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30 July 2021

Physics with Giacomo Zucco

 
Scegliere fra fisica e medicina col lancio di una moneta, studiare la formulazione della relatività generale con i quaternioni, ripensare ai fondamenti della fisica... questo e molto altro in questa piacevolissima chiacchierata a ruota libera col mai banale Giacomo Zucco! — E non siate prevenuti, a dispetto del titolo si parla pochissimo di bitcoin, giusto sul finale ;)

13 February 2018

La blogosfera su Facebook

 
Sì, la blogosfera si è definitivamente spostata (e allargata, ma questo è un altro discorso) su Facebook.
«Neither superposition nor entanglement are quantum features. Thet are both a feature of wave mechanics. What makes quantum "quantum" is the collapse of the wavefunction, nothing else. Incidentally this makes quantum entanglement much more interesting and counterintuitive than its classical counterpart.»
Purtroppo non posso linkare perché — ed è questo il problema di Facebook — la conversazione è ristretta agli «amici».

02 June 2017

Higgs sulla Luna

 
Il tema è "il solito" nightmare scenario, ma uno degli elementi che rendono l'articolo interessante è il parallelo fra la "big science" della fisica delle alte energie e il programma Apollo della NASA per portare l'uomo sulla Luna. E a dir la verità la cosa interessante non è nemmeno tanto nel parallelo, ma proprio nella prospettiva con cui descrive l'impresa del volo spaziale con equipaggio, molto diversa, io credo, dall'usuale prospettiva con cui viene percepita dagli appassionati di scienza, fantascienza ed esplorazione spaziale in particolare. Una prospettiva, quella tratteggiata da Jester, essenzialmente oggettiva e tutto sommato auto-evidente, nonostante ci sia bisogno di esplicitarla per bene perché risulti evidente.
 
Finanziato nel 1961, il programma Apollo della NASA portò in soli otto anni il primo uomo sulla Luna. Tale straordinario successo, frutto di investimenti giganteschi, sembrava presagire l'alba di una nuova era nella storia dell'umanità. Non possiamo non riconoscere, oggi, che quello fu in realtà l'apice, e non l'inizio, dell'esplorazione umana dello spazio.
Terminate le missioni lunari, il programma spaziale fu ridotto e si decise di puntare su un veicolo ri-usabile capace di portare carico pesante ed equipaggio in orbita bassa: lo Space Shuttle. Per dare uno scopo a tale progetto si pensò ad una stazione spaziale, l'ISS, per la costruzione e il rifornimento della quale usare lo Shuttle. La stazione internazionale è diventata un laboratorio spropositatamente costoso in cui effettuare esperimenti in gran parte poco o punto interessanti. Le poche eccezioni, come il rivelatore di raggi cosmici AMS (Alpha Magnetic Spectrometer), avrebbero potuto essere effettuate con un lancio di un satellite indipendente ad un frazione del costo.
Sulla stazione spaziale internazionale sono stati spesi centinaia di miliardi di dollari senza obiettivi precisi e senza rilevanti progressi tecnologici o scientifici.
A margine del programma spaziale con equipaggio, NASA ed ESA hanno sviluppato una varietà di missioni indipendenti senza equipaggio: hanno lanciato sonde verso Marte, Giove, Saturno e Plutone, verso comete e asteroidi; hanno messo in orbita satelliti con sofisticati rivelatori su programmi di fisica fondamentale di grande impatto: COBE, WMAP, Plank giusto per dirne alcuni.
Tutti questi progetti sono stati di gran lunga più piccoli e più economici del programma spaziale con equipaggio umano.
 

20 December 2016

Segnalibro

 
 
Dietro un titolo abbastanza imbarazzante (Sean Carroll non è nuovo a questi registri, è sua l'espressione poetic naturalism) si cela in realtà un bel compendio (allo stesso modo Sean Carroll non è certo nuovo a insightful blogpost) di quel che ero riuscito a capire, a suo tempo, del concetto di particella in teoria dei campi e della differenza fra prima e seconda quantizzazione, che spesso si perde via nel passaggio fra il corso di meccanica quantistica e quelli di particelle (teorici o fenomenologici) o di teoria a molti corpi.
 

04 November 2016

Memristore

Two-terminal non-linear circuit elements.svg
Two-terminal non-linear circuit elements
(CC BY-SA 3.0, wikimedia)
Leggendo l'ennesima notizia di tecnologia sul web, mi capita di fare il passo falso verso wikipedia, da cui ovviamente vengo irrimediabilmente risucchiato sulla scia di una interessante scoperta.
Non ne sapevo nulla, ma mi ero fatto l'idea che il termine memristore si riferisse ad una qualche componente elettronico attivo come il transistor o ad un particolare dispositivo a stato solido di recente realizzazione fatto di circuiti integrati e tecnologia a semiconduttori, come la memoria flash.
Invece ho scoperto che si tratta di un termine squisitamente fisico e di natura teorica, e in particolare si riferisce ad un elemento elettrico passivo caratterizzato da una resistenza non costante e in particolare dipendente dall'integrale temporale della corrente che l'ha attraversato. Tale elemento completerebbe, insieme ai ben noti resistore, condensatore e induttore, uno schema di relazioni simmetriche fra le quattro variabili fondamentali di un circuito: la tensione e la corrente elettrica, e i loro integrali temporali, rispettivamente flusso magnetico e carica elettrica.
La sua formalizzazione, da parte di un ingegnere americano, Leon Ong Chua, risale al 1971 ed è rimasto un concetto puramente teorico per quasi quarant'anni senza che si conoscesse nemmeno un modello di sistema fisico che si comportasse come un memristore. Finché pochi anni fa, nel 2008, i laboratori HP pubblicano un articolo su Nature in cui forniscono un modello analitico di sistema elettronico a stato solido, basato su nanotecnologie, in cui la memresistenza emergerebbe naturalmente. In seguito, altre tecnologie alla base di memorie non volatili, anche molto diverse tra loro come la RRAM (Resistive Random-Access Memory) o la PCM (Phase-Change Memory), sono state interpretate in termini di memresistenza.
Non ho avuto modo di approfondire ulteriormente, ma sembra in realtà che ci siano critiche al concetto di memristore: non in termini fisici sul funzionamento delle varie tecnologie memristive, quanto sull'opportunità di introdurre un termine specifico per un tipo di elementi elettrici che potrebbero essere fatti semplicemente rientrare nella classe più generale di resistori non-costanti e non-lineari: in effetti i memristori, a differenza degli altri tre elementi di base, sono eminentemente non-lineari: un memristore lineare e costante non sarebbe altro che un semplice resistore. Ma è anche vero che un memristore è definito in termini del diagramma di simmetria e dunque non un qualsiasi dispositivo resistivo non-lineare rientrerebbe nella definizione: è necessaria una relazione, ancorché arbitraria, con l'andamento temporale della corrente che l'ha attraversato.
 

16 September 2016

The Strange Second Life of String Theory

Quest'ultimo articolo di Quanta Magazine, The Strange Second Life of String Theory, era nella lista di lettura, ma l'ultimo This Week’s Hype di Peter "not even wrong" Woit mi ha risparmiato la fatica.
 
 

21 July 2016

Yet another step towards the nightmare scenario

In attesa di un commento di Jester@Resonaances, Peter "Not Even Wrong" Woit ci aggiorna sui risultati annunciati oggi dall'esperimento LUX (see here, press release here) alla ricerca di segnali di WIMP (Weakly Interacting Massive Particle) — spoiler: nightmare scenario.
In chiusura linka un articolo della Simons Foundation a proposito di questo esperimento, PTOLEMY, che con un calorimetro criogenico dovrebbe misurare il fondo cosmico di neutrini. L'articolo è dell'anno scorso, ma cercando in rete pare che la caccia dovrebbe cominciare proprio quest'estate — cioè adesso — anche se i risultati non sono attesi che per il 2017.
 

06 May 2016

PR-boxes: correlazioni senza segnali superluminali più forti dell'entanglement quantistico

Spontaneous parametric down-conversion figure.png
Spontaneous parametric down-conversion
(Wikimedia Commons, the free media repository)
Conoscevo le disuguaglianze di Bell come formulazione quantitativa dell'idiosincrasia della meccanica quantistica per realismo o località; non sapevo che è concepire delle misure correlate in maniera ancora più forte di quanto lo siano misure su sistemi entangled, me mantenendo la condizione di non usare (cioè senza implicare la possibilità di inviare dei) segnali superluminali.
Debbo la scoperta ad un breve pezzo su quantumfrontiers, si tratta delle cosiddette PR-boxes e più genericamente si parla di superquantum correlations, e ovviamente viene naturale chiedersi come mai in natura si diano correlazioni più forti di quelle completamente locali, quelle dell'entanglement, ma non ancora più forti come quelle di ipotetiche PR-boxes, e se ci sia qualcosa di profondo sotto...

16 May 2014

Fluttuazioni quantistiche in cosmologia

E dopo il quantum computing (vi ricordate, no, la storia dell'epistemologia quantitativa di Aaronson, no? "Computer science" is a bit of a misnomer; maybe it should be called "quantitative epistemology") scopro che anche la moderna cosmologia — Sean Carroll, Squelching Boltzmann Brains (And Maybe Eternal Inflation) — può avere qualcosa da dire (addirittura con evidenze sperimentali? vedi le recenti misure di BICEP2) sulla natura delle fluttuazioni quantistiche e sulle diverse "interpretazioni" della meccanica quantistica.

03 April 2013

No science at all?

Devo confessare che sta cominciando a infastidirmi questo ruolo di complottista in cui mi si infila nonappena cito la scuola austriaca. Questa volta è capitato nientemeno che con Marco Delmastro.
Ora, era ovvio che la sua domanda fosse orientata non tanto all'economia in generale quanto all'econofisica, in cui si cerca di applicare modelli di meccanica statistica ad oggetti di natura prevalentemente finanziaria. Era ovvio, perché rappresenta il naturale tentativo di approccio all'economia di chi ha studiato fisica.
La mia risposta, perciò, era chiaramente fuori tema e volutamente provocatoria (per questo mi sono affrettato a precisare che l'àmbito del mio suggerimento di lettura non era né la finanza né tantomeno l'econofisica).
Però la sua risposta non è stata del tipo: "ok, ma mi interessava altro", bensì del tipo: "ma quelle sono solo una serie di opinioni, non è punto scienza!".
 
Nel lungo thread Metodo e spiegazione scientifica mi sono già dilungato in chiave epistemologica sul problema della demarcazione e sulle sue "applicazioni" in ambito sociologico, in generale, ed economico in particolare.
In questo post mi limiterò pertanto a qualche osservazione più superficiale, per suggerire che, anche senza passare, con Quine, sul cadavere di Popper, è possibile accorgersi che c'è qualcosa di profondamente ingenuo, se non di palesemente sbagliato, nell'idea che sia sufficiente, in qualsiasi campo, applicare i metodi della fisica o della matematica per ottenere (finalmente?) risultati "scientifici": e l'economia non fa eccezione affatto.
 
Innanzitutto va sottolineato che la meccanica statistica, per definizione, non affronta la natura dei sistemi a cui è applicata: questo è il motivo della sua estrema versatilità ed efficacia, ma è anche il suo limite epistemologico. Il suo approccio è precisamente quello di dedurre la fenomenologia macroscopica a partire da pochi principi microscopici (simmetrie e località delle interazioni), da alcune assunzioni di casualità (giustificate da considerazioni ora di ergodicità classica, ora di intrinseca stocasticità quantistica) e dal loro "scalare" con le dimensioni del sistema (e.g. equilibrio infrarosso, flusso di rinormalizzazione, transizioni di fase, etc...). E' dunque ingenuo pretendere di riuscire a capire l'economia attraverso la meccanica statistica e, anzi, un suo eventuale successo descrittivo, predittivo persino, sarebbe soltanto la prova che il sistema non contiene forzanti macroscopiche rilevanti e che la sua evoluzione è essenzialmente governata dalle leggi browniane del random-walk: quasi, dal punto di vista del fisico, la prova che non c'è niente di realmente interessante. E infatti di solito i modelli fisico-matematici applicati alla finanza sono efficaci precisamente nei periodi "di calma piatta", quando, cioé, non ci sono "forze" su scala macroscopica e l'andamento è davvero governato dalla casualità microscopica. Se questo è tutto quello che si chiede, ben venga l'econofisica. Ma non parliamo, per favore, di capire l'economia.
Se, d'altra parte, un analisi più specifica delle dinamiche economiche porta ad escludere quasi a priori la possibilità di descrizioni e previsioni quantitative (rivoluzione marginalista, soggettività del valore, assenza di equilibrio per "everchanging landscape"), non la si deve necessariamente considerare una prova di non-scientificità, proprio come la scientificità dell'evoluzione darwiniana non viene minimamente scalfita dal fatto che non si possano prevedere tempi e modi delle prossime speciazioni.
Del resto quali breakthrough ha portato l'econofisica all'economia? Si è forse riusciti a prevedere questa crisi apocalittica che dal 2008 ancora non ci fa vedere la luce fuori dal tunnel? Forse che le dinamiche che l'hanno determinata non erano quelle messe in conto dalle modellizzazioni meccanico-statistiche? Ma più in generale ancora, al di là dell'econofisica, quali sono i breakthrough dell'economia tout court? E' riuscita forse lei, anche senza meccanica statistica, a prevedere questa crisi? O non è forse stato proprio il suo approccio keynesiano a causarla? Non vorrei ripetere cose già dette, ma dov'è tutta questa "scientificità" dell'economia, se le diverse scuole non sono d'accordo su niente, se le varie teorie, pezzi sconnessi senza puzzle, si succedono come mode senza alcun percorso, senza alcuna "crescita" di conoscenza?
 
E allora io non so su quali basi Marco si sia fatto l'idea che la scuola austriaca non sarebbe scientifica: davvero gli è bastata la ridotta presenza di matematica? o forse si è basato sul fatto che venga generalmente considerata eterodossa, e dunque, evidentemente, non scientifica, da neoclassici e keynesiani, sedicenti scientifici?

24 November 2012

Le teorie di calibro di Weyl /sequel

Dice Sean Carroll nel suo post di Thanksgiving 2012:
[...] it’s called a gauge field, because Hermann Weyl introduced an (unhelpful) analogy with the “gauge” measuring the distance between rails on railroad tracks.
Ma dove diavolo avrà letto di questa presunta, unhelpfull, metafora della distanza fra le rotaie di una ferrovia? Forse da uno dei significati comuni del termine gauge?
Mi toccherà tradurre in inglese il mio post Le teorie di calibro di Weyl?

20 November 2012

   [5] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

[0][1][2][3][4][5][6][7][8][9]
(...continua)
§  Quine
Allora, come ripetuto altre volte su questo blog, dopo Quine non abbiamo più un criterio di demarcazione semplice à la Popper: né experimentum crucis, né una metodologia universale. L'esempio paradigmatico della fisica quale hard science rappresenta solo il caso in cui le cose sono più facili.
L'astronomia e persino la cosmologia, pur senza esperimenti ripetibili e dunque senza una reale possibilità di falsificazione popperianamente intesa, non hanno alcun complesso di inferiorità rispetto alla fisica di laboratorio e godono invece spesso di un grado di affidabilità e scientificità molto maggiore di altri ambiti più fenomenologici della fisica, nonostante in questi ultimi sia possibile applicare metodologie sperimentali più squisitamente galileiane.
L'evoluzionismo darwiniano, nella sua accezione più ampia in contrapposizione a framework completamente diversi (uno per tutti, il disegno intelligente), gode di assoluta scientificità non certo per un singolo esperimento cruciale o per l'uso di una metodologia assimilabile, fosse anche in senso molto lato, a quella del fisico: i motivi per cui, indiscutibilmente, rappresenta un pilastro della nostra immagine scientifica del mondo vanno ricercati, contemporaneamente ed inestricabilmente, nella sua aderenza al dato empirico su un fronte vastissimo (fisico, chimico, biologico, ecologico, paleontologico, etc...) e nella sua potenza esplicativa, ovvero nella sua capacità di riunire in un unico schema concettuale quella immensamente variegata fenomenologia.
Queste solide ragioni — nessuna, da sola, cruciale, nessuna puramente empirica e nessuna puramente teorica — rappresentano quello che Quine chiama il tribunale dell'esperienza, a cui le nostre teorie si sottopongono non per singole affermazioni ma come un tutt'uno (olismo epistemologico). E la forza di quelle ragioni sta precisamente nel loro perfetto inserirsi nel quadro complessivo della nostra immagine del mondo; la loro forza risiede nel fatto che una loro revisione ci costringerebbe a modificare profondamente e/o ampiamente il resto della nostra immagine del mondo.
(continua...)

12 November 2012

Le teorie di calibro di Weyl

Post per Delio, questo, chissà se mi legge ancora,
dopo tutta questa serie di post su Quine, prima, e sugli austriaci, poi,
che hanno fatto evaporare quasi completamente la fisica
da questo, un tempo rispettabile, bel blog di fisica (bontà sua…).
Questo recente post di Peppe Liberti su Focus.it, Il circolo di Weyl, mi ha ricordato la storia dell'origine del termine gauge usato oggi per indicare le teorie di campo con simmetria (interna e) locale. Non ricordo più dove la lessi, forse sul Gravitation di Wheeler. Non pare sia una cosa molto nota, fra i fisici, e tutto sommato giustamente, visto che si tratta di una curiosità storica. Ma era una storia che mi aveva colpito, per l'idea molto suggestiva di un'estensione della simmetria della relatività dalla sola rotazione della tetrade alla sua "scala", e così provo a riportarla qui per i miei strenui lettori. Non che sia chissà quale segreto, la pagina di wikipedia sulle teorie di gauge, sia in italiano che in inglese, riporta tutto e più di quel che ricordi io stesso.
 
Avevo già avuto modo di parlarne quasi cinque anni fa — vi ricordate, quando ancora esistevano i blog? — in calce a questo post di Lap(l)aciano, Simmetrie di gauge (II). Si disquisiva di quale fosse, storicamente, la prima teoria di guage in assoluto. La domanda non fa distinzione fra questioni semantiche e questioni nominali, e la risposta è costretta a dover distinguere.
Fra le teorie che oggi chiamiamo "di gauge", quella che fu formulata storicamente per prima fu la teoria di Maxwell per l'elettrodinamica classica, ma, quando fu formulata, il termine "simmetria di gauge" non esisteva ancora e la simmetria delle equazioni di Maxwell era espressa in termini di una funzione di trasformazione per i potenziali scalare e vettore che lasciavano inalterati i campi elettrici e magnetici (cfr. Gauge fixing).
La prima teoria formulata esplicitamente come teoria di campo con una simmetria "locale" è stata la relatività generale, ma anche in quel caso, nella formulazione originale di Einstein, la simmetria di gauge era in realtà espressa come principio di covarianza generale, ovvero come simmetria rispetto ad un'arbitraria trasformazione (differenziale) di coordinate. Fu appunto Weyl ad elaborare un formalismo alternativo ma equivalente, quello delle tetradi, in cui il principio di covarianza poteva essere interpretato come una simmetria rispetto ad un'arbitraria rotazione, locale, della base del fibrato tangente. Ma nemmeno in questa formulazione, ancora, si usa il termine gauge. Il termine gauge viene introdotto però in quello stesso momento, dallo stesso Weyl appunto, nel tentativo di estendere tale formalismo per spiegare anche l'elettromagnetismo di Maxwell in termini geometrici, come la relatività di Einstein spiegava la gravità. L'idea suggestiva di Weyl era quella di estendere la simmetria della teoria di campo non solo alla rotazione della tetrade ma anche alla sua "dimensione", alla lunghezza dei vettori della base. Ecco il motivo del termine gauge, calibro, a richiamare l'idea di una misura di lunghezza.
Purtroppo il tentativo, in questo preciso approccio, non funzionò. Ma l'idea fu feconda: l'elettromagnetismo poteva davvero essere interpretato come una teoria di campo con simmetria locale, solo che bisognava restare attaccati al concetto di simmetria per rotazioni, come quella delle tetradi, ed abbandonare invece il concetto che la simmetria dovesse riguardare lo spaziotempo o il suo fibrato "naturale". Il quadripotenziale di Maxwell andava infatti interpretato come il generatore di Lie di una simmetria rispetto alla rotazione della base di un ulteriore fibrato "astratto". A dispetto del cambio di contesto, il nome restò, e da allora per le teorie di campo si parla di simmetria di gauge tutte le volte che c'è invarianza rispetto ad una trasformazione locale di un generico gruppo, generalizzando il caso del gruppo delle rotazioni. Tutte le interazioni fondamentali, in particolare, sono interpretate come l'effetto di una simmetria di questo tipo rispetto a gruppi di simmetria associati alle cariche dell'interazione (elettrodebole e di colore).
 
Ma la morale di questa storia non è solo di carattere storico ed etimologico.
Nei corsi di teoria dei campi il concetto di simmetria di gauge viene presentato come "promozione" a simmetria locale di una simmetria globale. L'esempio classico è proprio quello della fase e della funzione d'onda a cui si assegna una dipendenza dalle coordinate spaziali: eiφ(x). La "potenza" di tale estensione è evidente, visto che è sufficiente questa sola richiesta di "località" della simmetria per dedurre, via accoppiamento minimale, le equazioni di Maxwell per l'interazione elettromagnetica. Ma la cosa sembra un po' piovere dal cielo: perché mai dovremmo inventarci questa dipendenza puntuale della simmetria? Oltretutto tale estensione viene interpretata come una richiesta "più forte" di simmetria, visto che la classe di trasformazioni rispetto alla quale la teoria deve restare invariata è più ampia. Ebbene, le motivazioni di Weyl che portarono alla formulazione delle teorie di "gauge" mettono in luce la vera natura della richiesta di "località" della simmetria, da ricondurre, in fondo, al principio di covarianza generale.
Quando Einstein richiede che le equazioni della fisica siano invarianti rispetto ad una qualsiasi trasformazione di coordinate, sta effettivamente richiedendo una simmetria più forte di quella che fossero invarianti solo per trasformazioni inerziali. Ma il senso di tale richiesta è l'esatto opposto di quello di imporre una condizione più stringente, ed è quello, appunto, di rilasciare un vincolo, arbitrario, per il quale una classe particolare di sistemi di riferimento avrebbero avuto un fiocco rosso. Allo stesso modo la richiesta che la teoria di gauge abbia una simmetria locale va interpretata come la rinuncia al vincolo per cui la base dell'algebra del gruppo sia orientata rigidamente dappertutto.
Così, come il campo gravitazionale è un effetto inerziale dovuto alla necessità di dover "connettere" (nel senso tecnico di geometria differenziale del termine) due punti distinti non necessariamente reciprocamente inerziali, allo stesso modo l'elettromagnetismo è un effetto che potremmo dire "U(1)-inerziale" dovuto alla necessità di dover "connettere" due punti distinti che non necessariamente hanno la base dell'algebra (la fase) "orientata" allo stesso modo.

23 March 2011

Perché volano gli aerei

Quello del perché gli aerei sono in grado di alzarsi in volo è un fenomeno davvero curioso. Dal punto di vista sociologico, intendo, e sarebbe davvero interessante riuscire a ricostruire quando è nata, e come, e che trasformazioni ha subito la leggenda metropolitana della spiegazione bernoulliana, per così dire, della portanza esercitata dalle ali.
Non ne ho le capacità — ma magari basta solo cercare bene su internet per scoprire che qualcuno ha già fatto questa ricostruzione — e in questo post proverò invece solo ad esporre il vero meccanismo che riesce a sollevare da terra un corpo più pesante dell'aria. Non che abbia avuto io la capacità di scoprirlo, questo meccanismo, o anche solo di smantellare la plausibilità di quello bernoulliano (per quanto, a posteriori, abbia tutta l'aria dell'uovo di Colombo).
Anzi, vi anticipo subito i link a un paio di articoli disponibili online che ho usato come spunto e riferimento per quel che segue: il primo, How Airplanes Fly: A Physical Description of Lift (© Aviation Models, From Sport Aviation, Feb. 1999), in inglese, mi è stato suggerito ormai qualche anno fa dal buon KTF, ed è proprio quello leggendo il quale ho scoperto "la verità"; il secondo è un divertente articolo di Jef Raskin, Effetto Coanda, tradotto in italiano e pieno di esperimenti che potete riprodurre molto facilmente con attrezzatura minima e facilmente reperibile.
 
Ma entriamo nel merito, partendo dalla risposta sbagliata: secondo la spiegazione bernoulliana la portanza sarebbe generata dalla differenza di pressione che si instaura fra i due lati del profilo alare in conseguenza del fatto che la velocità dell'aria sarebbe maggiore al di sopra che al di sotto dell'ala. Sono molti i modi per accorgersi dell'insufficienza, se non dell'inconsistenza, di tale spiegazione (vi lascio all'articolo in inglese citato prima per i dettagli tecnici) e vanno dalla forma del profilo dell'ala (che dovrebbe assomigliare ad un goffo panettone ben lontano da qualsiasi idea di aerodinamicità) alla confutazione sperimentale del principio degli "uguali tempi di percorrenza" dell'aria, al di sopra e al di sotto dell'ala (che, curiosamente, è falso nel senso che la velocità al di sopra è maggiore di quella al di sotto molto più di quanto si dedurrebbe da tale principio, e tuttavia la differenza di pressione che ne seguirebbe non sarebbe comunque sufficiente a sollevare l'aereo). L'articolo in inglese, tra l'altro, ipotizza che la popolarità della spiegazione bernoulliana sia dovuta alla sua semplicità, ma a me la spiegazione in termini di differenza di pressioni non è mai parsa semplice (il principio di Bernoulli si applica in tubi di flusso definiti, e non è affatto ovvio che la colonna d'aria sovrastante l'ala possa ricadere in quell'approssimazione), e comunque, a posteriori, il confronto con la spiegazione "vera" è drammaticamente schiacciante: sia in termini di mera semplicità (i concetti tirati in ballo non richiedono quasi per niente conoscenze di fluidodinamica e si basano invece su elementari nozioni di dinamica newtoniana, disponibili già dopo il primo anno di fisica delle superiori e comunque esprimibili in maniera intuitiva anche a chi non ha alcuna conoscenza di fisica elementare) e sia in termini di potenza esplicativa (dal meccanismo di base di generazione della portanza è possibile giustificare molte caratteristiche elementari dei profili alari — ad esempio che sopra le ali non potete metterci niente, mentre sotto potete piazzarci motori, carico e bombe, oppure che è possibile il volo acrobatico rovesciato, in cui lo stesso profilo alare è in grado di generare, a richiesta, portanza in entrambi i versi, cosa impossibile secondo la spiegazione bernoulliana — e con poca ed elementare matematica da scuola superiore è possibile addirittura comprendere in maniera chiara alcuni elementi fondamentali del volo aereo: l'importanza assoluta dell'angolo di attacco, il fenomeno dello stallo, il meccanismo di regolazione della portanza tramite i flap, la questione della potenza, e quindi dell'energia, necessaria per il decollo e quella per il mantenimento della velocità di crociera...).
Invece la spiegazione bernoulliana resta popolarissima e viene utilizzata addirittura in alcuni manuali di volo. Persino nella pagina di wikipedia dedicata all'effetto Coanda, lo si descrive come un effetto "curioso" che potrebbe essere usato per costruire qualche "bizzarro velivolo" (e che verrebbe effettivamente usato da un particolare tipo di aereo)... per non parlare delle Yahoo!Answers, in cui anche quando la domanda va nella direzione giusta, perché gli aerei volano anche capovolti?, la risposta torna indietro "epiciclicamente" al paradigma bernoulliano.
 
Ma passiamo alla vera ragione per cui gli aerei sono in grado di volare.
Per farla breve, le ali sono in grado di deviare verso il basso l'aria che incontrano nel loro moto orizzontale; per la conservazione della quantità di moto (o, se volete, per il principio di azione e reazione), le ali (e con esse l'aereo) sono spinte in direzione contraria, verso l'alto.
Sì, va bene, ora cercherò di convincervi che le cose stanno proprio così.
Solitamente si disegna il flusso dell'aria come semplicemente "solcato" dal profilo dell'ala, con l'aria che riprende il suo flusso orizzontale dopo aver superato l'ala. In realtà quel che succede è che l'aria aderisce alla superficie alare essenzialmente per viscosità e, grazie alla forma e sopratutto all'inclinazione del profilo alare, ne risulta deviata verso il basso.

fonte: wikipedia, licenza CC-BY-SA-2.5.
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La spiegazione dettagliata del meccanismo di deviazione dell'aria si basa sulla viscosità dell'aria che la fa aderire all'ala e, per successivo moto laminare, provoca una "rotazione" del flusso degli strati d'aria che sovrastano quello a contatto con l'ala, rotazione che asseconda il profilo e l'inclinazione dell'ala stessa.
In maniera meno formale, ma più immediatamente esperibile, l'effetto può essere "toccato con mano" nel famoso esperimento del cucchiaio: prendete un cucchiaio per l'estremità del manico e tenetelo "a testa in giù", a mo' di pendolo, in modo che possa oscillare liberamente in direzione ortogonale alla superficie incurvata della "testa" del cucchiaio. Avvicinate dunque il cucchiaio in questa posizione al flusso d'acqua di un rubinetto in modo che la testa del cucchiaio vada a sfiorare il getto d'acqua con la sua parte convessa, sul lato "esterno". Quel che succederà è che, non appena il cucchiaio sfiorerà l'acqua, questa aderirà a quello e, seguendone il profilo, verrà deviata dal suo moto verticale in direzione del lato concavo, dalla parte della sua faccia interna.
L'esperimento è estremamente efficace perché si percepisce immediatamente, sotto le proprie dita, la forza che solleva in maniera evidente il cucchiaio, libero di oscillare in quella direzione, proprio nel verso opposto alla deviazione del flusso dell'acqua.
Ora: la spiegazione del meccanismo di adesione superficiale, certo, potrà essere di una certa complessità (ma non così elevata da essere surclassata dal principio di Bernoulli: in alcuni licei, senza bisogno di aspettare un corso universitario, il moto laminare viene introdotto facilmente come primo raffinamento del modello del fluido perfetto per fluidi debolmente viscosi), ma una volta preso per buono (eventualmente anche solo "empiricamente" con un esperimento come quello del cucchiaio), è sufficiente a spiegare, con elementi minimi di dinamica newtoniana, quasi tutti gli elementi più caratteristici degli aerei e del loro volo, ed è addirittura sufficiente per una stima non solo qualitativa ma addirittura quantitativa, seppur approssimata, di molte grandezze fisiche coinvolte.
 
Torniamo infatti all'aereo.
Per il pilota l'aria defluirà dalle ali essenzialmente lungo la direzione dell'angolo di attacco, per un osservatore a terra invece l'aria defluirà in direzione verticale: del resto questo è proprio quello che si percepisce davanti a un ventilatore, sotto un elicottero o dietro le turbine di un motore: le pale, infatti, non sono altro che ali rotanti!
Aumentando l'angolo di attacco delle ali, essenzialmente la loro inclinazione, si aumenterà la velocità verticale dell'aria uscente dall'ala, mentre aumentando la velocità orizzontale dell'ala aumenterà la quantità di aria deviata ogni secondo. In entrambi i casi, l'effetto sarà quello di aumentare la portanza.
Proviamo ad essere più quantitativi.
Per la conservazione della quantità di moto, solo per tenere sospeso un aereo di massa m (cioè per avere una spinta di portanza pari proprio a mg, con g l'accelerazione di gravità), è necessario spingere verso il basso, ogni secondo, una quantità d'aria M ad una velocità v tale per cui Mv = mg (per chi ha qualche dubbio, ho semplicemente considerato nulla la velocità iniziale dell'aria, per cui la quantità di moto finale dell'aria è pari proprio alla variazione di quantità di moto; per l'equazione di newton, proprio nella sua formulazione originale, questa è pari alla forza; se l'equazione non vi torna dimensionalmente, è perché la dipendenza temporale è nascosta: a sinistra M è un M(Δt) e a destra invece bisognerebbe scrivere più completamente mg Δt).
Ad esempio un Cessna 172 di circa una tonnellata di peso viaggia a velocità di crociera di circa 200 km/h; ipotizzando che spinga aria verso il basso a circa 15 km/h, dovrebbe spingere qualcosa come 2 tonnellate e mezza d'aria al secondo. A 200 all'ora percorre, in un secondo, una cinquantina di metri abbondanti, per un'apertura alare dell'ordine della decina di metri fanno circa 500 metri quadri; considerando la densità dell'aria di 1.2 kg al metro cubo, viene fuori che quelle due tonnellate e mezza su quei 500 metri quadri corrispondono ad uno spessore verticale di oltre 4 metri: le ali, cioè, spingono verso il basso, in media, ben 4 metri d'aria sopra di esse!
Sono conti "spannometrici", ci sta benissimo un fattore due o tre "d'approssimazione", ma con tutta quest'aria da tirar giù appare ancora più incredibile tornare indietro ad una spiegazione "di superficie" come quella bernoulliana.
 
La portanza come reazione alla deviazione d'aria verso il basso è una spiegazione "semplice", così semplice che c'è molto spazio per raffinamenti, ad esempio le turbolenze ai bordi dell'ala, che rendono rilevante, oltre all'angolo di attacco, anche la forma del profilo dell'ala e dunque un'analisi matematica avanzata di fluidodinamica come quella citata dal risponditore di Ulisse. Ma il principio di base, nella sua semplicità, permette altrettanto semplici spiegazioni di molte caratteristiche del volo aereo.
Cominciamo, ad esempio, col considerare come riferimento l'angolo d'attacco corrispondente ad una portanza pari proprio al peso dell'aereo e col definire un "angolo di attacco efficiente" come l'angolo formato dall'ala rispetto a quell'angolo di riferimento: ebbene, si trova proprio che la spinta verso l'alto o verso il basso è direttamente proporzionale a questo angolo efficiente, indipendentemente dalla specifica forma del profilo dell'ala!
Il pilota, ad esempio ancora, agisce essenzialmente sull'angolo di attacco per adeguare la portanza in risposta all'aumento di velocità dell'aereo (riducendo l'angolo per compensare l'aumento di portanza dovuto alla maggior quantità d'aria deviata), di quota (aumentando l'angolo per compensare il ridotto peso dell'aria deviata per la riduzione della densità dell'aria con l'aumento di quota) o semplicemente per richiedere più o meno spinta per salire o scendere di quota. Secondo la spiegazione bernoulliana, che si concentra solo sulla forma del profilo dell'ala, l'unica variabile che il pilota potrebbe controllare sarebbe la velocità orizzontale.
Aumentando troppo l'angolo di attacco, però, la forza di adesione a un certo punto non è più sufficiente a deviare l'aria lungo il profilo dell'ala, l'aria quindi smette del tutto di essere deviata verso il basso e la portanza bruscamente si riduce: è lo stallo!
Il fatto, poi, che l'aria venga deviata verso il basso seguendo il profilo superiore dell'ala spiega anche come mai sotto le ali gli aerei possono sbizzarrirsi ad avere ammenicoli di ogni tipo, dalle dimensioni certamente rilevanti dal punto di vista aerodinamico, ma, per quello che abbiamo detto, dagli effetti del tutto trascurabili dal punto di vista della portanza (avete mai visto un aereo con le turbine dei motori sopra le ali?).
Per non parlare del volo rovesciato, un'impossibilità totale per la spiegazione bernoulliana, che è invece possibile "semplicemente" gestendo opportunamente l'angolo di attacco dell'ala invertita.
 
Anche dal punto di vista energetico sono sufficienti considerazioni piuttosto elementari per rendere conto delle caratteristiche principali del volo aereo.
Prima di incontrare l'ala, l'aria può considerarsi immobile, per cui la sua energia cinetica finale dopo essere stata deviata verso il basso puó essere considerata essenzialmente come l'energia necessaria a generare la portanza. La potenza, che non è altro che l'energia da fornire ogni secondo, dipende dunque linearmente dalla quantità d'aria deviata ogni secondo (che a sua volta è direttamente proporzionale alla velocità orizzontale dell'aereo) e dipende quadraticamente dalla velocità verticale dell'aria deviata. La portanza stessa, invece, avevamo detto, dipende in modo lineare tanto dalla quantità d'aria deviata ogni secondo quanto dalla velocità verticale dell'aria deviata. Da ciò discende immediatamente un interessante corollario: se raddoppiamo la velocità di crociera dell'aereo, raddoppiamo la quantità d'aria deviata verso il basso, e dunque dobbiamo ridurre l'angolo di attacco in maniera da deviare l'aria verso il basso con velocità dimezzata (il peso dell'aereo, infatti, che stabilisce la portanza richiesta, non cambia). La potenza necessaria al volo, dunque, si dimezza! Al limite, andando abbastanza veloci si può ridurre la potenza richiesta a livelli trascurabili!
Il fatto, però, è che anche andare veloci richiede energia. Quella che abbiamo considerato finora è solo l'energia necessaria a generare portanza, ossia a sollevarci dal suolo. Come succede anche nel caso del moto sulla terraferma, per esempio per le automobili, il dover farsi largo attraverso un mezzo resistente come l'aria richiede energia e in particolare la potenza necessaria a mantenere una certa velocità è proprorzionale al cubo della velocità: semplificando e sintetizzando al massimo, la forza d'attrito è proporzionale alla quantità di moto relativa dell'aria che si incontra; raddoppiando la velocità, la quantità di moto dell'aria che si incontra quadruplica (raddoppia la velocità relativa e raddoppia la massa d'aria incontrata ogni secondo); ogni secondo, dunque, bisogna vincere una forza quattro volte maggiore per effettuare uno spostamento doppio (la velocità è raddoppiata), ovvero è necessaria una potenza otto volte maggiore.
Insomma, per volare è necessario fornire potenza per la portanza (inversamente proporzionale alla velocità di avanzamento) e potenza per avanzare (direttamente proporzionale al cubo della velocità).
A basse velocità, dunque, domina il termine di portanza: la potenza necessaria per sollevarsi e l'angolo di attacco sono considerevoli; a velocità più alte, alzarsi di quota diventa molto più "facile" che aumentare di un po' la velocità di crociera stessa.
Simili argomenti giustificano anche il design diverso di aerei fatti per volare a velocità relativamente basse rispetto a quelli progettati per velocità di crociera più elevate. Se, ad esempio, raddoppiamo la lunghezza dell'ala, raddoppiamo la quantità d'aria deviata ogni secondo, e dunque possiamo ridurre l'angolo di attacco in modo da dimezzare la velocità verticale di uscita dell'aria deviata. Analogamente a quanto detto sopra, la potenza necessaria per la portanza risulta così dimezzata. Al limite, un'ala infinitamente lunga non richiede energia per sollevarsi. Un'ala più lunga, però, deve vincere una resistenza maggiore contro l'aria che incontra. Per questo, dunque, aerei progettati per viaggiare a basse velocità in genere hanno fattori di forma che accentuano l'apertura alare, per ridurre la potenza necessaria alla portanza, dominante a basse velocità, mentre aerei "veloci" hanno in genere ali più corte, per ridurre l'attrito che domina i consumi a velocità elevate.
 
Insomma, la spiegazione di bernoulli pretendeva di spiegare qualitativamente la portanza con un meccanismo "semplice", ma nonappena lo si prendeva un minimo sul serio emergevano dubbi e perplessità (davvero l'aria percorre i due lati dell'ala in tempi uguali? e che forma deve mai avere l'ala per generare portanza a sufficienza?).
Qui invece abbiamo un meccanismo semplice, di meccanica newtoniana, capace di giustificare non solo qualitativamente, la portanza, ma anche quantitativamente, fornendo l'ordine di grandezza giusto per molte quantità fisiche in gioco e giustificando, con una serie di semplici corollari, molte caratteristiche degli aerei e del volo aereo.
 
A posteriori è davvero incredibile come mai fatichi a diventare patrimonio comune un meccanismo così semplice e allo stesso tempo così potente, capace, cioè, di fornire un quadro teorico essenzialmente completo entro cui interpretare la dinamica del volo.

04 January 2011

La teoria endosferica del campo o Sistema cosmocentrico

«Facciamo un esempio semplice. Supponiamo, come nell'ipotesi della contrazione di Fitzgerald, che le lunghezze in una direzione siano più brevi che in un altra direzione. [...] Una simile ipotesi ha qualche significato? [...] Per scoprire il mutamento avvenuto non si può far ricorso ai normali sistemi di misurazione: bisogna ricorrere ai metodi del tipo dell'esperimento di Michelson e Morley, in cui per misurare le lunghezze si impiega la velocità della luce. Poi resta ancora da decidere se è più semplice supporre un mutamento della lunghezza o un mutamento della velocità della luce. Il dato sperimentale è che la luce, per percorrere quella che lo strumento di misura indica come una data distanza, ci mette di più in una direzione che in un'altra; oppure, come nell'esperimento di Michelson e Morley, che dovrebbe metterci di più e invece non lo fa. Potete adeguare in varie maniere le misure ad un fatto del genere; qualunque sistema scegliate, vi sarà sempre un elemento di convenzione. Questo elemento convenzionale sopravvive nelle leggi alle quali si arriva dopo aver preso una decisione in merito alle misure, e spesso assume forme sfuggenti ed elusive. Eliminare l'elemento convenzionale è, in realtà, straordinariamente difficile; quanto più l'argomento viene approfondito, tanto maggiore appare la difficoltà da superare.»
Non ho resistito alla tentazione di iniziare con alcune delle parole con cui Bertrand Russell accenna, nel suo bellissimo L'ABC della relatività, alla sottile questione della geometria dell'universo (il corsivo nella citazione è mio). L'elemento centrale per quanto discuterò è l'inevitabile presenza di elementi arbitrari in tale procedura, fatto da tenere sempre presente quando si voglia capire com'è fatto il mondo indipendentemente da come noi possiamo (o vogliamo) raffigurarcelo.
Russell, essendo in tema di relatività generale, fa riferimento alla geometria dello spazio-tempo. Per semplificare un po' e per avvicinarci alla questione che discuteremo, possiamo pensare alla geometria del solo spazio. Bianca Sangiorgio e Roberto Ceriani, in Modelli e Realtà 1 – La fisica e l'arte di comprendere il mondo, scrivono:
«Due sole sono le strade possibili, ed entrambe basate su assunzioni di carattere non sperimentale.
  • Il fisico può scegliere liberamente le regole per misurare gli intervalli spaziali. Una volta fatta questa scelta, la struttura geometrica dello spazio fisico va determinata sperimentalmente. [...]
  • Il fisico può scegliere liberamente la struttura dello spazio fisico, ma allora deve modificare le regole e gli strumenti di misurazione sulla base dei fatti empirici. [...]
Qualunque sia la strada scelta è chiaro, comunque, che alla base vi è una scelta di tipo convenzionale.
Dovremo allora dire che la geometria dello spazio fisico non è solo il risultato dell'esperienza, ma dipende anche dalla convenzione che scegliamo di utilizzare. In altre parole il mondo ci appare dipendere, in qualche modo, da come noi ci immaginiamo esso sia.»
Classicamente ("quotidianamente") si assume che il mondo sia di tipo euclideo e che la lunghezza degli oggetti non cambi al cambiare della posizione dell'oggetto stesso, e questa assunzione rende bene conto della nostra esperienza. In effetti, però, se pensassimo lo spazio fisico in maniera "non euclidea", potremmo ugualmente rendere conto dei dati dell'esperienza adeguando i regoli di misura alla nostra scelta di geometria per lo spazio. Se ad esempio supponessimo, con Russell, che un regolo millimetrato puntato verso nord sia lungo solo la metà dello stesso regolo puntato verso est e che la stessa cosa sia vera per tutti gli altri corpi, riusciremmo a dar conto dell'esperienza esattamente nella stessa misura con cui ci riusciamo classicamente: dovremmo solo dire che il regolo non è un buono strumento di misura della "vera" lunghezza dei corpi perché cambia lunghezza "vera" in relazione alla sua inclinazione, ma poi, poiché ci interesserebbero solo le lunghezze "false" misurate da quello stesso regolo, agiremmo quotidianamente allo stesso modo di come agiamo di fatto.
Resici conto di ciò, eviteremo così di spaccarci la testa nella ricerca della "vera" lunghezza spaziale dei corpi e limiteremo le nostre indagini agli elementi non arbitrari della descrizione del mondo.
 
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Da qualche parte, nella mia memoria, giaceva tutto impolverato il ricordo di una lezione di fisica in prima liceo in cui, en passant, all'interno di un discorso ormai sommerso dall'oblio, il mio professore — quello stesso Roberto Ceriani di Modelli e realtà — menzionava una curiosa dottrina cosiddetta "del mondo cavo" secondo cui la Terra era sì sferica e non piatta, ma tale per cui le valli e i monti che noi abitiamo sono rivolti all'interno della superficie sferica, interno che contiene tutte le stelle e le nuvole e i fenomeni che sovrastano i nostri capi. Io credetti, e ancora credevo fino a qualche giorno fa, che trattavasi di idee propugnate in un passato poco recente, paragonabili alle concezioni alchemiche di pietre filosofali o elisir di lunga vita.
Giaceva — questo ricordo — tutto impolverato in qualche meandro della mia memoria di cui ignoravo completamente anche l'esistenza, quando m'imbattei per caso, girovagando com'è mio solito per la biblioteca della facoltà di Fisica, in un libro di un tale Paolo Emilio Amico-Roxas intitolato Il problema dello spazio e la concezione del mondo — La teoria endosferica del campo o Sistema cosmocentrico. Sfogliando le tavole raccolte in appendìce, mi ritrovai a osservare un disegno in cui si riproduceva un paesaggio della terra concava e lo si metteva a diretto confronto con una riproduzione più consueta dello stesso paesaggio, convesso. Non ci volle molto perché, in un attimo, tornassi ad essere consapevole di quel meandro della memoria, lo spesso strato di polvere fosse rimosso e il remoto ricordo riaffiorasse dall'oblio. Subito pensai che in quel libro si stesse citando la dottrina "del mondo cavo", ma una nuova occhiata al titolo e una breve scorsa all'indice mi convinsero subito che quel libro pretendeva di difendere tale concezione del mondo. E risaliva a nientepopodimeno che il 1960!
Come si poteva pensare che la Terra fosse incurvata verso l'alto, tre anni dopo il lancio del primo Sputnik? Come si poteva pensare che la Luna fosse contenuta all'interno della Terra, l'anno dopo che una sonda si schiantava sul nostro satellite naturale e un'altra ci mandava le prime immagini del suo lato nascosto?
Non ci pensai due volte, e decisi che avrei letto quel libro.
 
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Facciamo un altro esempio. Consideriamo una superficie sferica di centro O e raggio r in uno spazio euclideo tridimensionale ordinario. Essa determina una suddivisione dello spazio in due regioni: quella interna e quella esterna. Esiste una semplice trasformazione geometrica che mette in corrispondenza ogni punto interno alla sfera con uno e un solo punto esterno (in realtà ne esistono molte, ma consideriamone una, per semplicità: quella che mette in corrispondenza ad un punto P a distanza d da O, il punto P' che giace sulla retta PO, e che dista r²/d da O). In questa trasformazione il punto O non trova corrispondente nello spazio (viene mandato all'infinito), ma si tratta di un particolare irrilevante. Inoltre la trasformazione, pur essendo continua, non preserva le distanze: la lunghezza di un regolo, fisso nello spazio di partenza, assume nello spazio di arrivo valori che dipendono dalla distanza dal centro della sfera cui viene posizionato. In questa trasformazione la superficie sferica considerata è un luogo di punti uniti (cioè i punti della sfera vengono mandati in se stessi dalla trasformazione).
Identificate, ora, la sfera con la superficie della Terra: cosa avete ottenuto? La trasformazione di "inversione" che abbiamo descritto muove all'esterno della Terra tutti i punti interni e viceversa! Ecco l'idea geniale: spiegare la teoria "del mondo cavo" con una trasformazione geometrica che connetta lo spazio euclideo normalmente esperito con quello invertito della teoria che si intende difendere! La "vera" geometria dell'universo è quella che concepisce la Terra cava con il suolo che si estende all'infinito sotto i nostri piedi e il cielo che si ritrova racchiuso dalla Terra stessa nel volume di una sfera finita. Come mai esperiamo esattamente il contrario? Ma perché utilizziamo per misurare le distanze dei regoli comuni, che si deformano quando cambiano posizione esattamente di quanto serve perché la "falsa" geometria che deduciamo sia quella euclidea!
 
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Sembra una presa in giro, ma l'autore del libro pare crederci davvero. Si sospetta un consapevole tiro mancino al lettore, dal momento che il nostro Amico-Roxas impiega tutta la prima parte del suo libro (circa un terzo della sua mole) per fare considerazioni perfettamente sensate sul rapporto fra geometria astratta e geometria del mondo fisico, tra modelli e realtà, quasi paragonabili (ho detto quasi!) a quelle di Russell. Sennonché, dopo decine e decine di pagine passate nel tentativo di convincerci della perfetta equivalenza sperimentale dello spazio euclideo tradizionale e quello endosferico (qualsiasi esperienza a favore di un mondo euclideo tradizionale comproverebbe identicamente la sua teoria endosferica "per come è stata definita"), ce lo ritroviamo a riversare altrettante decine e decine di pagine nella speranza di convincerci — contemporaneamente — che tale teoria permette di giustificare cose inspiegabili classicamente. Un'ulteriore conferma del fatto che, forse, Amico-Roxas fosse genuinamente e irrimediabilmente convinto delle cose che tenta di comunicare in quel libro, può essere ritrovata nell'atmosfera di esoterismo e di cabala che pervade molte parti del libro (le "coincidenze" classiche che trovano piena giustificazione nella sua teoria endosferica ricordano molto da vicino le regolarità geometriche che già Keplero trovava nel sistema solare...), lasciando quasi la sensazione di star leggendo un codice di Picatrix, il celebre manuale di magia e negromanzia.
Una lettura curiosa.
Non mi azzardo, però, a consigliarla.

26 October 2010

Vuota apologia del libertarianismo

Dicevo che il Libertarianismo è una di quelle "scoperte" che ti cambiano radicalmente il modo di vedere tutte le cose; e vi sarà sembrata, lo so, una di quelle frasi romantiche, di chi ama naufragare fra per sempre e mai piú, e immaginare l'infinito dietro l'ermo colle.
E invece è letteralmente così, ti rivolta davvero tutto il mondo come un calzino: lo shopping, lo stato, la società, l'ecologia, i diritti fondamentali degli uomini, non sono più gli stessi; non è più la stessa cosa votare, pagare le tasse, andare a scuola, al lavoro, (non) fare ricerca scientifica. Persino l'astrologia, l'omeopatia e Vanna Marchi (e ditemi voi se è romanticismo Vanna Marchi!) non sono più quelli di prima!
 
Chiaramente sto parlando della mia esperienza personale: non so se tutti i libertari sono passati attraverso un'analoga fase tellurica o se magari hanno vissuto un'esperienza simile ma in più tenera età e, quindi, con meno sconvolgimento (o, più banalmente, sono stati libertari "da sempre").
 
Personalmente, per quanto riguarda la portata rivoluzionaria, trovo che il paragone naturale sia con la fisica moderna e il Darwinismo: se, da una parte, Relatività e Meccanica quantistica ridefiniscono la stoffa con cui è fatto il mondo (spazio, tempo, oggettività, causalità...), dall'altra il Darwinismo tocca più da vicino proprio l'essere umano (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo). Ebbene, la prospettiva libertaria rappresenta il vertice di questo climax perché sconvolge il concetto di uomo nella società, e dunque te la ritrovi dappertutto, quotidianamente.
Ma, sempre in chiave di portata rivoluzionaria, c'è un aspetto profondamente diverso fra Libertarianismo, da una parte, e Relatività, Meccanica quantistica e Darwinismo dall'altra: mentre queste ultime sono scienze consolidate e mainstream, e il Darwinismo addirittura, pur in facili semplificazioni, è addirittura patrimonio comune (ok, lasciamo stare in questo momento l'Intelligent Design...), il Libertarianismo rappresenta invece una specie di terra ignota, ignobile persino, priva anche del fascino trasgressivo dei tabù.
E' stato del tutto casualmente, infatti, che qualcuno mi ha indicato Rothbard, Friedman e prima ancora la scuola austriaca di economia. Eppure, esattamente come succede con Darwin, l'unica reazione che si prova, a posteriori, è semplicemente un: ma come ho potuto essere stato cieco per tutti questi anni? E, a differenza di Darwin, com'è possibile che tanta gente, colta e istruita, progressista, sia del tutto ignorante rispetto a questo modo così naturale di vedere le cose?
 
Va bene, direte voi, ora piantala di girare attorno alla questione e di creare tutta questa suspense: dicci finalmente cos'è, cosa dice questa teoria libertaria della società (ché a leggere Wikipedia sembrano dei pazzi furiosi).
 
La cosa più semplice che potrei fare, in effetti, è proprio fornire qualche link: oltre a Wikipedia ci sono tante fonti online su argomenti libertari e ci sono anche ottimi blogger che ne parlano.
Il punto è che io stesso ero entrato in contatto con alcuni concetti libertari, pur in maniera casuale e tutt'altro che sistematica, proprio attraverso letture sporadiche da alcuni blogger (ad esempio il lume rinnovato), e tuttavia non ero riuscito a coglierne la portata. Un po' perché ero viziato da tutta una serie di pregiudizi inconsapevoli molto comuni e di cui mi sono dovuto letteralmente liberare con non poca fatica, e un po' perché si trattava di concetti isolati di cui mi mancava il contesto (contesto tanto fondamentale proprio perché il Libertarianismo presuppone un cambiamento di prospettiva radicale rispetto al modo di pensare comune). E infatti, almeno da questo punto di vista, un po' mi sono pentito dei miei post recenti in cui riportavo "beceramente" dei brani di Rothbard, perché ottengono in molti casi lo stesso (controproducente) effetto nel lettore non-libertario: straniamento e sospetto.
Quel che mi piacerebbe, invece, è provare a fornire un percorso, anche solo accennato, sicuramente da approfondire poi altrove, che possa però facilitare la strada ad altri che si trovano in una situazione simile a quella in cui mi trovavo io fino a qualche mese fa. Gran parte dei pochi lettori che mi seguono, infatti, almeno io credo, non sono libertari per lo stesso motivo per cui non lo ero io: semplice e pura ignoranza.
 
A coloro che, per ingannare l'attesa (sicuramente lunga, potenzialmente vana) di una prossima puntata, su questi schermi, su questi temi, volessero comunque cominciare da Wikipedia, chiederei almeno di non affrettare il giudizio: le pagine di Wikipedia, giocoforza, espongono le idee libertarie in maniera concisa, evidenziandone le tesi, manco a dirlo, rivoluzionarie. E proprio in quanto tali, prese così, dall'alto, queste tesi possono apparire al limite dell'irragionevolezza. Di più: a volte possono anche esserlo, irragionevoli, perché nella semplificazione di una voce enciclopedica possono rappresentare il risultato estremo di un approccio del tutto inusuale. Il punto è che — e in questo effettivamente il paragone con la fisica moderna e il Darwinismo non regge decisamente più — il Libertarianismo non è un monolite, accentrato, chessò, sulle tesi di Rothbard o di Friedman (che, tanto per dire, erano spesso in disaccordo reciproco su tante cose). Il Libertarianismo, in tutte le sue varie forme rappresenta una prospettiva sulla società, un modo di pensare e di affrontare questioni in cui semplicemente hai imparato a evitare "i soliti errori". Su molte questioni non esiste la soluzione libertaria (al massimo c'è la soluzione di Rothbard, quella di Friedman, e spesso quelle più "famose" sono le più "estreme", da cui, almeno in parte, l'immagine diffusa di "pazzi furiosi"). L'accordo, se vogliamo, è "in negativo", su quali soluzioni "sicuramente non funzionano" e su quali sono i fattori rilevanti, nella ricerca di una soluzione.
 
Questo, tra l'altro, per dire che no, non ho trovato l'unica verità politica a cui tutti dovrebbero adeguarsi, che sarebbe oltremodo ingenuo. L'effetto di devastante rivoluzione della prospettiva libertaria è in negativo, riguarda la quantità di credenze implicite e apparentemente naturali che improvvisamente si frantumano, si rivelano quali falsi preconcetti che da sempre hanno distorto la visione della società.
Proprio come con la fisica moderna e il Darwinismo, il panorama che ti si para davanti è sterminato, e approfondirlo richiede(rebbe) tempo ed energie, ma ugualmente, da subito, capisci che, qualunque cosa troverai, non sarà come quello a cui eri abituato.
 
Insomma: non è tanto una o più specifiche tesi finali di particolari libertari, quanto la prospettiva, che vorrei provare a farvi scorgere, in qualche modo, in futuro, su questo blog. Non ho idea di come fare, dovrò cercare di ricordare com'ero, io stesso, qualche mese fa (e già mi sembra un io lontanissimo ed estraneo), come ragionavo, cosa mi risultava assolutamente impossibile da concepire, ma soprattutto come invece sono arrivato a concepirlo, prima, e, ben presto, a trovarlo addirittura naturale e ovvio.

30 August 2009

Relational physics

Coincidenze temporali?
Tomate comincia un serial su Julian Barbour e il "relazionalismo" poco dopo che, per puro caso, leggevo questa news dal "notiziario sissa", che mi rimandava qui, dove, oltre che da disegni e animazioni, rimanevo colpito dal framework Relational Quantum Gravity e mi tuffavo su en.wiki scoprendo questo e questo.
Altre letture da mettere in To Do List al punto Meccanica Quantistica, e non ho ancora spuntato nemmeno il primo sotto-punto Zurek...

28 June 2009

To Do List

Post àla tomate,ma più prosaico, perchè questa lista è un desiderata dannatamente reale,se solo riuscissi a trovare un po' ditempo...
  • Quine — ce ne sarebbero un sacco, di post, da scrivere, ma mi sarebbe piaciuto almeno chiarire la questione dell'olismo epistemologico. Sembrerebbe la cosa più facile da spiegare, visto che la tesi di Duhem-Quine si intuisce e si accetta abbastanza facilmente. Ma l'olismo di Quine è più estremo: l'indeterminatezza della traduzione è differente dalla (e per certi versi più destabilizzante della) sottodeterminazione della scienza di Duhem.
  • Meccanica Quantistica
    • Zurek — mi ero stampato l'articolo di Schlosshauer, me l'ero letto e mi ero appuntato un sacco di considerazioni interessantissime, intelligentissime e molto, molto argute. Ma quando ieri l'ho riaperto ho visto che i segni a matita erano criptici e anche un po' sbiaditi. E non mi ricordavo più nulla. :(
      Però almeno ho fatto una scoperta originalissima: scrivere appunti a margine non è una buona strategia...
    • Equivalence Postulate (of Quantum Mechanics) — mi ero stampato l'articolo di Faraggi e Matone, me l'ero letto e no, in questo caso non avevo prodotto pensieri molto interessanti. Ma qualche domanda per tomate, quelle sì che ce le avevo. Ma ho dimenticato anche quelle :(
  • Politica
    • Gossip
  • Papa
    • Simonia
    • Sepolcri imbiancati
    • Martin Lutero Blissett Q
  • KDE4 — forse sta arrivando il momento in cui potrò installare KDE4 anche sul portatile:
Approfitto poi di questo post per segnalare, perchi non l'avesse notato fra imiei shareditem,il videodel talk di StefanoQuintarelli: Dalmondo fisico al mondo immateriale. Solito stile Quintarelli:minima magniloquenza, massimo contenuto, analisi acuta e visioniemozionanti.

05 May 2009

Complementarietà, Contraddizioni, Bell e Bohr

Bohr elaborò una filosofia di quello che sta dietro le ricette della teoria [della Meccanica Quantistica, ndh]. Anziché essere disturbato dall’ambiguità di principio, egli sembra trovarci ragioni di soddisfazione. Egli sembra gioire della contraddizione, per esempio, tra onda e particella che emerge in ogni tentativo di superare una posizione pragmatica nei confronti della teoria. [...] Non allo scopo di risolvere queste contraddizioni e ambiguità, ma nel tentativo di farcele accettare egli formulò una filosofia, che chiamò complementarietà. Pensava che la complementarietà fosse importante non solo per la fisica, ma per tutta la conoscenza umana. Il suo immenso prestigio ha portato quasi tutti i testi di meccanica quantistica a menzionare la complementarietà, ma di solito in poche righe. Nasce quasi il sospetto che gli autori non capiscano abbastanza la filosofia di Bohr per trovarla utile. Einstein stesso incontrò grandi difficoltà nel cogliere con chiarezza il senso di Bohr. Quale speranza resta allora per tutti noi?
Io posso dire molto poco circa la complementarietà, ma una cosa la voglio dire. Mi sembra che Bohr usi questo termine in senso opposto a quello usuale. Consideriamo per esempio un elefante. Dal davanti esso ci appare come una testa, il tronco e due gambe. Dal dietro esso è un sedere, una coda e due gambe. Dai lati appare diverso e dall’alto e dal basso ancora diverso. Queste varie visioni parziali risultano complementari nel senso usuale del termine. Si completano una con l’altra, risultano mutuamente consistenti, e tutte assieme sono incluse nel concetto unificante di “elefante”. Ho l’impressione che assumere che Bohr usasse il termine complementare in questo senso usuale sarebbe stato considerato da lui stesso come un non aver colto il punto e aver banalizzato il suo pensiero. Lui sembra piuttosto insistere sul fatto che, nelle nostre analisi, si debbano usare elementi che si contraddicono l’un l’altro, che non si sommano o non derivano da un tutto. Con l’espressione complementarietà egli intendeva, mi pare, l’opposto: contraddittorietà. Sembra che Bohr amasse aforismi del tipo: l’opposto di una profonda verità rappresenta anch’esso una profonda verità; la verità e la chiarezza sono complementari. Forse egli trovava una particolare soddisfazione nell’usare una parola familiare a tutti attribuendogli un significato opposto a quello usuale. La concezione basata sulla Complementarietà è una di quelle che io chiamerei le visioni romantiche del mondo ispirate dalla teoria quantistica.
John Stewart Bell
(citato da Gian Carlo Ghirardi in Un'occhiata alle carte di Dio)

26 April 2009

Farewell

Addio, fisica.
 
Che poi, di fatto, è già un paio d'anni che la fisica era evaporata dal mio lavoro.
Ad ogni modo, da domani mi attende il mio ufficio brevetti.
 
See you space cowboy.