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21 October 2016

Una pacifica transizione di potere

 
Sempre di grande profondità intellettuale, come al solito, Jeffrey Tucker — Why Refusing to “Accept” Election Results Causes Shock and Alarm — senza cadere nella retorica autocelebrativa della democrazia in un senso meramente superficiale.
(In scia, sul finale, ho apprezzato anche il suo vecchio pezzo sul deep state.)
 
 

22 September 2016

I pericoli della società post-fattuale

 
Il Post riprende un lungo articolo dell'Economist, Yes, I’d lie to you, sul presunto recente dilagare di bufale e complottismi.
 
Ma non è ridicolo che nel discutere la questione della manipolazione della realtà e delle informazioni, si metta sullo stesso piano le teorie complottiste con le menzogne "ufficiali"che sono servite a giustificare guerre pesantissime in termini di vittime — e costi? Di più, si menzionano queste ultime nello spazio di una parentetica ("sì, è vero, ci hanno mentito anche in quel caso, però...") ma ci si dilunga nel resto dell'articolo a parlare delle altre frivolezze, arrivando a commentare che, ahinoi, queste cose senza internet probabilmente non sarebbero successe...
 

13 July 2016

La struttura di incentivi

 
 
Puff, pant... maledetta attualità[*].
 
 
L'esito del referendum nel Regno Unito, come già prima l'ascesa di consensi per Donald Trump, ha riportato in auge le discussioni sui fondamenti della democrazia[1][2][3][4][5][6].
A voler essere populisti, si potrebbe riassumere che secondo questi parrucconi la democrazia è bella finché sono d'accordo col risultato elettorale, altrimenti "il popolo non era ben informato", "era preda della demagogia", etc, etc.
Un compendio più congruo e perìto è invero che, senza adeguata temperanza, sulla democrazia incombe la trasfigurazione in oclocrazia.
 
Scherzi a parte, ho cercato un po' in rete, ma non ho trovato esiti condivisi su una linea di demarcazione, nelle lunghe ed elaborate discussioni che pur non faticano a trovare problemi nel concetto stesso di democrazia[§], e che, esplicitamente o implicitamente, sembrano risolversi tutte nel Churchill de la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre.
Già Aristotele distingueva le forme di governo "buone" (monarchia, aristocrazia e, appunto, democrazia) da quelle "cattive" (tirannide, oligarchia e, appunto, oclocrazia) indipendentemente dall'estensione della consultazione decisionale (uno, pochi o, appunto, tutti).
Il presupposto comune a questo tipo di contrapposizioni è che esisterebbero criteri di legittimità diversi dalla volontà di un monarca, dalle decisioni di un consiglio di saggi o, appunto, dall'esito di un voto a suffragio universale; diversi, e più importanti.
L'idea, cioè, è prorpio che esistano dei diritti (individuali o — nel dubbio lo concediamo — collettivi) che, anche se a maggioranza, un'assemblea non ha legittimità a violare.
 
 
Una posizione di questo tipo può essere caratterizzata come giusnaturalista, in contrapposizione ad una giuspositivista.
 In quest'ultima, l'unico diritto possibile è quello positivo, ovvero quello concretamente osservato nei fatti: l'unica legge è la legge del sovrano — che sia una persona fisica (un monarca) o un'istituzione (un parlamento) — e non ha bisogno di alcuna legittimazione al di fuori della sua origine. In questa prospettiva il diritto acquista carattere meramente formale e, non essendo più questione di equità e probità, ma di semplice validità, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura direttamente come la scelta del criterio di validità per la legge [†].
In una prospettiva giusnaturalista, invece, esistono dei princìpî universali a cui il diritto positivo deve aderire per poter essere considerato giusto. Il diritto naturale [‡], però, è dato solo in termini di valori universali e generici: ad esempio il principio di non aggressione ("non uccidere") oppure il diritto di proprietà ("non rubare"). Si pone quindi il problema di dover tradurre tali criteri generali in leggi specifiche che fungano da riferimento quando i tribunali sono chiamati a giudicare casi concreti. Per questo, in prospettiva giusnaturalistica, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura come la scelta di un semplice regolamento, di una procedura contingente, che ha valore validante da un punto di vista pratico e formale, ma che non pretende di fungere da giustificazione della legge, e certamente non si pone al di sopra di essa.
 
 
Sulla base di quali criteri, dunque, giudicheremo la bontà di una forma piuttosto che un'altra del diritto positivo, della forma concreta che esso assume in uno specifico contesto storico e sociale? In prospettiva giusnaturalista, ovviamente, sarà in primo luogo il criterio di giustizia, il quale viene invece escluso di principio da una prospettiva giuspositivista, che non potrà che ricorrere ai rimanenti criteri di coerenza, chiarezza, certezza e coercibilità.
Cosa distingue, dunque, la monarchia dalla tirannide? la democrazia dall'oclocrazia? In prospettiva giusnaturalista la risposta è semplice, ed è una distinzione di merito: la monarchia è illuminata se il Re amministra la giustizia con saggezza, è dittatura se la piega al suo arbìtrio.
Può una monarchia essere migliore di una democrazia? Certamente, per un giusnaturalista: ad esempio se il Re è illuminato mentre il parlamento è corrotto e opera in maniera clientelare sulla spinta di lobby potenti.
 
Ma in linea generale, è possibile stabilire se la democrazia sia migliore, almeno tendenzialmente, della monarchia?
In questo caso, non potendo entrare nel merito della legge in vigore in una specifica democrazia o monarchia, il giudizio deve procedere analizzando la struttura di incentivi messa in atto da una piuttosto che dall'altra forma di esercizio del potere legislativo/giudiziario.
 
Ad esempio, un possibile argomento a favore della democrazia, rispetto alla monarchia, è che quest'ultima potrebbe essere più facilmente vittima degli arbìtrî di un singolo (il monarca) rispetto all'esito di una votazione di un'assemblea che coinvolge molti soggetti diversi (l'intera popolazione, o suoi delegati, etc, etc...).
Chiaramente il fatto di passare attraverso una delibera assembleare/parlamentare non è sufficiente a garantire che il voto non vìoli i princìpî del diritto naturale ed è dunque legittimo chiedersi se e quali limitazioni (ad esempio una costituzione), o sue modifiche (ad esempio tramite l'estensione/riduzione del suffragio, sulla base di determinati requisiti) o sue alternative (ad esempio attraverso l'esercizio del potere legislativo in forma anarchica[※]), possano introdurre ulteriori vincoli e/o incentivi affinché la legge risultante tenda ad inseguire maggiormente ai princìpî del diritto naturale. È legittimo chiedersi, cioè, se sia possibile migliorare, di quanto, e a che prezzo, le capacità di questa forma di governo a maggioranza nell'individuare, tradurre ed attuare i princìpî generali e universali del diritto naturale.
È difficile sopravvalutare questo aspetto e dunque giova sottolinearlo una volta di più: poco importa il wishful thinking dell'affidarsi alla buona fede, ai nobili intenti e all'integrità intellettuale del monarca, dei legislatori, dei giudici o dei funzionari; a nulla vale respingere le critiche ad un sistema sulla base del fatto che il suo particolare fallimento è attribuibile alla disonestà e all'egoismo di uno o più attori specifici in carica in quel momento: un sistema sarà tanto migliore quanto più metterà in atto feedback capaci di alimentare circoli virtuosi e di soffocarne i viziosi.
 
 
Consideriamo ad esempio il caso dei limiti al potere del legislatore posti da una costituzione: è ingenuo pensare che essi, semplicemente, verranno rispettati; che un governo non proverà a forzare i confini del suo potere solo perché così è scritto su un documento di nobili intenti. Da questo punto di vista non meravigliano i numerosi dibattiti, spesso oggettivamente capziosi, sulla costituzionalità o meno di questo o quel provvedimento.
In questi termini, l'idea della separazione dei poteri di Montesquieu sembrerebbe già meno ingenua: dividere il potere in funzioni da affidare a soggetti diversi dovrebbe innescare precisamente quei controlli incrociati capaci di limitare il reciproco arbìtrio. In realtà non è chiarissimo quali siano gli incentivi che dovrebbero indurre ciascuno dei tre soggetti istituzionali — legislativo, giudiziario ed esecutivo — ad agire in modo da impedire agli altri due di abusare del proprio potere e non invece, per esempio, ad agire di concerto in maniera da aumentare reciprocamente il proprio potere[¶].
Come ultimo esempio — per far riferimento a proposte avanzate recentemente nei dibattiti sollevati da Trump e Brexit — consideriamo il caso della restrizione del voto che lo conceda solo a chi riesce a superare un esame di educazione civica basato sulla conoscenza delle procedure e della forma delle istituzioni della propria nazione: che razza di incentivi potrebbe mai introdurre nel feedback elettorale una simile selezione, al fine di migliorare la "convergenza" del processo democratico verso il rispetto del diritto naturale? Piuttosto, se proprio si volesse introdurre delle limitazioni al suffragio universale, sarebbe più sensato, chessò, escludere o limitare in qualche modo il diritto di voto ai dipendenti pubblici, i quali hanno un palese conflitto di interessi nel votare leggi che prelevano risorse pubbliche per assegnarle a se stessi.
Più genericamente, il meccanismo delle periodiche elezioni dovrebbe imbastire proprio il principale feedback dei governati verso l'azione dei governanti, ma esiste tutta una branca della sociologia politica che va sotto il nome di public choice theory che ha messo ben in evidenza le numerose strutture di incentivi perversi presenti nei correnti regimi democratici: i feedback elettorali sono pressoché sterilizzati quando non addirittura invertiti (quasi sempre i fallimenti dello Stato hanno l'effetto nell'opinione pubblica di chiedere ancora più interventi statali) e in generale sono spinti ad emergere nelle posizioni di potere proprio i caratteri umani più approfittatori (l'accentramento del potere che fa gola a demagoghi e dittatori). Insomma, precisamente l'opposto di quel che si presuppone ingenuamente per un corretto funzionamento della cosa pubblica.
 
 
In questi termini una condizione anarchica rappresenta inevitabilmente la miglior struttura di incentivi immaginabile.
Non lasciatevi ingannare dalla sfera semantica di disordine e caos che si suole associare al termine anarchia: qui intendiamo riferirci a quella condizione in cui sono presenti una pluralità di soggetti paritari, privi cioè di un referente ultimo che possa accentrare su di sè e monopolizzare il potere sugli altri soggetti. Sembra una proposta radicale ed estremista, ma si tratta in realtà semplicemente di proseguire sulla strada che considera un progresso il passare da una monarchia ad una oligarchia per via dell'aumento dei soggetti coinvolti nel processo decisionale del potere; un progresso l'ulteriore passaggio da un'oligarchia ad una democrazia e ancora un progresso, almeno negli intenti, l'ulteriore introduzione della separazione dei poteri.
La competizione istituzionale che motivava, con una certa ingenuità, la separazione dei poteri di Montesquieu, in questo modo si realizzerebbe più efficacemente: poiché la pluralità di soggetti istituzionali sarebbero in diretta competizione per la stessa funzione, si instaurerebbero precisamente quei meccanismi concorrenziali che renderebbero davvero democratico, nel senso etimologico del termine, l'esercizio del potere.
 
 
Al di là del finale[◊], spero con questo post di aver almeno chiarito alcuni termini della questione e aver inquadrato il contesto in cui ha senso o non ha senso collocare le critiche e le proposte di modifica del regime democratico nell'attuale declinazione dello Stato moderno.
 

[*] Solite avvertenze, anche se questo post è prevalentemente un mio personale tentativo di rielaborare e tirare le fila.
 
 
[†] In una concezione positivista il potere legislativo, semplicemente, si pone al di sopra della legge stessa, sua diretta emanazione: ad esempio il diritto di resistenza, banalmente, non è contemplato. È significativo osservare che nel moderno stato di diritto il diritto di resistenza è formalmente escluso — a parte alcune eccezioni come, notevolmente, quella della costituzione tedesca.
[‡] L'uso del termine naturale non inganni: non si presuppone necessariamente che tali princìpî siano da ricercare nella natura, biologica, ecologica o etologica, né che rimandino ad un qualche stato originario della società umana. Esistono molte interpretazioni del diritto naturale (personalmente mi ritrovo piuttosto affine all'argumentation ethics di Hans-Hermann Hoppe, per quel poco che ne ho intuito) e l'unica cosa che le accomuna è essenzialmente il rifiuto che a fondamento della legge possano esserci solo la tipologia di fonti di produzione giuridica.
[※] In cui, cioè, più corpi normativi e più tribunali operano contemporaneamente e in competizione fra loro, come soggetti paritari e indipendenti. Si tratta di una possibilità tutt'altro che meramente ipotetica e teorica, anzi è precisamente la situazione corrente in contesti di diritto internazionale o di arbitrato fra privati.
[¶] Per una interessante trattazione della questione della struttura di incentivi si rimanda al capitolo 9 de Il problema dell'autorità politica di Michael Huemer, pubblicato di recente in italiano da liberilibri.
[◊] messo più per completezza espositiva che davvero per argomentare; del resto quella anarchica è una concezione del potere troppo fuori dagli schemi a cui siamo stati abituati a pensare, in cui invece l'ordine e la pace sociale potrebbero essere raggiunte soltanto attraverso l'imposizione coercitiva di un leviatano, unico e super-partes.

24 June 2016

Brexit /2

 
Maledetta attualità, ancora.
Qualche ulteriore commento[1], sempre in chiave libertaria, ancora a caldo subito dopo l'esito, un po' a sorpresa, del referendum nel Regno Unito.
La questione è un po' la solita, se l'abbandono del mercato unico europeo sia una scelta anti-liberale, sott'intendendo che l'adesione ad un'area di libero scambio sia, più o meno per definizione, un'opzione liberale.
Il punto è che in questa narrazione c'è qualcosa che non torna.
L'area Euro viene dipinta come uno po' come l'analogo per le merci ed il commercio degli accordi di Schengen per la libera circolazione delle persone. Ma a ben guardare l'appartenenza all'Unione Europea rappresenta un vincolo, per il paese partecipante, ad uniformarsi ad un insieme di regolamenti e legislazioni finalizzate ad uniformare le condizioni economiche e commerciali fra gli Stati membri. Be', capite bene che questo è l'esatto contrario del libero mercato ed è invece precisamente un cartello di rendite di posizione artificiali su scala continentale — pensate alle quote latte, alla Politica Agricola Comune, etc, etc...
Anche in chiave internazionale, l'uscita di una Pese forte come il Regno Unito da un simile cartello si traduce in un nuovo attore sul mercato globale con cui poter trattare in maniera indipendente: quando la Cina, la Russia o l'America, il Canada e la Svizzera vorranno affacciarsi sul vecchio continente non avranno più un interlocutore unico, ma Europa e Regno Unito si presenteranno in competizione[2].
 
Tutto questo per dire che per un libertario l'opzione del Regno Unito di uscire dall'Area Euro non si pone come un travagliato trade-off fra ragioni contrastanti, fra l'anelito indipendentista e la rinuncia al liberismo: si tratta invece di un'opzione che si muove nella direzione "giusta" su entrambi i fronti — disintegrazione politica e disintegrazione[3] economica.
Se poi produrrà addirittura un effetto a catena per cui a breve seguiranno anche la Scozia e la Catalunya — e, chissà, magari poi in scia anche il Veneto di Yoshi e la Sardegna di Fabristol — be', tanto meglio ancora!
 

[1] Anche per questo post, come per il precedente, valgono le solite avvertenze del caso: poco o punto è farina del mio sacco e dunque i meriti sono suoi, i granchi miei.
[2] Per citare un argomento prettamente anarco-capitalista — non-libertari, vi prego, voi ignorate del tutto questa nota! — i vincoli europei non permettevano alla City di Londra di funzionare come paradiso fiscale; ora non è detto che lo diventerà, ma certamente avrà molto più spazio di manovra.
[3] Yoshi usa il termine integrazione economica, per definire l'optimum libertario, ma il senso, chiaramente, è quello della divisione del lavoro, del vantaggio comparato, dell'anti-autarchia, che sono i giochi a guadagno condiviso del libero mercato. L'uso del termine integrazione, in questo senso, può risultare fuorviante, perché è lo stesso termine che viene usato appunto a livello europeo per indicare, però, una condizione di omogeneizzazione del mercato che è l'esatto opposto di quello che, io capisco, intende Yoshi.

21 June 2016

Brexit

 
Maledetta attualità[1].
I miei libertari di riferimento online si sono entrambi schierati contro la Brexit: Yoshi, l'esule svizzero, e Fabristol, l'esule britannico.
Il mio libertario di riferimento offline, invece, ha espresso le sue simpatie per la Brexit, e un sentimento di equilibrio mi spinge a raccoglierle in questo post; valgono le solite avvertenze del caso: i meriti vanno a lui, gli errori sono miei.
 
Esiti così diversi sulla questione Brexit, pur in prospettiva libertaria, possono essere ricondotti essenzialmente al dibattito thick/thin libertarianism, che però mi è difficile riassumere senza appiattirlo.
Mi limiterò a muovere alcuni rilievi, senza un vero e proprio filo conduttore.
 
Una prima considerazione riguarda i rischi commerciali ed economici di un'uscita dal mercato europeo. Il punto è che tali conseguenze sono più o meno velatamente minacciate: scegliere di restare in Europa per paura di ritorsioni non sarebbe una scelta libera, ma di paura contro arroganza e prepotenza (vedi il Monti secondo cui non si dovrebbe permettere la ratifica elettorale degli accordi internazionali). Se davvero questo è il problema, il dito andrebbe puntato sul bullo, non sulla vittima.
Un altro argomento liberale contro la Brexit sarebbe che le principali motivazioni a favore dell'uscita sono di natura illiberale (nazionalismi, deficit-spending, protezionismo...), ma usarle per prendere le parti del Leviatano europeo significa un po' scegliere con una logica dell'amico in quanto nemico del mio nemico.
A difesa di uno schierarsi libertario per la Brexit ci sono invece le solite ragioni che Yoshi riassume nell'espressione "disintegrazione politica": esercitare il diritto d'uscita è l'opzione liberale per eccellenza; far parte del cartello degli Stati che permettono "il potere contrattuale di aprire o chiudere le relazioni commerciali con il resto del mondo" lo è molto meno.
Sommando tutto, non voglio dire sia chiaro cosa dovrebbe votare un libertario britannico, ma certamente l'elemento più libertario di tutta la faccenda è proprio la possibilità stessa del voto: mostrare al mondo ed a sé stessi che è possibile, che non è immorale, uscire; meglio ancora se l'uscita scatena divisioni tra regioni che vogliono rimanere e regioni che vogliono uscire.
Alla fine, per tornare alla questione thick/thin libertarianism, non si può obbligare a non discriminare...

[1] Questo post devo per forza scriverlo entro il 23 altrimenti va a male, ma lo spunto per scriverlo sono un paio di post recentissimi e non ho nemmeno avuto molto tempo per rimuginarci sopra... prendetelo come un rapido tweet un po' più lungo di 140 caratteri.
 

26 June 2013

Democrazia /6 — Perché questo qui è persino peggio di quello là

Questo qui, ovviamente, sarebbe Grillo, e quello là, manco a dirlo, Berlusconi. E il perché ce lo spiega lo Smeriglia, ormai qualche giorno fa.
Mi è già capitato di dire che Grillo rappresenta l'espressione più stridente della contraddizione profonda del concetto di democrazia, e nonostante ciò pare resti una contraddizione invisibile: lo Smeriglia sembra non accorgersi che le critiche che volge a Grillo — il suo ergersi a paladino del bene comune — sono critiche al cuore stesso della democrazia, che per sua stessa definizione vorrebbe rappresentare lo strumento per raggiungere il bene comune, altrimenti sarebbe dittatura della maggioranza; che chiunque si candidi, chiunque vada a votare, lo fa — nella più nobile e ingenua delle ipotesi — per il bene comune.
(Sia chiaro, ho preso di mira lo Smeriglia perché pare una persona intelligente e acuta, ma si tratta di una miopia del tutto generalizzata, soprattutto a sinistra.)

17 March 2013

Democrazia /5 [era: La democrazia per la scienza]

Scopro più o meno per caso Infinite forme bellissime e meravigliose, blog fresco di nascita, su cui mi capita subito di leggere, in maniera del tutto scorrelata ma perfettamente in scia con gli ultimi miei post, che ci sarebbe una evidente e profonda differenza fra democrazia e dittatura della maggioranza. Ma forse il caso è solo apparente, perché il pretesto di quel post è lo stesso da cui era partito questo mio thread, ovvero il ruolo della democrazia per la scienza; fatto sta che mi s'offre, senza nemmeno chiederla, una risposta alternativa a chi invece si richiamava alle costituzioni per scongiurare le prevaricazioni della maggioranza e poter continuare a difendere la democrazia.
Tale risposta alternativa, però, è completamente sott'intesa e, almeno per me, tutta da chiarire: quale sarebbe la differenza, per non confonderle, fra democrazia e dittatura della maggioranza?
Per scongiurare il più possibile il rischio di passare per troll mi impegno in tutta la diplomazia di cui sono capace e mi arrischio ad un commento in calce al post. La diplomazia funziona, il rischio troll sembra scongiurato e segue nei commenti un interessante confronto. Provo a tracciarne un riepilogo qui, in modo da tenerne traccia nel filone democrazia.
 
Dunque la difesa della democrazia, in questo caso, prenderebbe la via della condivisione (chissà cosa sarebbe venuto fuori ad approfondire il tema della consapevolezza...). Obscura per obscuriora, per quanto mi riguardava, nonostante tale differenza venisse giudicata lampante da chi scriveva. Chiarito che il senso non era, banalmente, quello di maggioranza allargata, il più ampia possibile, emerge il concetto di "bene comune" come linea guida: le scelte veramente democratiche sarebbero quelle condivise nel senso di orientate al bene comune e non di una sola parte, fosse anche la maggioranza.
 
Tesi estremamente interessante, se non altro perché potrebbe essere il senso implicito di molte difese della democrazia, più di quello della costituzione di cui dicevo nell'altro post.
 
Esisterebbe dunque un criterio indipendente, rispetto a quello del voto, per giudicare la bontà (democraticità?) di una scelta politica: il bene comune.
Noto subito che, anche in questo caso, la difesa della democrazia passa attraverso il forte ridimensionamento del meccanismo di voto come elemento caratterizzante. Nel caso dei "costituzionalisti" — lasciatemi chiamare così, in questo discorso, coloro che sottolineano l'importanza della costituzione per giudicare "difendibile" una democrazia — il ridimensionamento potrebbe essere considerato parziale, sottolineando che il voto resterebbe l'unico meccanismo decisionale legittimo, pur nei limiti costituzionali. Nel caso della democrazia "per il bene comune", invece, il meccanismo di voto viene spogliato anche della sua circoscritta autonomia e su ogni sua decisione pende il giudizio di dittatorialità qualora non sia perseguito il bene comune.
L'unico modo che mi viene in mente per salvare la caratterizzazione della democrazia, in questo caso, è quello di sostenere che il voto sia un meccanismo privilegiato per l'individuazione del bene comune: quello di sostenere, cioè, che il voto rappresenterebbe il miglior meccanismo decisionale capace di far procedere la società verso scelte "per il bene comune".
Non conosco argomenti a favore di una simile tesi che vadano al di là di una concezione ingenua del consorzio umano; al contrario, è stata elaborata un'intera branca dell'economia, che va sotto il nome di public choice theory (che ha dato il Nobel a diversi economisti, fra cui il recentemente scomparso James M. Buchanan), la quale mette in evidenza precisamente gli innumerevoli incentivi, inerentemente connaturati al processo decisionale democratico, che portano inevitabilmente a scelte di parte, che favoriscono minoranze ben organizzate a danno di maggiornze capaci di diluire il danno a tal punto da rendere sconveniente l'attività di lobbying per rimediare a quel danno. Niente di più lontano, cioè, da un meccanismo di avvicinamento al bene comune.
 
Questo ordine di obiezioni, à la public choice, attaccano proprio quel genere di difese della democrazia che si rifugiano nella distinzione fra sistemi democratici, in concreto, e la democrazia ideale, in astratto.
Ma c'è un livello ancora più profondo su cui si possono muovere critiche ad una tale prospettiva: un livello che si lascia alle spalle quello pragmatico in cui ci si chiede se la democrazia sia efficace o meno per raggiungere il bene comune, ed è quello in cui si mette in discussione il concetto stesso di bene comune.
Ebbene, la mia tesi, la tesi dei libertari, è che non sia possibile, non dico definire, ma nemmeno delineare, un concetto di bene comune che non sia, in realtà, espressione di parte. Le preferenze, le scale di valori, sono inevitabilmente soggettive — di più, la stessa persona può, e molto spesso lo fa, cambiare preferenze nel corso del tempo; di più ancora, la stessa persona, nello stesso momento, assegna valori diversi a beni identici (cfr. rivoluzione marginalista). Ma anche senza scomodare i fondamenti della teoria del valore, l'idea che si possa, a tavolino, stabilire cosa è meglio per tutti, anche in un senso debole, paretiano, del termine, è un presupposto ingenuo, non solo in astratto, in contesti filosofici di ricerca delle fondamenta, o analogamente in contesti economico-matematico (e.g. di teoria dei giochi) di definizioni assiomatiche, ma anche e soprattutto in contesti concreti di scelte politiche reali.
La mia tesi, la tesi dei libertari, è che bisognerebbe spogliarsi della pretesa di poter decidere, noi presunti sapienti, cosa è bene per tutti, ed imporlo; è che bisognerebbe lasciare ad ognuno la libertà di fare le proprie scelte, con l'unico limite della stessa medesima libertà altrui, ovvero con l'unico limite del diritto.

21 February 2013

Democrazia /4

Il tweet dello Smeriglia che vedete qui di lato mi offre la sponda per ribadire che la democrazia, se dobbiamo difenderla, dev'essere qualcosa di diverso dalla mera legge della maggioranza (ma ancora nessuno è riuscito a spiegarmi cosa sarebbe).
 
Ma non è di questo che volevo parlarvi in questo post.
Il vero spunto per tornare a parlare di democrazie mi viene da questo articolo (su uno dei blog) del Post, Come vincere le elezioni con la tv, che recensisce NO, un film candidato all'Oscar che racconta del referendum del 1988 in Cile contro Pinochet. Io non so niente di storia, prendo per buono quel che si racconta in quel pezzo. E la storia che si racconta è una storia strana. Si intuisce che dovrebbe avere una morale, o almeno vorrebbe, ma non si riesce a capire quale. Tifiamo, ovviamente, per l'opposizione al regime dittatoriale, ma restiamo spiazzati dalla strategia adottata. La TV, il suo ruolo di strumento di evasione, ancor più in circostanze in cui evadere sembra avere il sapore dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, ancor più per noi italiani, reduci da un ventennio che non è nemmeno chiaro se sia finito o meno... la TV come circo del duo panem et circenses, dicevamo, è un po' l'emblema del male.
E infatti ci sono critiche alla tesi del film, dicono che non sia stata la TV a decretare il successo del referendum, anche se molti oppositori di Pinochet, allora, si spesero contro la partecipazione al voto, quale implicita legittimazione al dittatore.
Insomma, alla fine c'è il lieto fine, nel senso del risultato del referendum, ma è un lieto fine anche per la televisione? è un lieto fine per la democrazia?
 
Eppure dal mio punto di vista, direi dal punto di vista del libertario, è piuttosto evidente che tutte queste contraddizioni nascono semplicemente dall'ostinazione a voler difendere la democrazia, il voto, come qualcosa di sacro e salvifico, capace, da sola, di garantire pace e giustizia. Se ci si rende conto, invece, che si tratta di un meccanismo perverso di prevaricazione, che quel po' di giustizia e libertà che le società occidentali hanno raggiunto, rispetto ad altre epoche e ad altri luoghi, non sono il mero frutto della democrazia, ma sopravvivono nonostante essa, allora tutte quelle contraddizioni evaporano. Una campagna televisiva in stile pubblicitario può davvero spostare enormi masse di voti indipendentemente dalla direzione in cui le muove: la perpetrazione di Berlusconi da una parte, l'esautorazione di Pinochet dall'altra; le persone votano per mille ragioni diverse, ma quasi mai le ragioni principali sono la giustizia e l'equità sociale.
 
Non vi è nulla di magico, di nuovo, nel meccanismo di voto popolare, capace, da solo, di condurre ad una società migliore.

03 February 2013

Democrazia /3

Riprendo con questo post la discussione nei commenti al post precedente, riportando in particolare il mio personale percorso di lettura come risposta alla richiesta di Cristian di una possibile bibliografia d'attacco alle tematiche libertarie.
 
Essenzialmente ci sono due fronti su cui ci si può affacciare al tema: quello economico, da una parte, e dall'altra quello più propriamente etico e politico.
 
Sul fronte economico io sono partito con l'Economics for Real People di Callahan (se hai un ebook-reader, c'è anche una versione in PDF messa a disposizione dal Mises Institute), ed è stato in discesa sin dall'inizio. L'economia, secondo me, non è un fronte "caldo", non ci sono grossi pregiudizi da abbattere, c'è solo il grande vuoto di uno schema interpretativo coerente, capace di inquadrare quelli che altrimenti restano tanti modellini matematici più o meno scorrelati. La scuola austriaca provvede precisamente a questo, e il libro di Callahan ne costituisce una semplice introduzione, estremamente didattica. Proprio poco prima di Callahan avevo letto L'economista mascherato di Tim Harford — su suggerimento di Bressanini — e l'avevo trovato molto bello, esattamente come dice Dario. Ma dopo aver letto Callahan ti accorgi della differenza siderale: da una parte L'economista mascherato non ti lascia niente se non una serie di aneddoti e di spiegazioni di qualche meccanismo peraltro molto interessante (uno per tutti, il self pricing); dall'altra Callahan ti lascia uno schema interpretativo: la stessa differenza che c'è fra il donare pesci e l'insegnare a pescare.
 
L'altro fronte è senza dubbio il più delicato, e intraprenderlo sarà certamente un'esperienza tormentata (per questo il mio consiglio è comunque quello di partire con Callahan). Il problema, per quel che mi riguarda, è duplice: sia in astratto (la prospettiva è profondamente stravolta, i luoghi comuni da abbattere sono tanti e così radicati da non riuscire spesso nemmeno a riconoscerli come tali) che in concreto (non ho da suggerirti testi cristallini, con tesi condivisibili al 100% esposte con argomentazioni semplici e lineari).
I libri che hanno fatto seguito a Callahan sono quelli di Rothbard, L'etica della libertà e Per una nuova libertà, e quello di David Friedman L'ingranaggio della libertà (li ho tutti letti in prestito, ma di quest'ultimo di Friedman ne ho una copia che posso prestarti molto volentieri).
L'atteggiamento da mantenere è un po' quello di prepararsi ad assistere ad un attacco di sfondamento, mettendo in conto tutta la sua rozzezza. In particolare non dovrai pensare di trovarti davanti a dei trattati scientifici (né tantomeno al credo di una religione) con l'idea che si debba necessariamente accettare tutto in blocco e che dunque sia sufficiente il primo disaccordo per poter buttare all'aria tutto quanto.
Non lo ripeterò mai abbastanza: sono libri da costringersi con la forza a proseguire nella lettura; a partire dallo stile: sono opere scritte più di 30-40 anni fa, e certamente è un aspetto che si fa sentire. Ma anche nel merito delle questioni, spesso avrei da ridire — ancora adesso — sia sui metodi che sulle tesi. Tanto per dire: tutta la prima parte sul diritto naturale nelL'etica della libertà è piena, secondo me, di molte ingenuità a livello filosofico nella difesa del giusnaturalismo: anche qui, come in economia, partivo come una tabula rasa e ho dovuto integrare quei capitoli con le pagine di wikipedia sul positivismo giuridico (e lunghissime chiacchierate col mio amico-mentore) per inquadrare meglio il dibattito sul diritto e scoprire (molto, molto dopo) che sì, la posizione giusnaturalista, in fondo, è la mia, anche se certamente non per le ragioni descritte da Rothbard.
Ancora, non ricordo bene dove, Rothbard mantiene una posizione a difesa del diritto d'autore che non mi convince affatto.
E insomma, come dicevo, al di là delle varie tesi che si incontrano nel percorso, l'importanza di questi saggi è nell'usarli come arieti rispetto ai pregiudizi della "religione-stato" di cui non siamo nemmeno consapevoli di essere adepti. La loro importanza risiede soprattutto nel fatto che in essi vengono delineati degli scenari sociali che non devono necessariamente essere presi come l'unica alternativa ad una società democratica, ma che vanno considerati come la semplice dimostrazione che lo Stato non è l'unica possibilità: mi riferisco a tutte quelle cose — polizia, tribunali, giustizia, leggi — che non siamo nemmeno in grado di concepire senza uno Stato (o un dittatore). E l'effetto dirompente di queste letture non è tanto nel presentarci, in astratto, un concetto di diritto svincolato dall'istituzione statale, quanto proprio quello di mostrarci, concretamente, come potrebbe configurarsi, in maniera del tutto plausibile e consistente, una società in cui convivono diversi tribunali, diverse corti di giustizia, diversi copri di polizia, o agenzie di sicurezza, capaci non solo di catalizzare una convivenza sociale pacifica e una pacifica risoluzione dei conflitti, ma addirittura di offrire una di gran lunga maggiore (rispetto al caso democratico) garanzia per quei "deboli" di cui tanto spesso lo Stato si presenta, con grande illusione, come unico possibile difensore.

06 January 2013

Democrazia /2 [era: La democrazia per la scienza]

A volte commentare per iscritto in calce ad un post richiede più iniziativa, oltre che tempo e pazienza, che farlo a voce, en passant.
Sulla questione della democrazia, in particolare, ho avuto uno scambio di battute veloce (davanti ad una macchinetta del caffé, non davanti ad una birra).
Provo ad estrarne gli elementi più interessanti, senza pretendere di restare fedele alle posizioni, ché del resto non v'erano, chiare, delle posizioni.
In sintesi, si sollevava l'obiezione che la concezione di democrazia che attaccavo nel mio post fosse un po' un fantoccio argomentativo, perché — diamine! — era ovvio che non si potessero chiamare democrazia delle semplici decisioni prese a maggioranza, chessò (esempio tipico libertario, ma giuro che non l'ho tirato fuori io...!), di uccidere tutti gli appartenenti ad un'arbitraria minoranza.
E per fortuna!
Per fortuna delle minoranze, ovviamente, ma per fortuna anche della conversazione, perché con quell'osservazione aveva messo il dito precisamente nella piaga del concetto di democrazia: se non è la volontà della maggioranza a caratterizzare (e dare fondamento morale) alla democrazia... cosa lo è?
Il discorso, un po' confuso anche perché necessariamente breve per le contingenze dell'occasione, ha visto nominare il termine "costituzione" (che evidentemente fluttuava già nell'aria per via di recenti palinsesti della TV di stato), ma senza i lineamenti di un'argomentazione.
Personalmente, a voler difendere la "causa" della democrazia, avrei pronte delle riflessioni, i cui princìpî di base potrebbero essere racchiusi nella sfera semantica del termine "giusnaturalismo", ma — ovviamente col senno di poi — portano dritte dritte ad una società libertaria, non certamente "democratica".
Mi piacerebbe tanto, perciò, sentire voi, se avrete la pazienza, il tempo e l'iniziativa di commentare per iscritto: come vi muovereste da qui? riuscireste a tornare saldi sul concetto di democrazia? prendereste un'altra direzione? quale?

22 December 2012

La democrazia per la scienza

(Un altro post verosimilmente rubato a fabristol)
Questo recente post di Amedeo Balbi, Geek di tutto il mondo, unitevi! rappresenta una straordinaria cartina tornasole capace di mettere in evidenza quanto sia cambiata la mia prospettiva col libertarismo.
 
Qualche anno fa avrei condiviso ogni singola virgola di quel post, avrei partecipato totalmente al suo sentimento di indignazione e di sconforto e di impotenza nel rendersi conto una volta di più di quale accozzaglia di ignoranza e incompetenza fosse composta la nostra classe dirigente.
Qualche anno fa sarei entrato nel merito della discussione. Oggi mi rendo conto — non riesco a capacitarmi di come si possa non rendersi conto — che è il gioco stesso ad essere perverso.
Per restare nell'ambito del post di Balbi sulle politiche per la ricerca scientifica, anche assumendo un'indiscutibile competenza della classe politica, è davvero così ovvio che esistano risposte oggettive a tali questioni? Chessò, se sia meglio Marte o Titano?? Se sia il caso o meno di finanziare ancora per altri 40 anni la ricerca in teoria delle stringhe? E mi sono volutamente tenuto alla larga da temi "scottanti" come l'evoluzione, i cambiamenti climatici o le medicine alternative.
 
Qualche anno fa mi sarei schierato senza tema di errore a fianco di quelli come Balbi. Oggi mi rendo conto — non riesco a capacitarmi di come si possa non rendersi conto — di quale sia la contraddizione insita in una tale posizione.
Da una parte, infatti, siamo nel bel mezzo di un tipico processo di discussione democratica, da parte dell'elettore, delle politiche che i suoi rappresentanti eletti saranno chiamati a realizzare; dall'altra, quello stesso processo di discussione democratica viene implicitamente disdegnato, difendendo elitariamente un proprio punto di vista come migliore: l'argomento a favore di determinate politiche (per la ricerca scientifica), infatti, non si basa su un presunto principio democratico — "ah, questi politici, che non fanno quello che vuole la gente!" — ma su una presunta oggettività della tesi, che purtuttavia si caratterizza come paradossale, nel senso etimologico del termine di contro l'opinione comune: "ah, questi politici, che se saranno votati dalla maggioranza non faranno quello che è giusto fare".
Parlar male della sinistra non significa voler difendere posizioni di destra (lungi da me, i libertari sono in alto), però questa contraddizione profonda pervade tutto il pensiero di sinistra, dando ragione del termine radical chic: da una parte la pretesa di avere la ricetta giusta, di sapere come si devono fare le cose, e dall'altra l'aver accettato il processo democratico del governo della maggioranza. Se credi che le cose debbano essere fatte in un certo modo e non in altri, l'aver accettato il metodo democratico dovrebbe essere vissuto come una limitazione, soprattutto in un ambito, come quello della ricerca scientifica, in cui stai esplicitamente dichiarando che la maggior parte delle persone non sa cosa sarebbe meglio fare (giusto per ribadire che non voglio difendere posizioni di destra, questi ultimi non vivono questa contraddizione… semplicemente perché tipicamente ammettono senza troppe remore la propria indole assolutista e la predilezione per metodi autoritari).
Del resto si tratta di una contraddizione intrinseca di qualsiasi "dibattito" democratico: non puoi pensare che la politica giusta sia quella scelta dalla maggioranza e, contemporaneamente, che tale maggioranza non sappia quale sia la politica giusta — e tu debba istruirla a tal proposito.
 
E l'ambito scientifico da cui sono partito è solo il caso particolare di una condizione del tutto generale. E' precisamente la stessa contraddizione che si sta palesando, in maniera più stridente che "nei periodi normali", in questi tempi di grillismo e antipolitica. Quel sentimento radical chic di Balbi per le competenze scientifiche dei politici (ma sia chiaro, il libertarismo non ha cambiato la mia immagine scientifica del mondo, e ovviamente sono d'accordissimo con lui nel giudicare come rozze le competenze scientifiche dei politici, ma non è di questo che stiamo parlando) è lo stesso di coloro che criticano Grillo e il suo populismo (e, ugualmente, sia chiaro che non voglio qui minimamente difendere le più che variegate posizioni di Grillo). La democrazia è questo: governo della maggioranza (che sarebbe meglio chiamare minoranza meglio organizzata), che con la scusa dell'aver avuto il più dei voti si auto-giustifica nella prevaricazione sulle varie minoranze (che insieme sono la maggioranza meno organizzata).
Nei giorni scorsi di primarie del PD e parlamentarie di Grillo, la contraddizione era stridente e perforante, ovunque si leggesse. Riporto un solo link fra mille, un po' a caso, a mo' di casalinga di Voghera del web: il suo discorso gira completamente a vuoto, criticando le scelte dei candidati "dall'alto", "di partito", che sarebbero appunto per questo "non democratiche", ma allo stesso tempo criticando i modi di Grillo, cercando qualche ragione per poter dichiarare anch'essi "non democratici": perché non ci sarebbe un programma su cui l'elettore dovrebbe basare la sua scelta (l'elettore, questa figura mitologica del saggio che tutto pondera e tutto considera prima di consacrare il proprio voto), perché non ci sarebbe garanzia sulle procedure (e se invece questa garanzia ci fosse stata, sarebbe bastato questo a garantire un esito diverso? più saggio? più competente?). Alla fine il dubbio gli viene ("davvero non vedo molte ragioni per dargli torto"), insieme alla convinzione che non ci siano vie di scampo.
Ma il dramma di tutto questo è che nessuno si rende conto che è proprio la democrazia, a non offrire scampo; che è il gioco stesso che porta al baratro.
Perché? Perché io stesso non me ne rendevo conto, fino a pochi anni fa?
Forse perché non si riescono ad immaginare alternative. Forse perché l'unica alternativa alla democrazia che si riesce ad immaginare è una dittatura: la democrazia non è perfetta, ma è il meno peggio che abbiamo, si sente dire con rassegnazione vestita di saggezza.
Come l'adepto di una religione, che non vede nient'altro che il proprio credo. La religione di stato.

24 December 2010

Per vedere lo Stato bisogna capirlo

Per vedere una cosa bisogna capirla. La poltrona presuppone il corpo umano, con le sue parti e le sue articolazioni; le forbici l’atto di tagliare. Che dire di una lampada o di un veicolo? Il selvaggio non può percepire la Bibbia del missionario; il passeggero non vede lo stesso cordame che vede l’equipaggio. Se vedessimo realmente l’universo, forse lo capiremmo.
J. L. Borges, There are more things, in Il libro di sabbia.
 
Oltre ad esporre la sua specifica visione libertaria della società, nel suo libro Per una nuova libertà Rothbard prova anche ad avanzare qualche ipotesi sulle possibilità concrete che le idee libertarie possano trovare realizzazione, più o meno pienamente, in un futuro non troppo remoto, magari proprio nei suoi Stati Uniti. E si resta sorpresi, a posteriori, del suo ottimismo, che intravede in una serie di "crisi" (la recessione, l'inflazione, i fallimenti keynesiani, l'aumento delle tasse, la situazione in Vietnam, il Watergate, et cetera) grazie alle quali avrebbero dovuto diventare evidenti a tutti gli esiti nefasti degli interventi statali.
In maniera molto simile, un analogo ottimismo tenta anche me, oggi: la gravità della crisi attuale e in particolare il fatto che siano proprio gli Stati in quanto tali a rischiare il fallimento, sembrerebbe l'occasione giusta per mettere in luce le contraddizioni del ruolo stesso dello Stato nella società (ché, ricordiamecelo, Stato e società sono cose diverse).
 
Le proteste diffuse (in Grecia, in Irlanda) contro i famigerati "piani di austerità", ad esempio, renderanno evidente a tutti, finalmente, la natura coercitiva del sistema statale: una persona piena di debiti, che ha speso per anni più di quel che aveva chiedendo in prestito soldi in giro, contro chi mai potrebbe protestare per non essere più in grado, ora, di restituire ogni cosa? Ebbene l'analogia con gli Stati e i loro debiti si rompe nel punto preciso in cui chi deve pagare, il cittadino, non coincide con chi ha deciso dove e come "bersi" tutti quei soldi, il politico — lo Stato non siamo noi, sono loro!
Finalmente tutti si accorgeranno che dichiarare qualcosa — un bene o un servizio — come "diritto" del cittadino (assistenza sanitaria, istruzione, trasporto pubblico, etc...), in maniera astratta, "a garanzia statale", significa considerare lo Stato come una mucca da mungere con risorse infinite, significa ignorare — per ingenuità o malafede — il costo del bene/servizio e chi debba pagarlo: perché qualcuno, in qualche modo, deve pur pagarlo, there ain't no such thing as a free lunch.
Ma adesso che si presenta il problema del "chi paga", diventa finalmente chiara la violenza dello Stato: io non ho scelto di avere servizi che non potevo permettermi e ora non voglio dover pagare per essi ("protesto contro le manovre di austerità"); del resto, negli anni di boom, ho approfittato anch'io di questi servizi "sopra le mie possibilità", ma d'altro canto non avevo alternative, erano servizi "pagati dallo Stato"!
Ecco dunque palesarsi, in tutta la sua perversione, la sproporzione e l'inganno del meccanismo elettorale: il voto non costa nulla, ma ha effetti devastanti: con esso non mi limito a dare "indicazioni legislative" su ciò che sarà legale o meno (e non entro ora nel merito del rapporto fra uno Stato e queste altre questioni legislative), ma sto dando letteralmente "carta bianca" sull'uso non solo dei miei soldi presenti, che forzatamente mi vengono espropriati con le tasse, ma addirittura sui miei soldi futuri, che vengono ipotecati per poter fornire, ora, servizi ad un livello che non ci si può permettere.
 
"Fornire servizi", ovviamente, nella più ingenua delle concessioni di beneficio del dubbio.
 
Questa volta, poi, c'è anche la concomitanza del caso Wikileaks, in cui non poteva essere più evidente che la differenza fra le democrazie occidentali e la fantomatica Cina è molto più sfumata di quello che viene sbandierato: se provi a metterti contro lo Stato, pur sedicente democratico, ci si mangia in un sol boccone, e senza nemmeno troppo dissimulare, qualsiasi habeas corpus.
 
Un ottimismo simile a quello di Rothbard, insomma, tenta anche me, oggi.
 
Ma quale ingenuità, sarebbe!
 
In realtà anche questa volta, come e più dei tempi di Rothbard, nessuno si accorgerà di niente e, anzi, come allora, la soluzione a tutti i mali sarà ancora più Stato, più Stato, più Stato. Ripeteranno ancora che le tasse per uscire dalla crisi le pagheranno i più ricchi per poter continuare a offrire servizi ai più poveri, e la gente continuerà a non accorgersi che sarà, come sempre, l'esatto contrario. Saranno capaci di offrire come cura al veleno, indebitamento e azzardo morale, ancora altro veleno, ulteriore indebitamento (il fantomatico "stimolo") e ancora più azzardo (titoli non più di Stato, ma addirittura d'Europa).
 
Del resto, io stesso, solo qualche mese fa, che interpretazione avrei dato di queste vicende? Mi sarei finalmente, da solo, riscoperto libertario? Del tutto inverosimile. Avrei invece cercato di far rientrare i fatti nell'usuale schema concettuale: avrei dato la colpa alla classe dirigente, ai politici, alla situazione anomala italiana di clamoroso conflitto di interessi, agli italiani incapaci di accorgersi di quell'anomalia e rigettarla alla prima occasione elettorale, o ad una delle innumerevoli altre successive, magari addirittura giustificandoli per via dell'immenso condizionamento mediatico a cui sono sottoposti da decenni.
Sarebbe stato difficile per me accorgermi, solo sulla base di questa crisi, che in realtà quello Italiano rappresenta proprio il caso emblematico di un meccanismo degenerativo del tutto generale e intrinseco alla natura stessa degli Stati, ai loro meccanismi di funzionamento standard. Che scandalizzarsi per la corruzione dei politici e chiedere a gran voce un ritorno alla legalità e all'onestà istituzionale e politica è semplicemente come scandalizzarsi per il corso dei fiumi e chiedere con fermezza che l'acqua prenda finalmente a scorrerre in salita!
E il caso italiano, dunque, diventa emblematico, contemporaneamente, da due punti di vista. Innanzitutto, come dicevo, rappresenta un esempio eclatante dell'esito naturale di un meccanismo che, monopolizzando l'uso della forza, permette proprio ai più ricchi e potenti di avere un solo interlocutore da dover "convincere", con facili ringraziamenti, per poter avere privilegi e agevolazioni; che, proprio per il fatto di avere un solo interlocutore, nega la possibilità di scelta al singolo cittadino e offre spazio di manovra ai poteri forti (corporazioni e lobby), solo loro capaci di potersi permettere gli opportuni "ringraziamenti" da offrire allo stato.
Ma nella sua esasperazione di questi meccanismi, l'Italia è contemporaneamente la prova paradigmatica che sarà impossibile cambiare, che l'evidenza più sfacciata di sopprusi, corruzione e malafede non può assolutamente niente, se manca una teoria capace di interpretare quell'evidenza.

26 October 2010

Vuota apologia del libertarianismo

Dicevo che il Libertarianismo è una di quelle "scoperte" che ti cambiano radicalmente il modo di vedere tutte le cose; e vi sarà sembrata, lo so, una di quelle frasi romantiche, di chi ama naufragare fra per sempre e mai piú, e immaginare l'infinito dietro l'ermo colle.
E invece è letteralmente così, ti rivolta davvero tutto il mondo come un calzino: lo shopping, lo stato, la società, l'ecologia, i diritti fondamentali degli uomini, non sono più gli stessi; non è più la stessa cosa votare, pagare le tasse, andare a scuola, al lavoro, (non) fare ricerca scientifica. Persino l'astrologia, l'omeopatia e Vanna Marchi (e ditemi voi se è romanticismo Vanna Marchi!) non sono più quelli di prima!
 
Chiaramente sto parlando della mia esperienza personale: non so se tutti i libertari sono passati attraverso un'analoga fase tellurica o se magari hanno vissuto un'esperienza simile ma in più tenera età e, quindi, con meno sconvolgimento (o, più banalmente, sono stati libertari "da sempre").
 
Personalmente, per quanto riguarda la portata rivoluzionaria, trovo che il paragone naturale sia con la fisica moderna e il Darwinismo: se, da una parte, Relatività e Meccanica quantistica ridefiniscono la stoffa con cui è fatto il mondo (spazio, tempo, oggettività, causalità...), dall'altra il Darwinismo tocca più da vicino proprio l'essere umano (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo). Ebbene, la prospettiva libertaria rappresenta il vertice di questo climax perché sconvolge il concetto di uomo nella società, e dunque te la ritrovi dappertutto, quotidianamente.
Ma, sempre in chiave di portata rivoluzionaria, c'è un aspetto profondamente diverso fra Libertarianismo, da una parte, e Relatività, Meccanica quantistica e Darwinismo dall'altra: mentre queste ultime sono scienze consolidate e mainstream, e il Darwinismo addirittura, pur in facili semplificazioni, è addirittura patrimonio comune (ok, lasciamo stare in questo momento l'Intelligent Design...), il Libertarianismo rappresenta invece una specie di terra ignota, ignobile persino, priva anche del fascino trasgressivo dei tabù.
E' stato del tutto casualmente, infatti, che qualcuno mi ha indicato Rothbard, Friedman e prima ancora la scuola austriaca di economia. Eppure, esattamente come succede con Darwin, l'unica reazione che si prova, a posteriori, è semplicemente un: ma come ho potuto essere stato cieco per tutti questi anni? E, a differenza di Darwin, com'è possibile che tanta gente, colta e istruita, progressista, sia del tutto ignorante rispetto a questo modo così naturale di vedere le cose?
 
Va bene, direte voi, ora piantala di girare attorno alla questione e di creare tutta questa suspense: dicci finalmente cos'è, cosa dice questa teoria libertaria della società (ché a leggere Wikipedia sembrano dei pazzi furiosi).
 
La cosa più semplice che potrei fare, in effetti, è proprio fornire qualche link: oltre a Wikipedia ci sono tante fonti online su argomenti libertari e ci sono anche ottimi blogger che ne parlano.
Il punto è che io stesso ero entrato in contatto con alcuni concetti libertari, pur in maniera casuale e tutt'altro che sistematica, proprio attraverso letture sporadiche da alcuni blogger (ad esempio il lume rinnovato), e tuttavia non ero riuscito a coglierne la portata. Un po' perché ero viziato da tutta una serie di pregiudizi inconsapevoli molto comuni e di cui mi sono dovuto letteralmente liberare con non poca fatica, e un po' perché si trattava di concetti isolati di cui mi mancava il contesto (contesto tanto fondamentale proprio perché il Libertarianismo presuppone un cambiamento di prospettiva radicale rispetto al modo di pensare comune). E infatti, almeno da questo punto di vista, un po' mi sono pentito dei miei post recenti in cui riportavo "beceramente" dei brani di Rothbard, perché ottengono in molti casi lo stesso (controproducente) effetto nel lettore non-libertario: straniamento e sospetto.
Quel che mi piacerebbe, invece, è provare a fornire un percorso, anche solo accennato, sicuramente da approfondire poi altrove, che possa però facilitare la strada ad altri che si trovano in una situazione simile a quella in cui mi trovavo io fino a qualche mese fa. Gran parte dei pochi lettori che mi seguono, infatti, almeno io credo, non sono libertari per lo stesso motivo per cui non lo ero io: semplice e pura ignoranza.
 
A coloro che, per ingannare l'attesa (sicuramente lunga, potenzialmente vana) di una prossima puntata, su questi schermi, su questi temi, volessero comunque cominciare da Wikipedia, chiederei almeno di non affrettare il giudizio: le pagine di Wikipedia, giocoforza, espongono le idee libertarie in maniera concisa, evidenziandone le tesi, manco a dirlo, rivoluzionarie. E proprio in quanto tali, prese così, dall'alto, queste tesi possono apparire al limite dell'irragionevolezza. Di più: a volte possono anche esserlo, irragionevoli, perché nella semplificazione di una voce enciclopedica possono rappresentare il risultato estremo di un approccio del tutto inusuale. Il punto è che — e in questo effettivamente il paragone con la fisica moderna e il Darwinismo non regge decisamente più — il Libertarianismo non è un monolite, accentrato, chessò, sulle tesi di Rothbard o di Friedman (che, tanto per dire, erano spesso in disaccordo reciproco su tante cose). Il Libertarianismo, in tutte le sue varie forme rappresenta una prospettiva sulla società, un modo di pensare e di affrontare questioni in cui semplicemente hai imparato a evitare "i soliti errori". Su molte questioni non esiste la soluzione libertaria (al massimo c'è la soluzione di Rothbard, quella di Friedman, e spesso quelle più "famose" sono le più "estreme", da cui, almeno in parte, l'immagine diffusa di "pazzi furiosi"). L'accordo, se vogliamo, è "in negativo", su quali soluzioni "sicuramente non funzionano" e su quali sono i fattori rilevanti, nella ricerca di una soluzione.
 
Questo, tra l'altro, per dire che no, non ho trovato l'unica verità politica a cui tutti dovrebbero adeguarsi, che sarebbe oltremodo ingenuo. L'effetto di devastante rivoluzione della prospettiva libertaria è in negativo, riguarda la quantità di credenze implicite e apparentemente naturali che improvvisamente si frantumano, si rivelano quali falsi preconcetti che da sempre hanno distorto la visione della società.
Proprio come con la fisica moderna e il Darwinismo, il panorama che ti si para davanti è sterminato, e approfondirlo richiede(rebbe) tempo ed energie, ma ugualmente, da subito, capisci che, qualunque cosa troverai, non sarà come quello a cui eri abituato.
 
Insomma: non è tanto una o più specifiche tesi finali di particolari libertari, quanto la prospettiva, che vorrei provare a farvi scorgere, in qualche modo, in futuro, su questo blog. Non ho idea di come fare, dovrò cercare di ricordare com'ero, io stesso, qualche mese fa (e già mi sembra un io lontanissimo ed estraneo), come ragionavo, cosa mi risultava assolutamente impossibile da concepire, ma soprattutto come invece sono arrivato a concepirlo, prima, e, ben presto, a trovarlo addirittura naturale e ovvio.

21 March 2010

tanto per dire

Il vero, grosso problema dell'Italia dei valori è questo. Non il personaggio specifico in sè, ma l'essere, l'IdV, facile approdo di quaglie d'ogni dove, con conseguenze che abbiamo già sperimentato sul campo (vedi alla voce Sergio De Gregorio).
Tutti gli altri problemi, solo l'ultimo dei quali è la parlantina rustica di Di Pietro, passano in secondo piano, stante il panorama politico italiano. Perchè il voto è ovviamente un compromesso e non ti basta citare un problema di una parte politica: devi anche convincermi che è peggio di quel che trovo da qualche altra parte.
 
Non ne capisco molto di politica, sono tremendamente ingenuo, ma il mio pensiero è questo: nonostante tutto, nonostante anche il grosso e serio problema delle quaglie, continuo a pensare che, in questo momento, un voto a Di Pietro sia il segnale giusto. Il PD ha smesso di rappresentare un'alternativa possibile, viste le numerose manifestazioni di voglia di inciucio; votare qualcuna delle altre alternative non si distinguerebbe molto dal non-voto.
E del resto la dimostrazione più chiara che l'IdV rappresenta in questo momento la valorizzazione migliore del proprio voto viene proprio da Berlusconi stesso e dalla suo rapporto chiunque ma non lui con Di Pietro (molto vicino, in realtà, al rapporto che hanno un po' tutti, con Di Pietro...).

07 July 2009

altro giro?

Ah, questi dannati post da scrivere in fretta e furia che poi scadono... :(
Questa volta la scadenza è l'11 luglio e il da farsi non è leggere uno shared-item o ascoltarsi un podcast, ma nientepopodimenochè iscriversi al Partito Democratico:
 
   —   ∴   —   
E' ARRIVATO IL MOMENTO. SIAMO IN MOLTI, MOLTISSIMI
Sogniamo un'Italia diversa,
crediamo nella cultura del merito, nella laicità della Stato, nella solidarietà, nel rispetto delle regole, nei diritti uguali per tutti, vogliamo liberare le energie migliori di questo paese e creare una squadra di persone che diano voce, forza, concretezza alle nostre idee.
IO CI SONO. E VOI?
Leggi l'intervista su la Repubblica.
   —   ∴   —   
 
Epperchémmai?
Ah, non chiedetelo certo a me, non so niente: non so perchè bisognerebbe farlo entro l'11 luglio e soprattutto non so perchè, davvero, bisognerebbe farlo.
Ogni volta sbuca fuori questa storia della nuova possibilità, della nuova occasione da non perdere, del questa è la volta buona. E ogni volta finisce sempre che il PD si riveste da pesce pilota del PDL. Ed io sinceramente sono un po' stanco, perdonate la volgarità, di essere preso per i fondelli.
Però questa volta ne parlano in tanti e ben referenziati: Chiara, Corrado, Marco, anche Andrea nei suoi shared-item... (cfr. anche l'UAAR).
Da quel che ho capito, si tratterebbe di iscriversi al partito per poter votare all'elezione del segretario, prima ancora di pensare alle (eventuali) primarie, per poter dar peso ad una figura non governata, perdonate il neologismo, dalle solite logiche di partito. Prima di sentir parlare di Ignazio Marino, pensavo a Bersani ma, come ha detto Marco togliendomi le parole di bocca la gente che oggi sta dietro alla sua candidatura non mi piace mica tanto: manco a dirlo, sono proprio quelli che dieci anni fa, quando era ministro, lo contestavano per le sue politiche troppo liberali!
 
Non so, ma ci sto pensando su. Epperò devo sbrigarmi a decidere.
 
Per iscriversi al PD basta presentarsi con un documento al circolo più vicino al luogo in cui abiti. Una volta iscritto invia un'email all'indirizzo ignazio.marino@gmail.com.

12 February 2009

libertà di coscienza

Dopo l'irrefrenabile delirio, continuo a sentire in giro ancora tanta confusione sulla questione che, nonostante la morte di Eluana, non può certo dirsi chiusa.
A partire dallo stesso Mannheimer che sbaglia clamorosamente sondaggio, chissà se per ingenuità (per non dubitare della sua probità) o sofisma (per non mettere in dubbio la sua intelligenza). La domanda, infatti, non doveva essere "cosa sarebbe giusto fare nel caso di Eluana?", ma "in una situazione simile, vorresti poter decidere tu?". E chissà se anche di fronte a questa domanda, la vera domanda, l'Italia si ritroverebbe spaccta.
Il punto della questione, infatti — ed è incredibile come si sentano in giro ancora dibattiti accesi che mancano completamente il punto — non è affatto quale sia il protocollo da seguire in determinate circostanze (che già abbondano i casi, in Italia, in cui il legislatore pretende di sostuirsi al medico per decidere, in generale, cosa sia meglio fare in ogni singolo caso), ma è se sia possibile lasciare a ciascun individuo la libertà di scegliere se accettare o meno una cura (così invasiva sul proprio corpo).
Il punto della questione continua a non essere compreso dappertutto, tanto che anche in parlamento, al momento di votare un disegno di legge talebano fin nella sua forma raffazzonata di una semplice ed unica frase, si invoca l'inalienabile libertà di coscienza.
Ma vi rendete conto della contraddizione, della violenza che dobbiamo subire? C'è una legge che vuole privare il cittadino di un diritto e vuole obbligarlo a subire una violenza precisamente per il fatto di non poter reagire e non poter provvedere a se stesso... e ci si appella alla libertà di coscienza? La libertà di coscienza in parlamento per privare della libertà di coscienza in ospedale?
E' ancora delirio, è insulto all'intelligenza, dove sono tutti quanti? Vi siete bruciati il cervello? Giornalisti? Opposizione? Persino Di Pietro si è appellato alla libertà di coscienza in parlamento.
La potenza del Vaticano è immensa ancor più per questo, che per i fili diretti con cui riesce a muovere Berlusconi, per il fatto di obnubilare completamente le nostre coscienze, per la sua subdola capacità di insinuarsi nella nostra testa trasformandoci da dentro, facendoci apparire normale la violazione delle più normali libertà dell'individuo.

09 December 2008

se una sera a cena un giornalista


Dai, raccontaci un po', come fate voi giornalisti a tenervi informati su quel che succede? Noi leggiamo i giornali, ma voi?
Be', innanzitutto c'è una suddivisione degli ambiti: chi si occupa di cronaca nera, chi di cronaca giudiziaria, chi di cronaca politica...
— E quello che si occupa di cronaca nera cosa fa, telefona ogni 5 minuti alla polizia?
Successo niente di nuovo? No. Successo niente di nuovo? No. Successo niente di nuovo? No...
Be', ci sono gli informatori: ogni giornalista ha il suo contatto alla polizia...
Quindi è la polizia, che vi chiama, quando succede qualcosa...
— Ma chi glielo fa fare, di chiamarvi ogni volta che succede qualcosa?
Be', la polizia potrebbe essere interessata al fatto che venga divulgata una certa notizia...
Come quando fanno i servizi sull'esito di una loro operazione...
— E' un po' come farsi pubblicità... i giornalisti fanno le marchette!
Be' potrebbero anche parlare male della loro operazione...
— Sì, così poi non ti chiamano più la volta dopo...
Sì, c'è una specie di rapporto di fiducia fra informatore e giornalista: oggi io ti pubblico un articolo che ti elogia, domani mi dai l'anteprima di una notizia di cronaca...
Ma così non ci saranno mai articoli negativi sulla polizia...
— ...e su tutti quelli da cui hai informatori: se vorrai mantenerti sulla notiza, devi solo dare le notizie buone!
Be', sì, la regola pratica è che se una notizia si pubblica è perchè c'è qualcuno a cui interessa che venga pubblicata.
Quindi una notizia "cattiva" su di te si pubblica solo se la viene a sapere un tuo rivale...
— Sì, se anche il giornalista lo venisse a sapere "da solo", non la pubblicherebbe per non "bruciarsi" il suo informatore...
Cioè dev'essere un altro giornalista che riceve la soffiata dal "rivale"...
— Altrimenti comunque il giornalista perderebbe la fiducia del suo uomo...
Sì, succede più o meno così...
Ma è incredibile questo meccanismo! Chissà allora di quante cose non veniamo e non verremo mai a conoscenza!
Eh, sì. L'unico modo che ha un giornale per poter pubblicare notizie "scomode" è quello delle inchieste: si invia ad indagare un giornalista "esterno" all'ambiente, che non ha alcun rapporto di fiducia da difendere...
E i giornali a tiratura nazionale? Se io, fonte, so che comunque tu sei un giornalista di Repubblica o del Corriere, che il giorno prima ha pubblicato un'inchiesta che mi ha danneggiato, anche se non sei stato tu materialmente a firmare l'articolo, io non ti do più fiducia!
Il giornalista locale cercherà di chiamarsi fuori dicendo che non ha potere di bloccare le pubblicazioni di un suo collega...
Certo che è un equilibrio molto fragile: è incredibile come possa mantenersi vivo un giornalismo "sano e indipendente" se questi sono i meccanismi in gioco...
Sì, è un equilibrio delicatissimo. A salvare le cose dovrebbe entrare in gioco una solidarietà corporativa...
In che senso?
Per esempio: in una conferenza stampa convocata da un politico, un giornalista prende la parola e fa una domanda scomoda al politico stesso. L'entourage del politico proverà quindi ad allontanarlo e magari ad impedirgli l'accesso le volte successive. Gli altri giornalisti dovrebbero allora far fronte comune ad un tale comportamento: ad esempio minacciando di andarsene tutti quanti con lui...
Essì: oggi capita a me, domani a te...
Esatto...
— Oggi, poi, bisognerebbe estendere questa sorta di solidarietà non solo ai giornalisti...
Certo che in Italia non sembra succedere molto spesso...
— Le interviste ai politici sembrano semplicemente degli spot elettorali: non fanno domande, chiedono solo: "cosa, di grazia, vorrebbe commentare? Ma non necessariamente nel merito della notizia, se anche vuol raccontarci una barzelletta o cos'ha mangiato a pranzo, per noi va bene, ci dica quello che vuole..."
So che in alcuni casi Mediaset non mandava nemmeno il giornalista, per realizzare il servizio...
...in che senso?
...mandava solo il cameraman.

16 October 2008

Il buco nero e la tagliola

UPDATE
 
Il Buco Nero - sito dei lavoratori precari INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare)
Qui la situazione è sempre più grave: in un momento di crisi economica globale come questa la mossa peggiore che potrebbe fare un Paese occidentale è proprio quella di tagliare la ricerca, l'unica sua possibilità di futuro.
La situazione è così grave che del caso italiano ne parla addirittura nientepopodimenochè Nature (potete leggerne qui e qui).
Io ormai dispero di questo Paese, ma se avete ancora la forza di indignarvi potete trovare ottimi spunti da Marco Delmastro (qui e qui) e da Marco Cattaneo (qui). Se volete potete anche firmare la petizione sul sito dei lavoratori precari dell'INFN, dove potete trovare anche i comunicati di aggiornamento sulla situazione.
 
PS
Lui, invece, continua a spingerci verso il medioevo...