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17 March 2017

Twitversazioni

Ho sbagliato tutto: si stava discutendo di un tema specifico, l'indipendentismo, e ho fatto l'errore di risalire ai massimi sistemi, ben sapendo che — così, dal nulla, e per di più in un botta e risposta su Twitter — l'incommensurabilità sarebbe rimasta intatta, né potevo suscitare quel minimo di curiosità che avrebbe potuto portare ad approfondire certi temi anche in altri contesti.
E così è finita ad nazium.
 
L'odio in rete di cui si parla tanto è il caso estremo, ma la comunicazione è davvero una cosa delicatissima.
 

27 September 2016

Regolamentazioni

 
Questo recente post di Giuseppe Lipari, Disparità, sulla sparità fra uomini e donne nell'amministrazione statale, solleva la questione delle regolamentazioni, della loro efficacia, degli incentivi che producono e degli effetti collaterali che il legislatore, con un'ingenuità colpevole, non aveva previsto, credendo come un bambino dell'asilo che per ottenere qualcosa sia sufficiente metterlo per iscritto.
C'è anche un caso paradigmatico noto in letteratura col nome di effetto cobra, in cui il governatore britannico di una provincia dell'India, per contrastare un'invasione di cobra, offrì una taglia per ogni cobra morto consegnato alle autorità, generando in tal mondo un forte incentivo opposto ad allevare cobra.
 
Ma non c'è da scervellarsi su ogni caso specifico per evitare l'eterogenesi dei fini, non c'è da studiare un anno intero ogni singola regolamentazione per scovare tutti i possibili effetti collaterali: è infatti un principio del tutto generale che le regolamentazioni causino inefficienza e producano danno ai consumatori, attraverso artificiali barriere all'ingresso.
L'effetto immediato di simili inefficienze è quello di spingere consumatori e produttori a incontrarsi al di fuori delle regolamentazioni, con beneficio reciproco; ed è per questo che vengono introdotte sanzioni (il cui costo viene comunque accollato sulle spalle dei consumatori, anche se in maniera scorrelata al mercato di applicazione di quelle sanzioni).
In definitiva le transazioni "in nero" vengono messe in atto non già quando risultano più convenienti tout court delle corrispondenti soluzioni "regolamentate" (il che sarebbe essenzialmente sempre), ma quando risultano più convenienti includendo il sovraccosto delle sanzioni. E per sovraccosto ovviamente non si intende semplicemente il prezzo dell'eventuale multa, ma tutti i costi connessi ad essa e ai suoi rischi.
 
Tutto ciò non si limita, come si potrebbe ingenuamente credere, a drenare una certa quantità di risorse da produttori e consumatori a vantaggio del regolatore [1], ma deforma in maniera sostanziale la struttura stessa della domanda e dell'offerta.
I casi più evidenti sono quelli estremi, in cui cioè la regolamentazione statale alza barriere smisurate. Lo stereòtipo è il "nobile esperimento" del proibizionismo americano sugli alcolici degli anni venti del secolo scorso, o equivalentemente quello attuale sugli stupefacenti e la canapa, in cui i costi di regolamentazione hanno assunto i connotati di una vera e propria guerra alla droga.
Gli effetti sono molteplici.
Innanzitutto c'è quello di sterilizzazione del mercato sotto-soglia, sia per la domanda che per l'offerta, che colpisce quei settori che non sono in condizione di superare la barriera d'ingresso artificiale. Versioni economiche del prodotto non verranno prodotte, o almeno non per essere vendute a quella fascia di domanda, che resterà dunque all'asciutto. Questo tra l'altro significa che le regolamentazioni sono una tassa intrinsecamente regressiva, cioè che ricade maggiormente sui meno abbienti, i quali non possono più permettersi il bene regolamentato [2].
Nel caso del proibizionismo questa sterilizzazione arriva a colpire una grossa fetta del mercato, vista l'entità della soglia.
Ma l'effetto non è banalmente di "taglio" nella distribuzione, perché il mercato sopra-soglia che sopravvive deve compensare il fatto che gran parte dei costi che sta sostenendo non sono legati alla produzione, ma alle sanzioni: i gangster dovevano sostenere un prezzo molto alto per i loro traffici (il rischio di essere catturati dalla polizia, o uccisi da bande rivali, le strategie di difesa armate, frutto esse stesse del fatto che la risoluzione dei conflitti con i propri competitor non poteva seguire le più convenienti vie pacifiche dei tribunali, etc, etc) e dunque potevano dedicare poche risorse alla qualità dei propri prodotti, che in più, per ottimizzare i costi, non potevano che commerciare in grandi quantità. Ecco perché alcool e droga sotto il proibizionismo circolano tendenzialmente ad alta densità (ricordate di trafficanti di birra? solo superalcolici!) e bassa qualità (la droga di per sè non uccide: i morti per overdose sono l'effetto collaterale di un mercato in cui i prodotti sono tagliati male per ridurre i costi e in cui l'illegalità impedisce la formazione di marchi e rende pressoché impossibile una circolazione trasparente delle informazioni sulla qualità dei prodotti). [3]
 
In definitiva le regolamentazioni del mercato hanno, col beneficio del dubbio della migliore delle ipotesi, motivazioni ingenue da wishful thinking ed effetti distorsivi inevitabilmente a svantaggio di tutti.
E il dramma di tutto ciò è che il proibizionismo è stato sperimentato ormai un secolo fa, i suoi effetti sono sotto gli occhi di tutti, ma la guerra alla droga non ha indietreggiato di un millimetro e, al contrario, di fronte agli effetti collaterali negativi che emergono da ogni nuova regolamentazione, la riposta che si chiede a gran voce è ancora e ancora più regolamentazione.
C'è modo di uscirne?
Ne parleremo nella prossima puntata!

[1] il quale poi, dice, riverserà alla comunità, ovviamente dopo aver decurtato i costi di quell'enforcing, se mai fossero inferiore agli introiti delle sanzioni, che comunque non sarebbero pensati con scopi di fare cassa...
[2] e corrispondentemente ricade anche sui produttori con meno risorse, che dovranno chiudere bottega.
[3] Questo chiarisce anche l'ipocrisia delle campagne di sensibilizzazione che accusano la droga di uccidere, quando il vero assassino è invece proprio la legislazione proibizionista.

13 July 2016

La struttura di incentivi

 
 
Puff, pant... maledetta attualità[*].
 
 
L'esito del referendum nel Regno Unito, come già prima l'ascesa di consensi per Donald Trump, ha riportato in auge le discussioni sui fondamenti della democrazia[1][2][3][4][5][6].
A voler essere populisti, si potrebbe riassumere che secondo questi parrucconi la democrazia è bella finché sono d'accordo col risultato elettorale, altrimenti "il popolo non era ben informato", "era preda della demagogia", etc, etc.
Un compendio più congruo e perìto è invero che, senza adeguata temperanza, sulla democrazia incombe la trasfigurazione in oclocrazia.
 
Scherzi a parte, ho cercato un po' in rete, ma non ho trovato esiti condivisi su una linea di demarcazione, nelle lunghe ed elaborate discussioni che pur non faticano a trovare problemi nel concetto stesso di democrazia[§], e che, esplicitamente o implicitamente, sembrano risolversi tutte nel Churchill de la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre.
Già Aristotele distingueva le forme di governo "buone" (monarchia, aristocrazia e, appunto, democrazia) da quelle "cattive" (tirannide, oligarchia e, appunto, oclocrazia) indipendentemente dall'estensione della consultazione decisionale (uno, pochi o, appunto, tutti).
Il presupposto comune a questo tipo di contrapposizioni è che esisterebbero criteri di legittimità diversi dalla volontà di un monarca, dalle decisioni di un consiglio di saggi o, appunto, dall'esito di un voto a suffragio universale; diversi, e più importanti.
L'idea, cioè, è prorpio che esistano dei diritti (individuali o — nel dubbio lo concediamo — collettivi) che, anche se a maggioranza, un'assemblea non ha legittimità a violare.
 
 
Una posizione di questo tipo può essere caratterizzata come giusnaturalista, in contrapposizione ad una giuspositivista.
 In quest'ultima, l'unico diritto possibile è quello positivo, ovvero quello concretamente osservato nei fatti: l'unica legge è la legge del sovrano — che sia una persona fisica (un monarca) o un'istituzione (un parlamento) — e non ha bisogno di alcuna legittimazione al di fuori della sua origine. In questa prospettiva il diritto acquista carattere meramente formale e, non essendo più questione di equità e probità, ma di semplice validità, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura direttamente come la scelta del criterio di validità per la legge [†].
In una prospettiva giusnaturalista, invece, esistono dei princìpî universali a cui il diritto positivo deve aderire per poter essere considerato giusto. Il diritto naturale [‡], però, è dato solo in termini di valori universali e generici: ad esempio il principio di non aggressione ("non uccidere") oppure il diritto di proprietà ("non rubare"). Si pone quindi il problema di dover tradurre tali criteri generali in leggi specifiche che fungano da riferimento quando i tribunali sono chiamati a giudicare casi concreti. Per questo, in prospettiva giusnaturalistica, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura come la scelta di un semplice regolamento, di una procedura contingente, che ha valore validante da un punto di vista pratico e formale, ma che non pretende di fungere da giustificazione della legge, e certamente non si pone al di sopra di essa.
 
 
Sulla base di quali criteri, dunque, giudicheremo la bontà di una forma piuttosto che un'altra del diritto positivo, della forma concreta che esso assume in uno specifico contesto storico e sociale? In prospettiva giusnaturalista, ovviamente, sarà in primo luogo il criterio di giustizia, il quale viene invece escluso di principio da una prospettiva giuspositivista, che non potrà che ricorrere ai rimanenti criteri di coerenza, chiarezza, certezza e coercibilità.
Cosa distingue, dunque, la monarchia dalla tirannide? la democrazia dall'oclocrazia? In prospettiva giusnaturalista la risposta è semplice, ed è una distinzione di merito: la monarchia è illuminata se il Re amministra la giustizia con saggezza, è dittatura se la piega al suo arbìtrio.
Può una monarchia essere migliore di una democrazia? Certamente, per un giusnaturalista: ad esempio se il Re è illuminato mentre il parlamento è corrotto e opera in maniera clientelare sulla spinta di lobby potenti.
 
Ma in linea generale, è possibile stabilire se la democrazia sia migliore, almeno tendenzialmente, della monarchia?
In questo caso, non potendo entrare nel merito della legge in vigore in una specifica democrazia o monarchia, il giudizio deve procedere analizzando la struttura di incentivi messa in atto da una piuttosto che dall'altra forma di esercizio del potere legislativo/giudiziario.
 
Ad esempio, un possibile argomento a favore della democrazia, rispetto alla monarchia, è che quest'ultima potrebbe essere più facilmente vittima degli arbìtrî di un singolo (il monarca) rispetto all'esito di una votazione di un'assemblea che coinvolge molti soggetti diversi (l'intera popolazione, o suoi delegati, etc, etc...).
Chiaramente il fatto di passare attraverso una delibera assembleare/parlamentare non è sufficiente a garantire che il voto non vìoli i princìpî del diritto naturale ed è dunque legittimo chiedersi se e quali limitazioni (ad esempio una costituzione), o sue modifiche (ad esempio tramite l'estensione/riduzione del suffragio, sulla base di determinati requisiti) o sue alternative (ad esempio attraverso l'esercizio del potere legislativo in forma anarchica[※]), possano introdurre ulteriori vincoli e/o incentivi affinché la legge risultante tenda ad inseguire maggiormente ai princìpî del diritto naturale. È legittimo chiedersi, cioè, se sia possibile migliorare, di quanto, e a che prezzo, le capacità di questa forma di governo a maggioranza nell'individuare, tradurre ed attuare i princìpî generali e universali del diritto naturale.
È difficile sopravvalutare questo aspetto e dunque giova sottolinearlo una volta di più: poco importa il wishful thinking dell'affidarsi alla buona fede, ai nobili intenti e all'integrità intellettuale del monarca, dei legislatori, dei giudici o dei funzionari; a nulla vale respingere le critiche ad un sistema sulla base del fatto che il suo particolare fallimento è attribuibile alla disonestà e all'egoismo di uno o più attori specifici in carica in quel momento: un sistema sarà tanto migliore quanto più metterà in atto feedback capaci di alimentare circoli virtuosi e di soffocarne i viziosi.
 
 
Consideriamo ad esempio il caso dei limiti al potere del legislatore posti da una costituzione: è ingenuo pensare che essi, semplicemente, verranno rispettati; che un governo non proverà a forzare i confini del suo potere solo perché così è scritto su un documento di nobili intenti. Da questo punto di vista non meravigliano i numerosi dibattiti, spesso oggettivamente capziosi, sulla costituzionalità o meno di questo o quel provvedimento.
In questi termini, l'idea della separazione dei poteri di Montesquieu sembrerebbe già meno ingenua: dividere il potere in funzioni da affidare a soggetti diversi dovrebbe innescare precisamente quei controlli incrociati capaci di limitare il reciproco arbìtrio. In realtà non è chiarissimo quali siano gli incentivi che dovrebbero indurre ciascuno dei tre soggetti istituzionali — legislativo, giudiziario ed esecutivo — ad agire in modo da impedire agli altri due di abusare del proprio potere e non invece, per esempio, ad agire di concerto in maniera da aumentare reciprocamente il proprio potere[¶].
Come ultimo esempio — per far riferimento a proposte avanzate recentemente nei dibattiti sollevati da Trump e Brexit — consideriamo il caso della restrizione del voto che lo conceda solo a chi riesce a superare un esame di educazione civica basato sulla conoscenza delle procedure e della forma delle istituzioni della propria nazione: che razza di incentivi potrebbe mai introdurre nel feedback elettorale una simile selezione, al fine di migliorare la "convergenza" del processo democratico verso il rispetto del diritto naturale? Piuttosto, se proprio si volesse introdurre delle limitazioni al suffragio universale, sarebbe più sensato, chessò, escludere o limitare in qualche modo il diritto di voto ai dipendenti pubblici, i quali hanno un palese conflitto di interessi nel votare leggi che prelevano risorse pubbliche per assegnarle a se stessi.
Più genericamente, il meccanismo delle periodiche elezioni dovrebbe imbastire proprio il principale feedback dei governati verso l'azione dei governanti, ma esiste tutta una branca della sociologia politica che va sotto il nome di public choice theory che ha messo ben in evidenza le numerose strutture di incentivi perversi presenti nei correnti regimi democratici: i feedback elettorali sono pressoché sterilizzati quando non addirittura invertiti (quasi sempre i fallimenti dello Stato hanno l'effetto nell'opinione pubblica di chiedere ancora più interventi statali) e in generale sono spinti ad emergere nelle posizioni di potere proprio i caratteri umani più approfittatori (l'accentramento del potere che fa gola a demagoghi e dittatori). Insomma, precisamente l'opposto di quel che si presuppone ingenuamente per un corretto funzionamento della cosa pubblica.
 
 
In questi termini una condizione anarchica rappresenta inevitabilmente la miglior struttura di incentivi immaginabile.
Non lasciatevi ingannare dalla sfera semantica di disordine e caos che si suole associare al termine anarchia: qui intendiamo riferirci a quella condizione in cui sono presenti una pluralità di soggetti paritari, privi cioè di un referente ultimo che possa accentrare su di sè e monopolizzare il potere sugli altri soggetti. Sembra una proposta radicale ed estremista, ma si tratta in realtà semplicemente di proseguire sulla strada che considera un progresso il passare da una monarchia ad una oligarchia per via dell'aumento dei soggetti coinvolti nel processo decisionale del potere; un progresso l'ulteriore passaggio da un'oligarchia ad una democrazia e ancora un progresso, almeno negli intenti, l'ulteriore introduzione della separazione dei poteri.
La competizione istituzionale che motivava, con una certa ingenuità, la separazione dei poteri di Montesquieu, in questo modo si realizzerebbe più efficacemente: poiché la pluralità di soggetti istituzionali sarebbero in diretta competizione per la stessa funzione, si instaurerebbero precisamente quei meccanismi concorrenziali che renderebbero davvero democratico, nel senso etimologico del termine, l'esercizio del potere.
 
 
Al di là del finale[◊], spero con questo post di aver almeno chiarito alcuni termini della questione e aver inquadrato il contesto in cui ha senso o non ha senso collocare le critiche e le proposte di modifica del regime democratico nell'attuale declinazione dello Stato moderno.
 

[*] Solite avvertenze, anche se questo post è prevalentemente un mio personale tentativo di rielaborare e tirare le fila.
 
 
[†] In una concezione positivista il potere legislativo, semplicemente, si pone al di sopra della legge stessa, sua diretta emanazione: ad esempio il diritto di resistenza, banalmente, non è contemplato. È significativo osservare che nel moderno stato di diritto il diritto di resistenza è formalmente escluso — a parte alcune eccezioni come, notevolmente, quella della costituzione tedesca.
[‡] L'uso del termine naturale non inganni: non si presuppone necessariamente che tali princìpî siano da ricercare nella natura, biologica, ecologica o etologica, né che rimandino ad un qualche stato originario della società umana. Esistono molte interpretazioni del diritto naturale (personalmente mi ritrovo piuttosto affine all'argumentation ethics di Hans-Hermann Hoppe, per quel poco che ne ho intuito) e l'unica cosa che le accomuna è essenzialmente il rifiuto che a fondamento della legge possano esserci solo la tipologia di fonti di produzione giuridica.
[※] In cui, cioè, più corpi normativi e più tribunali operano contemporaneamente e in competizione fra loro, come soggetti paritari e indipendenti. Si tratta di una possibilità tutt'altro che meramente ipotetica e teorica, anzi è precisamente la situazione corrente in contesti di diritto internazionale o di arbitrato fra privati.
[¶] Per una interessante trattazione della questione della struttura di incentivi si rimanda al capitolo 9 de Il problema dell'autorità politica di Michael Huemer, pubblicato di recente in italiano da liberilibri.
[◊] messo più per completezza espositiva che davvero per argomentare; del resto quella anarchica è una concezione del potere troppo fuori dagli schemi a cui siamo stati abituati a pensare, in cui invece l'ordine e la pace sociale potrebbero essere raggiunte soltanto attraverso l'imposizione coercitiva di un leviatano, unico e super-partes.