges viene fulminato, lo sanno tutti: ma il suo Dell'impossibilità di costruire la carta dell'impero 1 a 1 fu davvero qualcosa di mortificante.
In realtà, di saggi veri e propri, feci in tempo a leggerne solo uno (la vita è finita e lì fuori c'è un'infinità di cose potenzialmente interessanti: uno deve inevitabilmente cominciare a sfoltire). Il titolo sembrava interessante, i temi trattati di mio grande interesse ed Eco era un nome importante: partii con le migliori aspettative. Forse fu proprio quello, perché non è che possa dire il peggio di Kant e l'ornitorinco. A voler essere cattivi si potrebbe commentare che un letterato non è nemmeno un filosofo, ma credevo che il titolo di semiologo lo avvicinasse almeno un po' alla forma mentis dello scienziato. E invece la metafora più calzante per descrivere questo saggio è proprio quella del tema liceale. Un ottomo tema, intendiamoci: colto, pieno di citazioni, riferimenti, excursus, paralleli, aneddoti... ma senza un vera e propria tesi di fondo, o con una tesi di fondo minuscola, spesso banalmente ovvia, e comunque completamente annacquata da citazioni, riferimenti, etc, etc...
Il peggio, qui in Kant, lo trovai all'inizio, in quell'interminabile sezione sull'essere, piena di vuoto pneumatico distillato da aria fritta (ricordo quasi con nausea i volteggi acrobatici fra i millanta modi di dire "essere" in tedesco...). Dopo quella prima parte, cui mi parve di resistere con supremo sforzo stoico, trovare un senso nelle parole dei capitoli successivi fu un sollievo, ma alla fine di tutto mi fu chiaro che non avrei più letto niente di saggistico di Eco.
Oddio, ma dove sono finito? Questo post non doveva parlare di Eco in generale, bensì nello specifico del suo ormai famoso giudizio su Internet, il pretesto essendo l'intervista di AubreyMcFato per it.wikinews...
Ma si è fatto tardi, Internet, si sa, non è fatta per le cose lunghe (sì, sì, sono ironico, anche qui avrei le mie cose da dire, ma purtroppo non possono essere contenute nel margine troppo stretto della pagina...), e dunque sarà per la prossima volta... :-)
E qui avrei interrotto per rimandare a un altro post, per spremere al massimo la mia produzione letteraria e far sembrare questo blog un posto vivo e sempre fresco. Ma ormai sono passati mesi e mesi, vi risparmio l'attesa e incollo qui di seguito anche la seconda parte, alla faccia dell'internet dai testi brevi.
Ora che conoscete la mia opinione di Umberto Eco, posso finalmente dire la mia, molto brevemente, sulle sue numerose "uscite" su Internet.
Mantellini riassume bene quel che ne penso: una baggianata; ma mentre lui poi pare più accondiscendente nei confronti dell'intervista di AubreyMcFato, io la trovo semplicemente una riproposizione, in maniera forse più articolata, della solita baggianata — Aubrey, ambasciator non porta pena... :-)
C'è una critica piuttosto generale all'attegiamento di Eco, espressa bene da Alessandro Longo: denigrare il progresso per pura nostalgia.
La tesi sarebbe che su Internet ci sarebbe troppa roba e la spazzatura prevaricherebbe sul poco di buono che col lanternino si potrebbe trovare. Qualcuno addirittura paragona Internet al muro di un cesso pubblico con pennarello a disposizione. Verrebbe quasi da ribattere che sì, le scritte/commenti sarebbero dello stesso livello di quel che uno va a fare, in quei cessi/post...
Ma, frecciatine a parte, il punto è che l'alternativa che Eco ha in mente soffre precisamente dello stesso problema, forse persino in misura maggiore.
L'alternativa che Eco cita sono libri e giornali: ma avete mai visto che libri circolano nelle librerie? Dalle sezioni New Age piene di ricette con rimedi bio-energetici a tutti i mali, alle sezioni "politiche" con complottismi di ogni genere e brunovespismi sempre freschi, alle sezioni scientifiche piene di tao-della-fisica e zichicche, fino a Moccia e ai romanzi di poca cosa. No, decisamente non sono della scuola qualsiasi cosa, basta leggere. Per non parlare dei giornali, pieni di bufale — Dio benedica Paolo Attivissimo — e granchi in quantità, facili ad errori grossolanissimi nonappena si tocca un po' d'economia o di statistica, persino su giornali sedicenti "specialistici in materia" come IlSole24Ore.
La baggianata, insomma, il solito miopismo veterogenerazionale nei confronti del nuovo, non è tanto il malgiudicare Internet, quanto il pensarlo diverso dal "caro vecchio mondo di carta".

04 January 2011

La teoria endosferica del campo o Sistema cosmocentrico

«Facciamo un esempio semplice. Supponiamo, come nell'ipotesi della contrazione di Fitzgerald, che le lunghezze in una direzione siano più brevi che in un altra direzione. [...] Una simile ipotesi ha qualche significato? [...] Per scoprire il mutamento avvenuto non si può far ricorso ai normali sistemi di misurazione: bisogna ricorrere ai metodi del tipo dell'esperimento di Michelson e Morley, in cui per misurare le lunghezze si impiega la velocità della luce. Poi resta ancora da decidere se è più semplice supporre un mutamento della lunghezza o un mutamento della velocità della luce. Il dato sperimentale è che la luce, per percorrere quella che lo strumento di misura indica come una data distanza, ci mette di più in una direzione che in un'altra; oppure, come nell'esperimento di Michelson e Morley, che dovrebbe metterci di più e invece non lo fa. Potete adeguare in varie maniere le misure ad un fatto del genere; qualunque sistema scegliate, vi sarà sempre un elemento di convenzione. Questo elemento convenzionale sopravvive nelle leggi alle quali si arriva dopo aver preso una decisione in merito alle misure, e spesso assume forme sfuggenti ed elusive. Eliminare l'elemento convenzionale è, in realtà, straordinariamente difficile; quanto più l'argomento viene approfondito, tanto maggiore appare la difficoltà da superare.»
Non ho resistito alla tentazione di iniziare con alcune delle parole con cui Bertrand Russell accenna, nel suo bellissimo L'ABC della relatività, alla sottile questione della geometria dell'universo (il corsivo nella citazione è mio). L'elemento centrale per quanto discuterò è l'inevitabile presenza di elementi arbitrari in tale procedura, fatto da tenere sempre presente quando si voglia capire com'è fatto il mondo indipendentemente da come noi possiamo (o vogliamo) raffigurarcelo.
Russell, essendo in tema di relatività generale, fa riferimento alla geometria dello spazio-tempo. Per semplificare un po' e per avvicinarci alla questione che discuteremo, possiamo pensare alla geometria del solo spazio. Bianca Sangiorgio e Roberto Ceriani, in Modelli e Realtà 1 – La fisica e l'arte di comprendere il mondo, scrivono:
«Due sole sono le strade possibili, ed entrambe basate su assunzioni di carattere non sperimentale.
  • Il fisico può scegliere liberamente le regole per misurare gli intervalli spaziali. Una volta fatta questa scelta, la struttura geometrica dello spazio fisico va determinata sperimentalmente. [...]
  • Il fisico può scegliere liberamente la struttura dello spazio fisico, ma allora deve modificare le regole e gli strumenti di misurazione sulla base dei fatti empirici. [...]
Qualunque sia la strada scelta è chiaro, comunque, che alla base vi è una scelta di tipo convenzionale.
Dovremo allora dire che la geometria dello spazio fisico non è solo il risultato dell'esperienza, ma dipende anche dalla convenzione che scegliamo di utilizzare. In altre parole il mondo ci appare dipendere, in qualche modo, da come noi ci immaginiamo esso sia.»
Classicamente ("quotidianamente") si assume che il mondo sia di tipo euclideo e che la lunghezza degli oggetti non cambi al cambiare della posizione dell'oggetto stesso, e questa assunzione rende bene conto della nostra esperienza. In effetti, però, se pensassimo lo spazio fisico in maniera "non euclidea", potremmo ugualmente rendere conto dei dati dell'esperienza adeguando i regoli di misura alla nostra scelta di geometria per lo spazio. Se ad esempio supponessimo, con Russell, che un regolo millimetrato puntato verso nord sia lungo solo la metà dello stesso regolo puntato verso est e che la stessa cosa sia vera per tutti gli altri corpi, riusciremmo a dar conto dell'esperienza esattamente nella stessa misura con cui ci riusciamo classicamente: dovremmo solo dire che il regolo non è un buono strumento di misura della "vera" lunghezza dei corpi perché cambia lunghezza "vera" in relazione alla sua inclinazione, ma poi, poiché ci interesserebbero solo le lunghezze "false" misurate da quello stesso regolo, agiremmo quotidianamente allo stesso modo di come agiamo di fatto.
Resici conto di ciò, eviteremo così di spaccarci la testa nella ricerca della "vera" lunghezza spaziale dei corpi e limiteremo le nostre indagini agli elementi non arbitrari della descrizione del mondo.
 
   —   ∴   —   
 
Da qualche parte, nella mia memoria, giaceva tutto impolverato il ricordo di una lezione di fisica in prima liceo in cui, en passant, all'interno di un discorso ormai sommerso dall'oblio, il mio professore — quello stesso Roberto Ceriani di Modelli e realtà — menzionava una curiosa dottrina cosiddetta "del mondo cavo" secondo cui la Terra era sì sferica e non piatta, ma tale per cui le valli e i monti che noi abitiamo sono rivolti all'interno della superficie sferica, interno che contiene tutte le stelle e le nuvole e i fenomeni che sovrastano i nostri capi. Io credetti, e ancora credevo fino a qualche giorno fa, che trattavasi di idee propugnate in un passato poco recente, paragonabili alle concezioni alchemiche di pietre filosofali o elisir di lunga vita.
Giaceva — questo ricordo — tutto impolverato in qualche meandro della mia memoria di cui ignoravo completamente anche l'esistenza, quando m'imbattei per caso, girovagando com'è mio solito per la biblioteca della facoltà di Fisica, in un libro di un tale Paolo Emilio Amico-Roxas intitolato Il problema dello spazio e la concezione del mondo — La teoria endosferica del campo o Sistema cosmocentrico. Sfogliando le tavole raccolte in appendìce, mi ritrovai a osservare un disegno in cui si riproduceva un paesaggio della terra concava e lo si metteva a diretto confronto con una riproduzione più consueta dello stesso paesaggio, convesso. Non ci volle molto perché, in un attimo, tornassi ad essere consapevole di quel meandro della memoria, lo spesso strato di polvere fosse rimosso e il remoto ricordo riaffiorasse dall'oblio. Subito pensai che in quel libro si stesse citando la dottrina "del mondo cavo", ma una nuova occhiata al titolo e una breve scorsa all'indice mi convinsero subito che quel libro pretendeva di difendere tale concezione del mondo. E risaliva a nientepopodimeno che il 1960!
Come si poteva pensare che la Terra fosse incurvata verso l'alto, tre anni dopo il lancio del primo Sputnik? Come si poteva pensare che la Luna fosse contenuta all'interno della Terra, l'anno dopo che una sonda si schiantava sul nostro satellite naturale e un'altra ci mandava le prime immagini del suo lato nascosto?
Non ci pensai due volte, e decisi che avrei letto quel libro.
 
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Facciamo un altro esempio. Consideriamo una superficie sferica di centro O e raggio r in uno spazio euclideo tridimensionale ordinario. Essa determina una suddivisione dello spazio in due regioni: quella interna e quella esterna. Esiste una semplice trasformazione geometrica che mette in corrispondenza ogni punto interno alla sfera con uno e un solo punto esterno (in realtà ne esistono molte, ma consideriamone una, per semplicità: quella che mette in corrispondenza ad un punto P a distanza d da O, il punto P' che giace sulla retta PO, e che dista r²/d da O). In questa trasformazione il punto O non trova corrispondente nello spazio (viene mandato all'infinito), ma si tratta di un particolare irrilevante. Inoltre la trasformazione, pur essendo continua, non preserva le distanze: la lunghezza di un regolo, fisso nello spazio di partenza, assume nello spazio di arrivo valori che dipendono dalla distanza dal centro della sfera cui viene posizionato. In questa trasformazione la superficie sferica considerata è un luogo di punti uniti (cioè i punti della sfera vengono mandati in se stessi dalla trasformazione).
Identificate, ora, la sfera con la superficie della Terra: cosa avete ottenuto? La trasformazione di "inversione" che abbiamo descritto muove all'esterno della Terra tutti i punti interni e viceversa! Ecco l'idea geniale: spiegare la teoria "del mondo cavo" con una trasformazione geometrica che connetta lo spazio euclideo normalmente esperito con quello invertito della teoria che si intende difendere! La "vera" geometria dell'universo è quella che concepisce la Terra cava con il suolo che si estende all'infinito sotto i nostri piedi e il cielo che si ritrova racchiuso dalla Terra stessa nel volume di una sfera finita. Come mai esperiamo esattamente il contrario? Ma perché utilizziamo per misurare le distanze dei regoli comuni, che si deformano quando cambiano posizione esattamente di quanto serve perché la "falsa" geometria che deduciamo sia quella euclidea!
 
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Sembra una presa in giro, ma l'autore del libro pare crederci davvero. Si sospetta un consapevole tiro mancino al lettore, dal momento che il nostro Amico-Roxas impiega tutta la prima parte del suo libro (circa un terzo della sua mole) per fare considerazioni perfettamente sensate sul rapporto fra geometria astratta e geometria del mondo fisico, tra modelli e realtà, quasi paragonabili (ho detto quasi!) a quelle di Russell. Sennonché, dopo decine e decine di pagine passate nel tentativo di convincerci della perfetta equivalenza sperimentale dello spazio euclideo tradizionale e quello endosferico (qualsiasi esperienza a favore di un mondo euclideo tradizionale comproverebbe identicamente la sua teoria endosferica "per come è stata definita"), ce lo ritroviamo a riversare altrettante decine e decine di pagine nella speranza di convincerci — contemporaneamente — che tale teoria permette di giustificare cose inspiegabili classicamente. Un'ulteriore conferma del fatto che, forse, Amico-Roxas fosse genuinamente e irrimediabilmente convinto delle cose che tenta di comunicare in quel libro, può essere ritrovata nell'atmosfera di esoterismo e di cabala che pervade molte parti del libro (le "coincidenze" classiche che trovano piena giustificazione nella sua teoria endosferica ricordano molto da vicino le regolarità geometriche che già Keplero trovava nel sistema solare...), lasciando quasi la sensazione di star leggendo un codice di Picatrix, il celebre manuale di magia e negromanzia.
Una lettura curiosa.
Non mi azzardo, però, a consigliarla.

24 December 2010

Per vedere lo Stato bisogna capirlo

Per vedere una cosa bisogna capirla. La poltrona presuppone il corpo umano, con le sue parti e le sue articolazioni; le forbici l’atto di tagliare. Che dire di una lampada o di un veicolo? Il selvaggio non può percepire la Bibbia del missionario; il passeggero non vede lo stesso cordame che vede l’equipaggio. Se vedessimo realmente l’universo, forse lo capiremmo.
J. L. Borges, There are more things, in Il libro di sabbia.
 
Oltre ad esporre la sua specifica visione libertaria della società, nel suo libro Per una nuova libertà Rothbard prova anche ad avanzare qualche ipotesi sulle possibilità concrete che le idee libertarie possano trovare realizzazione, più o meno pienamente, in un futuro non troppo remoto, magari proprio nei suoi Stati Uniti. E si resta sorpresi, a posteriori, del suo ottimismo, che intravede in una serie di "crisi" (la recessione, l'inflazione, i fallimenti keynesiani, l'aumento delle tasse, la situazione in Vietnam, il Watergate, et cetera) grazie alle quali avrebbero dovuto diventare evidenti a tutti gli esiti nefasti degli interventi statali.
In maniera molto simile, un analogo ottimismo tenta anche me, oggi: la gravità della crisi attuale e in particolare il fatto che siano proprio gli Stati in quanto tali a rischiare il fallimento, sembrerebbe l'occasione giusta per mettere in luce le contraddizioni del ruolo stesso dello Stato nella società (ché, ricordiamecelo, Stato e società sono cose diverse).
 
Le proteste diffuse (in Grecia, in Irlanda) contro i famigerati "piani di austerità", ad esempio, renderanno evidente a tutti, finalmente, la natura coercitiva del sistema statale: una persona piena di debiti, che ha speso per anni più di quel che aveva chiedendo in prestito soldi in giro, contro chi mai potrebbe protestare per non essere più in grado, ora, di restituire ogni cosa? Ebbene l'analogia con gli Stati e i loro debiti si rompe nel punto preciso in cui chi deve pagare, il cittadino, non coincide con chi ha deciso dove e come "bersi" tutti quei soldi, il politico — lo Stato non siamo noi, sono loro!
Finalmente tutti si accorgeranno che dichiarare qualcosa — un bene o un servizio — come "diritto" del cittadino (assistenza sanitaria, istruzione, trasporto pubblico, etc...), in maniera astratta, "a garanzia statale", significa considerare lo Stato come una mucca da mungere con risorse infinite, significa ignorare — per ingenuità o malafede — il costo del bene/servizio e chi debba pagarlo: perché qualcuno, in qualche modo, deve pur pagarlo, there ain't no such thing as a free lunch.
Ma adesso che si presenta il problema del "chi paga", diventa finalmente chiara la violenza dello Stato: io non ho scelto di avere servizi che non potevo permettermi e ora non voglio dover pagare per essi ("protesto contro le manovre di austerità"); del resto, negli anni di boom, ho approfittato anch'io di questi servizi "sopra le mie possibilità", ma d'altro canto non avevo alternative, erano servizi "pagati dallo Stato"!
Ecco dunque palesarsi, in tutta la sua perversione, la sproporzione e l'inganno del meccanismo elettorale: il voto non costa nulla, ma ha effetti devastanti: con esso non mi limito a dare "indicazioni legislative" su ciò che sarà legale o meno (e non entro ora nel merito del rapporto fra uno Stato e queste altre questioni legislative), ma sto dando letteralmente "carta bianca" sull'uso non solo dei miei soldi presenti, che forzatamente mi vengono espropriati con le tasse, ma addirittura sui miei soldi futuri, che vengono ipotecati per poter fornire, ora, servizi ad un livello che non ci si può permettere.
 
"Fornire servizi", ovviamente, nella più ingenua delle concessioni di beneficio del dubbio.
 
Questa volta, poi, c'è anche la concomitanza del caso Wikileaks, in cui non poteva essere più evidente che la differenza fra le democrazie occidentali e la fantomatica Cina è molto più sfumata di quello che viene sbandierato: se provi a metterti contro lo Stato, pur sedicente democratico, ci si mangia in un sol boccone, e senza nemmeno troppo dissimulare, qualsiasi habeas corpus.
 
Un ottimismo simile a quello di Rothbard, insomma, tenta anche me, oggi.
 
Ma quale ingenuità, sarebbe!
 
In realtà anche questa volta, come e più dei tempi di Rothbard, nessuno si accorgerà di niente e, anzi, come allora, la soluzione a tutti i mali sarà ancora più Stato, più Stato, più Stato. Ripeteranno ancora che le tasse per uscire dalla crisi le pagheranno i più ricchi per poter continuare a offrire servizi ai più poveri, e la gente continuerà a non accorgersi che sarà, come sempre, l'esatto contrario. Saranno capaci di offrire come cura al veleno, indebitamento e azzardo morale, ancora altro veleno, ulteriore indebitamento (il fantomatico "stimolo") e ancora più azzardo (titoli non più di Stato, ma addirittura d'Europa).
 
Del resto, io stesso, solo qualche mese fa, che interpretazione avrei dato di queste vicende? Mi sarei finalmente, da solo, riscoperto libertario? Del tutto inverosimile. Avrei invece cercato di far rientrare i fatti nell'usuale schema concettuale: avrei dato la colpa alla classe dirigente, ai politici, alla situazione anomala italiana di clamoroso conflitto di interessi, agli italiani incapaci di accorgersi di quell'anomalia e rigettarla alla prima occasione elettorale, o ad una delle innumerevoli altre successive, magari addirittura giustificandoli per via dell'immenso condizionamento mediatico a cui sono sottoposti da decenni.
Sarebbe stato difficile per me accorgermi, solo sulla base di questa crisi, che in realtà quello Italiano rappresenta proprio il caso emblematico di un meccanismo degenerativo del tutto generale e intrinseco alla natura stessa degli Stati, ai loro meccanismi di funzionamento standard. Che scandalizzarsi per la corruzione dei politici e chiedere a gran voce un ritorno alla legalità e all'onestà istituzionale e politica è semplicemente come scandalizzarsi per il corso dei fiumi e chiedere con fermezza che l'acqua prenda finalmente a scorrerre in salita!
E il caso italiano, dunque, diventa emblematico, contemporaneamente, da due punti di vista. Innanzitutto, come dicevo, rappresenta un esempio eclatante dell'esito naturale di un meccanismo che, monopolizzando l'uso della forza, permette proprio ai più ricchi e potenti di avere un solo interlocutore da dover "convincere", con facili ringraziamenti, per poter avere privilegi e agevolazioni; che, proprio per il fatto di avere un solo interlocutore, nega la possibilità di scelta al singolo cittadino e offre spazio di manovra ai poteri forti (corporazioni e lobby), solo loro capaci di potersi permettere gli opportuni "ringraziamenti" da offrire allo stato.
Ma nella sua esasperazione di questi meccanismi, l'Italia è contemporaneamente la prova paradigmatica che sarà impossibile cambiare, che l'evidenza più sfacciata di sopprusi, corruzione e malafede non può assolutamente niente, se manca una teoria capace di interpretare quell'evidenza.

03 December 2010

YATDL

Yet Another To Do List:
  • dire davvero almeno qualcosina sulla prospettiva libertarian, come millantato con grande sfacciataggine, nonostante non abbia alcuna idea sul da dove cominciare né su che taglio dare; nel frattempo vi segnalo il nuovo blog di Fabristol: Who is John Galt?. Se ancora non l'avete aggiunto al vostro aggregatore, o addirittura non sapete cosa sono i feed RSS, vi segnalo giusto un paio di post: Sul rapporto tra imprenditoria e stato e Imbrigliare (anche) il web;
  • spiegare davvero perché gli aerei volano (che, in fondo, è mooolto più semplice di così);
  • fornire la mia versione di una spiegazione "divulgativa" della "filosofia" della rinormalizzazione (dopo quella di ToMaTe);
  • mi sono ritrovato a ripensare recentemente alle due circolarità nei principi di Newton: ora che ho un blog potrei "pubblicare" qualche mio appunto del prim'anno dell'università;
  • riguardando quegli appunti, ho ritrovato alcune righe sul concetto di probabilità che meriterebbero di essere sviluppate, chissà che non ci scappi un post;
  • ho ritrovato pure — che risate! — qualche paginetta sul "Sistema cosmocentrico", o "Teoria endosferica del campo": allora non c'era Internet, o almeno non era così diffusa, o almeno io non vi ero così familiare, e trovare chicche come queste in una biblioteca di facoltà non era la stessa cosa che capitare, oggi, su uno qualsiasi degli innumerevoli siti-web che spiegano come il loro autore ha scoperto la Vera Natura del Mondo: se decido di non vergognarmene troppo potrei anche pubblicarla, giusto per rimuovere qualche ragnatela da questo blog che altrimenti ammuffisce...
Nel frattempo approfitto di questo post per segnalare, off topic, le bellissime slide Against Space di Sean Carroll.

26 October 2010

Vuota apologia del libertarianismo

Dicevo che il Libertarianismo è una di quelle "scoperte" che ti cambiano radicalmente il modo di vedere tutte le cose; e vi sarà sembrata, lo so, una di quelle frasi romantiche, di chi ama naufragare fra per sempre e mai piú, e immaginare l'infinito dietro l'ermo colle.
E invece è letteralmente così, ti rivolta davvero tutto il mondo come un calzino: lo shopping, lo stato, la società, l'ecologia, i diritti fondamentali degli uomini, non sono più gli stessi; non è più la stessa cosa votare, pagare le tasse, andare a scuola, al lavoro, (non) fare ricerca scientifica. Persino l'astrologia, l'omeopatia e Vanna Marchi (e ditemi voi se è romanticismo Vanna Marchi!) non sono più quelli di prima!
 
Chiaramente sto parlando della mia esperienza personale: non so se tutti i libertari sono passati attraverso un'analoga fase tellurica o se magari hanno vissuto un'esperienza simile ma in più tenera età e, quindi, con meno sconvolgimento (o, più banalmente, sono stati libertari "da sempre").
 
Personalmente, per quanto riguarda la portata rivoluzionaria, trovo che il paragone naturale sia con la fisica moderna e il Darwinismo: se, da una parte, Relatività e Meccanica quantistica ridefiniscono la stoffa con cui è fatto il mondo (spazio, tempo, oggettività, causalità...), dall'altra il Darwinismo tocca più da vicino proprio l'essere umano (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo). Ebbene, la prospettiva libertaria rappresenta il vertice di questo climax perché sconvolge il concetto di uomo nella società, e dunque te la ritrovi dappertutto, quotidianamente.
Ma, sempre in chiave di portata rivoluzionaria, c'è un aspetto profondamente diverso fra Libertarianismo, da una parte, e Relatività, Meccanica quantistica e Darwinismo dall'altra: mentre queste ultime sono scienze consolidate e mainstream, e il Darwinismo addirittura, pur in facili semplificazioni, è addirittura patrimonio comune (ok, lasciamo stare in questo momento l'Intelligent Design...), il Libertarianismo rappresenta invece una specie di terra ignota, ignobile persino, priva anche del fascino trasgressivo dei tabù.
E' stato del tutto casualmente, infatti, che qualcuno mi ha indicato Rothbard, Friedman e prima ancora la scuola austriaca di economia. Eppure, esattamente come succede con Darwin, l'unica reazione che si prova, a posteriori, è semplicemente un: ma come ho potuto essere stato cieco per tutti questi anni? E, a differenza di Darwin, com'è possibile che tanta gente, colta e istruita, progressista, sia del tutto ignorante rispetto a questo modo così naturale di vedere le cose?
 
Va bene, direte voi, ora piantala di girare attorno alla questione e di creare tutta questa suspense: dicci finalmente cos'è, cosa dice questa teoria libertaria della società (ché a leggere Wikipedia sembrano dei pazzi furiosi).
 
La cosa più semplice che potrei fare, in effetti, è proprio fornire qualche link: oltre a Wikipedia ci sono tante fonti online su argomenti libertari e ci sono anche ottimi blogger che ne parlano.
Il punto è che io stesso ero entrato in contatto con alcuni concetti libertari, pur in maniera casuale e tutt'altro che sistematica, proprio attraverso letture sporadiche da alcuni blogger (ad esempio il lume rinnovato), e tuttavia non ero riuscito a coglierne la portata. Un po' perché ero viziato da tutta una serie di pregiudizi inconsapevoli molto comuni e di cui mi sono dovuto letteralmente liberare con non poca fatica, e un po' perché si trattava di concetti isolati di cui mi mancava il contesto (contesto tanto fondamentale proprio perché il Libertarianismo presuppone un cambiamento di prospettiva radicale rispetto al modo di pensare comune). E infatti, almeno da questo punto di vista, un po' mi sono pentito dei miei post recenti in cui riportavo "beceramente" dei brani di Rothbard, perché ottengono in molti casi lo stesso (controproducente) effetto nel lettore non-libertario: straniamento e sospetto.
Quel che mi piacerebbe, invece, è provare a fornire un percorso, anche solo accennato, sicuramente da approfondire poi altrove, che possa però facilitare la strada ad altri che si trovano in una situazione simile a quella in cui mi trovavo io fino a qualche mese fa. Gran parte dei pochi lettori che mi seguono, infatti, almeno io credo, non sono libertari per lo stesso motivo per cui non lo ero io: semplice e pura ignoranza.
 
A coloro che, per ingannare l'attesa (sicuramente lunga, potenzialmente vana) di una prossima puntata, su questi schermi, su questi temi, volessero comunque cominciare da Wikipedia, chiederei almeno di non affrettare il giudizio: le pagine di Wikipedia, giocoforza, espongono le idee libertarie in maniera concisa, evidenziandone le tesi, manco a dirlo, rivoluzionarie. E proprio in quanto tali, prese così, dall'alto, queste tesi possono apparire al limite dell'irragionevolezza. Di più: a volte possono anche esserlo, irragionevoli, perché nella semplificazione di una voce enciclopedica possono rappresentare il risultato estremo di un approccio del tutto inusuale. Il punto è che — e in questo effettivamente il paragone con la fisica moderna e il Darwinismo non regge decisamente più — il Libertarianismo non è un monolite, accentrato, chessò, sulle tesi di Rothbard o di Friedman (che, tanto per dire, erano spesso in disaccordo reciproco su tante cose). Il Libertarianismo, in tutte le sue varie forme rappresenta una prospettiva sulla società, un modo di pensare e di affrontare questioni in cui semplicemente hai imparato a evitare "i soliti errori". Su molte questioni non esiste la soluzione libertaria (al massimo c'è la soluzione di Rothbard, quella di Friedman, e spesso quelle più "famose" sono le più "estreme", da cui, almeno in parte, l'immagine diffusa di "pazzi furiosi"). L'accordo, se vogliamo, è "in negativo", su quali soluzioni "sicuramente non funzionano" e su quali sono i fattori rilevanti, nella ricerca di una soluzione.
 
Questo, tra l'altro, per dire che no, non ho trovato l'unica verità politica a cui tutti dovrebbero adeguarsi, che sarebbe oltremodo ingenuo. L'effetto di devastante rivoluzione della prospettiva libertaria è in negativo, riguarda la quantità di credenze implicite e apparentemente naturali che improvvisamente si frantumano, si rivelano quali falsi preconcetti che da sempre hanno distorto la visione della società.
Proprio come con la fisica moderna e il Darwinismo, il panorama che ti si para davanti è sterminato, e approfondirlo richiede(rebbe) tempo ed energie, ma ugualmente, da subito, capisci che, qualunque cosa troverai, non sarà come quello a cui eri abituato.
 
Insomma: non è tanto una o più specifiche tesi finali di particolari libertari, quanto la prospettiva, che vorrei provare a farvi scorgere, in qualche modo, in futuro, su questo blog. Non ho idea di come fare, dovrò cercare di ricordare com'ero, io stesso, qualche mese fa (e già mi sembra un io lontanissimo ed estraneo), come ragionavo, cosa mi risultava assolutamente impossibile da concepire, ma soprattutto come invece sono arrivato a concepirlo, prima, e, ben presto, a trovarlo addirittura naturale e ovvio.

25 August 2010

ilPost /2

Se c'è una cosa che, sin "da piccolo", odiavo dei giornali, era quel loro entrare a gamba tesa in medias res, ricamando nei minimi dettagli sull'intonazione della voce con cui Tizio rispondeva sibillino al commento con cui Caio faceva seguito all'esternazione di Sempronio... sulla notizia di cui s'era persa ogni traccia... sin dall'inizio.
E allora Dio benedica ilPost, che su molte notizie riempie una nicchia ecologica informativa che è pazzesco pensare che nessuno abbia mai cercato di occupare (e onestamente non saprei dire se la colpa è più da parte dei giornalisti o da parte dei lettori, che forse non hanno nemmeno questa esigenza e la nicchia che ho in mente io, di fatto, forse — in Italia? — non esiste nemmeno...).
Com'è, come non è, fatto sta che ilPost risponde in maniera estremamente efficace alla mia esigenza di contestualizzazione e comprensione, e per quelle notizie che tornano alla ribalta come seguito di fatti ormai remoti, o per quelle notizie che sin dall'inizio nascono confuse e frammentate, o per quelle notizie che crescono così smisuratamente in "commentari" da insabbiare i fatti su cui dovrebbero poggiarsi; per notizie, dicevo, che ricadono in una o più o in tutte queste categorie, ilPost mi regala pezzi che suonano rassicuranti anche solo a leggerne il titolo.

20 August 2010

Fra P e NP(-completi)

 
Proseguo dal post precedente.
E' venuto fuori un post molto lungo, anche se più breve di quel che avrei voluto...
 
Chiariamo innanzitutto alcuni aspetti del tutto generali sui criteri alla base della classificazione della complessità computazionale di un problema.
 
Efficienza algoritmica come limite superiore alla complessità di un problema
 
La legge di scala (polinomiale, esponenziale, etc) delle risorse computazionali (tempo, memoria, etc) in ragione della taglia del problema (le cifre del numero da fattorizzare, il numero di amminoacidi della proteina da foldare) è, strettamente parlando, una caratteristica dell'algoritmo, non del problema: posso infatti benissimo immaginare di risolvere un problema P con un algoritmo che scala esponenzialmente, basta essere sufficientemente "ingenuo" e "sprecone".
Dato però un algoritmo capace di risolvere un certo problema, posso comunque dire qualcosa sulla complessità computazionale del problema: essa certamente non sarà superiore alla complessità dell'algoritmo. 
Quando dunque voglio parlare di complessità di un problema in termini di risorse, dovrò necessariamente parlare di complessità non maggiore di quella del miglior algoritmo noto: potrà sempre succedere di scoprire un algoritmo più efficiente per un problema, dimostrando così che la sua complessità computazionale era effettivamente più piccola di quella che credevamo (e storicamente è proprio successo così per alcuni problemi che sembravano più "difficili" di quel che erano, uno per tutti il test di primalità, il problema, cioè, di stabilire se un numero è primo o meno — senza dover trovare esplicitamente i suoi fattori primi). 
L'unico modo che avremmo per poter dire che un problema è davvero, intrinsecamente "difficile" sarebbe quello di dimostrare che non è matematicamente possibile trovare un algoritmo più efficiente di una certa complessità, ma questo finora, che io sappia, non è mai accaduto per nessun problema. 
Di conseguenza, dunque, le classi di complessità dei problemi tendono ad essere degli insiemi "concentrici" in cui le classi più "complesse" includono quelle più semplici (e.g. P è un sottoinsieme di NP). In realtà non è sempre necessariamente così per tutte le possibili classificazioni e comunque quasi sempre non abbiamo garanzie che l'inclusione sia propria, che esistano cioè problemi che hanno una qualche complessità minima (e.g. un problema che sia in NP ma non in P — che equivarrebbe appunto a dimostrare che P!=NP). 
 
Esempi semplici 
 
Chiarito il senso generale del concetto di "classe di complessità di un problema", possiamo passare ad alcune classi specifiche: P è la classe di problemi per cui si conosce un algoritmo di soluzione che scala polinomialmente nel tempo, EXP quella dei problemi di cui si conosce un algoritmo di soluzione che scala esponenziale nel tempo; PSPACE è quella dei problemi di cui si conosce un algoritmo di soluzione che scala polinomialmente nell'uso di memoria (space), fosse anche in tempo infinito. Evidentemente, per quanto detto prima, P è un sottoinsieme di EXP. Si può poi dimostrare che PSPACE è un sottoinsieme di EXP e dunque la catena di inclusioni "concentriche" è: EXP ⊇ PSPACE ⊇ P. 
 
NP 
 
Bene, veniamo dunque ai problemi NP. La classe NP è definita in modo un po' diverso (è per questo che dicevo che non tutte le classi sono "concentriche": ad esempio sia NP che coNP includono P, ma entrambe non sono (probabilmente) l'una il sottoinsieme dell'altra — a meno che NP=coNP o addirittura che P=NP, e allora sarebbe P=NP=coNP... Se vi interessa dare uno sguardo "grafico" allo Zoo della complessità potete dare un'occhiata a uno di questi diagrammi delle inclusioni; se vi interessano i dettagli potete perdervi nel Complexity Zoo Qwiki). 
Dicevamo, NP: si può definire la classe NP con una legge di scala degli algoritmi, ma per farlo bisogna cambiare definizione di algoritmo: i problemi NP sono quelli per cui è noto un algoritmo non-deterministico (da cui la N della sigla NP) capace di risolverlo in tempi polinomiali. Gli algoritmi non-deterministici (o equivalentemente le macchine di Turing non-deterministiche) rappresentano un modello computazionale molto utile a livello teorico ma di scarsa rilevanza pratica, dal momento che non è possibile costruirne una realizzazione fisica. Praticamente tutti i moderni computer sono invece delle macchine di Von Neumann che implementano una macchina di Turing universale deterministica, e infatti quando si parla di algoritmi senza ulteriori specificazioni si intendono sempre algoritmi deterministici o per macchine di Turing deterministiche
Esiste però una definizione del tutto equivalente, che tira in ballo i soliti algoritmi deterministici: i problemi NP sono quei problemi per cui è noto un algoritmo (deterministico) capace di verificare la soluzione in tempi polinomiali. 
Per la cronaca, i problemi NP stanno fra PSPACE e P, ovvero: EXP ⊇ PSPACE ⊇ NP ⊇ P. 
 
NP-completezza: un limite inferiore alla complessità di un problema? 
 
E i tanto chiacchierati problemi NP-completi? Qui le cose si fanno più intricate... e più affascinanti. In effetti quella dei problemi NP-completi non è nemmeno una classe di complessità in senso proprio del termine (non la troverete, infatti, nel super-mega-complicatissimo-diagramma-di-inclusione). 
Il punto cruciale è che la definizione di problema NP-completo cerca di fare quello che le classi di complessità di cui abbiamo parlato finora non possono fare: rappresentare un limite inferiore alla complessità di un problema. Dico cerca perché, ovviamente, se ci riuscisse veramente avrebbe appunto dimostrato che P≠NP. E tuttavia, pur non riuscendoci, il procedimento escogitato per la definizione di NP-completezza, la riduzione polinomiale, è in grado di gettare nuova luce su tutta teoria della complessità computazionale. 
Abbiamo, dunque, molti problemi NP che ci sembrano difficili. Ma alcuni di essi, come il test di primalità, abbiamo scoperto essere solo apparentemente difficili — nel 1975 si riuscì a dimostrare che il test di primalità era un problema NP, ma ci vollero 27 anni perché fosse "risolto" con un algoritmo polinomiale
Come distinguere, dunque, i problemi che sembrano difficili da quelli che lo sono davvero? Distinguerli proprio sulla base della difficoltà è una petizione di principio, significherebbe sapere che sono difficili, ovvero che P≠NP. Quello che fa, invece, la definizione di NP-completezza è trovare una caratteristica comune a quasi tutti i problemi che, ancora oggi, ci paiono difficili, caratteristica che invece non hanno i problemi facili, che stanno in P. Di più: questa caratteristica è tale per cui, se davvero P≠NP, allora i problemi in NP che non stanno in P sono proprio (almeno) i problemi NP-completi. Detto più precisamente, i problemi NP-completi sono certamente "i più difficili" fra i problemi NP (sempre se P≠NP, altrimenti "tutti i problemi NP sono facili come quelli in P"). 
Quel quasi tutti si riferisce al fatto che esistono alcuni problemi NP che ci paiono difficili (cioè di cui non abbiamo ancora trovato un algoritmo polinomiale per risolverli) ma che non siamo riusciti a dimostrare essere NP-completi — e il problema della fattorizzazione dei numeri composti, alla base di quasi tutte le tecniche crittografiche usate comunemente, è proprio uno di questi. Se davvero P≠NP e dunque non tutti i problemi NP sono ugualmente facili, ciascuno di questi problemi potrebbe, più o meno indipendentemente dagli altri:
  • essere "semplicemente" un problema P, come il test di primalità, e un giorno, chissà, riusciremo a trovare un algoritmo di soluzione polinomiale;
  • essere anch'esso un problema NP-completo, solo che ancora non siamo riusciti a dimostrarlo;
  • essere di una complessità computazionale intermedia.
E qui arriva il bello. 
 
Riduzione polinomiale, NP-hard e, finalmente, la definizione di NP-completezza 
 
Ho quasi finito, ma, prima di concludere con la questione della fattorizzazione e delle tecniche crittografiche, direi che è il caso di spiegare in cosa consiste questa mitica NP-completezza, la proprietà di alcuni problemi NP che sembra caratterizzarne la (apparente) difficoltà. 
L'elemento fondamentale è il concetto di riduzione e in particolare di riduzione polinomiale. Ne esistono di due tipi diversi (di Cook e di Karp), ma per amor di brevità sarò impreciso e dirò che ho ridotto il problema A al problema B se, data la soluzione del problema A, so trovare la soluzione al problema B con un algoritmo al più polinomiale. Definisco ora un problema B come NP-hard se un qualsiasi problema NP può essere ridotto polinomialmente a B: se, cioè, con un oracolo capace di darmi istantaneamente la soluzione di B, so risolvere qualsiasi problema NP in tempi polinomiali. Definisco finalmente i problemi NP-completi come quei problemi NP-hard che siano anche problemi NP. 
Come al solito le definizioni sono mere convenzioni e dunque il fatto notevole è che nei primi anni 70 Cook, Karp e Levin mostrarono non tanto che esistono problemi NP-completi quanto che molti problemi concreti erano proprio NP-completi
Il fatto che una soluzione "facile" ad uno qualsiasi di questi problemi dischiuderebbe automaticamente le porte a tutti gli altri problemi in NP ne fa chiaramente i rappresentati "più difficili" della classe NP. Non solo: ci dice anche che la "difficoltà" dei problemi NP-completi è essenzialmente la stessa, come se si trattasse di un unico problema sotto diverse sembianze: se uno qualunque di questi problemi ha una soluzione facile, allora tutti quanti ce l'hanno e, di fatto, P=NP; se riuscite a dimostrare che uno qualunque di essi non può avere una soluzione polinomiale, allora nessun'altro potrà averla e, di fatto, avete dimostrato che P≠NP; uno per tutti, tutti per uno.
Per dimostrare, dunque, che un problema NP è NP-completo è sufficiente dimostrare che è riducibile ad uno qualsiasi degli altri problemi di cui è stata già dimostrata la NP-completezza. La scoperta di problemi NP-completi procedette perciò con un effetto valanga: più problemi rientravano nella categoria, più facile diventata ricondurvene di nuovi. Le dimostrazioni di NP-completezza diventarono routine e al momento si contano più di tremila problemi NP-completi.
 
Il problema della fattorizzazione: fra P e NP-completi 
 
Esistono però alcune — poche — notevoli eccezioni: problemi NP, cioè, che (ancora) ci paiono difficili (e dunque sospettiamo non siano P), di cui purtuttavia non si riesce a dimostrare l'NP-completezza. Esempi di problemi di questo tipo sono l'isomorfismo fra grafi, il logaritmo discreto e, udite udite, il problema della fattorizzazione
Del resto ci sono ragioni piuttosto profonde per credere che la fattorizzazione non sia un problema NP-completo: per esempio un'istanza di problemi NP-completo può, in generale, avere nessuna, una o centomila soluzioni diverse; la fattorizzazione di un numero composto, invece, è unica. Questa sorta di struttura del problema della fattorizzazione è in effetti sfruttata dal crivello dei campi di numeri, il miglior algoritmo noto di fattorizzazione, che scala più o meno come 2 alla radice cubica di n, qualcosa che qualcuno definisce pur sempre come un andamento sub-esponenziale.
Le possibili relazioni fra P, NP e coNP. Se il problema della fattorizzazione fosse NP-completo, la relazione corretta sarebbe la (b).
Inoltre il problema della fattorizzazione non solo appartiene a NP ma anche coNP, la classe di complessità complementare a NP secondo una precisa definizione che non mi dilungherò a discutere (è già diventato troppo lungo questo post, devo sbrigarmi a chiudere!). Ora, la relazione (insiemistica) fra NP e coNP (ed anche con P) non è nota con certezza matematica, ma ci sono diversi indizi che suggeriscono che NP≠coNP. Ebbene, se la fattorizzazione fosse NP-completa, significherebbe proprio che NP=coNP. Per quel che ne sappiamo, poi, potrebbe pure darsi che l'intersezione fra NP e coNP (a cui certamente appartiene il problema della fattorizzazione) coincida con P stesso (ovvero la fattorizzazione è risolvibile in tempo polinomiale) e purtuttavia P e NP non coincidano! 
Per non parlare, poi, del fatto che per il problema della fattorizzazione, e non per alcun problema NP-completo, siamo riusciti a trovare un algoritmo quantistico, quello di Shor, capace di trovare la soluzione in tempi polinomiali. 
Ma, appunto, non ne parlerò, si è già fatto troppo tardi. 
Sono sicuro che non è rimasto più nessuno, fin qui, a leggere... :-)

17 August 2010

La fattorizzazione non è un problema NP-completo (che si sappia)

Questa storia della dimostrazione (ormai quasi definitivamente smontata) che P≠NP sta riportando in superficie il diffusissimo errore secondo cui se P≠NP allora i crittografi e i loro clienti potranno dormire sonni tranquilli (ho citato la mia amica Sylvie, ma è un'affermazione piuttosto frequente).
L'errore consiste nel considerare il problema della fattorizzazione dei numeri composti un problema NP-completo, cosa che non è affatto dimostrata e, anzi, ci sono forti indicazioni che portano a credere che non sia tale: se avete tempo, vi ri-consiglio caldamente tutte le lezioni del corso di Scott Aaronson: Quantum Computing Since Democritus; se avete fretta e vi interessa la questione della "difficoltà" della fattorizzazione, potete limitarvi alla lezione n° 6: P, NP, and Friends.
Che quello della fattorizzazione sia un problema NP-completo è un fraintendimento molto diffuso, io lo scoprii proprio quando mi imbattei nelle lectures di Scott Aaronson: in realtà molto probabilmente si tratta di un problema "più semplice" dei problemi NP-completi, per cui potrebbe benissimo darsi che si scopra che sia un problema "facile" (P) senza che ciò implichi che siano facili anche i problemi NP-completi (molto più probabilmente si tratta di un problema che ricade in un classe intermedia fra P e NP). Detto al contrario: anche se fossimo in grado di dimostrare che i problemi NP-completi sono "davvero" difficili, il problema della fattorizzazione dei numeri composti (e dunque il problema di violare un codice crittografico) potrebbe benissimo rientrare nella categoria dei problemi "facili" (P).
Tant'è che per il problema della fattorizzazione esiste un algoritmo quantistico (il famoso algoritmo di Shor) capace di risolverlo in tempo polinomiale, mentre — nonostante si senta spesso dire il contrario — non è noto alcun algoritmo quantistico capace di risolvere problemi NP-completi in tempo polinomiale, e se mai un giorno si dovesse scoprirne uno, sarebbe sicuramente molto diverso dall'algoritmo di Shor.
Vi siete persi?
Spero di riuscire a buttar giù un "riassuntino" della faccenda quanto prima (cioè: ho già cominciato a scrivere qualcosa, ma sta venendo più lungo di quel che credessi; così ho pensato di uscire subito con questo post giusto per (tentare di) restare "sulla notizia"...).
 
Prima di chiudere, però, vorrei dire due parole sul perché questa questione dell'equivalenza (o meno) delle classi P e NP mi appassiona tanto.
Il fatto è che non si tratta di uno dei problemi da un milione di dollari, o di uno dei più difficili problemi matematici ancora irrisolti, ma si tratta del Problema tout court: se tutti i problemi NP fossero risolvibili polinomialmente, sarebbe possibile programmare un computer per risolvere in poco tempo anche tutti gli altri problemi da un milione di dollari.
C'è addirittura chi crede che l'impossibilità algoritmica di risolvere problemi NP-completi in tempo polinomiale sia consustanziale alla stessa struttura fisica di cui è fatto il mondo.
Come chi?, ma Scott Aaronson, no? :-)

06 August 2010

ilPost

Non mi ero abbonato subito ai feed: sono troppi, e già soffro pesantemente di eccesso di informazione.
Però, grazie agli shared item di Aubrey (e alla mia pazienza di non depennarlo, visto che lui stesso shara così tanto da non riuscire a stargli dietro), mi è capitato di leggere molti articoli pubblicati sul Post, e il giudizio è nettamente, estremamente positivo. In realtà, per quanto mi riguarda, poteva benissimo essere un effetto del filtro di Aubrey, ma anche in questo caso bisognerebbe pur ammettere che qualcosa di buono (i. e. che passa il filtro) capita molto spesso.
Il giudizio positivo si riferisce al fatto che, cosa assolutamente straordinaria in Italia, sembra di leggere articoli di un giornale vero: vi si trova, cioè, rilevanza, competenza, un uso estremamente pertinente di una pluralità di fonti (tutte puntualmente citate quando non linkate) e un'estrema obiettività e pacatezza nell'esposizione dei fatti — e con obiettività non mi riferisco ad un acrobatico equilibrismo fra due fazioni opposte, modificabile a piacimento da ambo le parti semplicemente "sparandola più grossa", ma ad una difficilmente definibile pratica di "buon senso" che pareva estinta in Italia.
Intendiamoci, non sto dicendo che non ci siano articoli "d'opinione", né che mi ritrovi pienamente in tutti gli articoli di questo tipo, però, nell'insieme, il risultato è qualcosa che suscita autorevolezza, ovvero quel che dovrebbe essere "il minimo sindacale" perché un giornale possa davvero chiamarsi tale — il "minimo sindacale", perché poi ci sarebbero, ad esempio, le inchieste, come la (ormai non più) recente Top Secret America pubblicata dal The Washington Post (e di cui si può trovare un bel sunto schematico della prima parte — indovinate? — proprio sul Post).
 
PS
Sto resistendo abbastanza, non ho ancora cancellato i feed del Post dal mio gReader, ma non è facile: sono abbonato anche, per quanto riguarda le news, ai feed di RaiNews24 e de La Stampa, ma di quelli leggo solo i titoli, tutti in una volta, e segno come letti in blocco (giusto per avere un'idea di quel che accade nel mondo — e no, quelli di corriere e repubblica sono troppi e inutili persino da leggere per titoli e in blocco...), mentre molto spesso del Post vorrei avere il tempo di leggere e approfondire. Qualcosa riesco a leggere, ma ho il fondato sospetto che sia solo perché il resto della blogosfera, nel bel mezzo di agosto, è quasi tutta in vacanza... :-(

10 June 2010

zibaldone

Sono vivo, sono vivo. E non è che non abbia niente da dire...
Qualche commento sparso che mi ero appuntato di passaggio, giusto per rendere la cosa verosimile.
 
  • Settimana scorsa sono finalmente passato a Lucid Lynx, ma la vera novità è vecchia già di qualche mese: ho deciso di provare GNOME... e non me ne sono ancora pentito!
    KDE era KDE 3.5. KDE4 è un'altra cosa, ha fatto il pieno di aspettative, tutte puntualmente deluse. Il punto forte di KDE era la completa customizzabilità, e con KDE4 è stata completamente rasa al suolo. Inoltre un sacco di applicazioni ora sono piene di bachi e prive di funzionalità: da konsole alla mitica gwenview, ora diventata amorfa e inutile.
    Ma sto sparando sulla crocerossa, ormai anche pollycoke parla male di KDE4 :-)
    E GNOME? Non è male. KDE 3.5 si rimpiange sempre, ma rispetto a KDE4 in cui sembrava sempre di essere in un ambiente trabalante e contraddittorio GNOME ha quell'aria di desktop uniforme e funzionante che è stato un piacere ritrovare. Finalmente non c'è più quell'eterna sensazione di precarietà, di cose che un giorno — sì, certo, un giorno — saranno fantasmagoriche — ma intanto non funzionano. A parire da Konsole... ehm, da gnome-terminal, che si apre sempre con le stesse dimensioni, e si può persino — ma pensa! — scegliere quali.
    E poi così potrò assaggiare "subito" tutte le novità che Mark Space Cowboy Shuttleworth sta macchinando... o farà, GNOME, la stessa fine di KDE 3.5?

  • accessi al sito
    (pochiiiissima ggente)
    Quasi sicuramente nessuno se ne sarà accorto, visto che da queste parti passa pochiiiissima ggente e del tutto per caso (meno male che esistono i feed... ehi, Fabristol, come fai a farne a meno?!?), nessuno se ne sarà accorto, dicevo, ma da un po' di tempo google non permette più il link diretto alle immagini hostate su un googlegroups, il che ha la spiacevole conseguenza che la maggior parte delle mie immagini di corredo ai miei post ora non è più visibile.

    meno male che esistono i feed
    Non credo riuscirò a trovare il tempo per spostare tutte le immagini che stanno qui e metterle qui e soprattutto correggere tutti i link e i src in tutti i vecchi post. Magari lo farò per qualcuno dei vecchi post più significativi, ad esempio questo, in onore a Borges oppure il finale della serie sulla visione delle api, in cui le immagini non sono solo accessorie ma sono lo scopo finale di tutto il thread.
    Ma, inutile precisarlo, i tempi saranno i soliti di questo blog.
  • Invece che uno solo, vorrei tanto scriverne un'intera serie, di post, a tema libertario (il sostantivo è più equivoco, almeno in italiano: libertarianismo? libertarismo?). E' una di quelle "scoperte" che, e non sto esagerando, ti cambiano radicalmente il modo di vedere e concepire praticamente tutte le cose. Vedremo se e cosa riuscirò a comporre... (a proposito, Fabristol, com'è che non hai ancora scritto un post in chiave libertaria su Falcon 9 e Space X?).