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02 March 2016

Rothbard day

 
Oggi è il Rothbard Day, c'entra molto lateralmente con l'Economics for Real People di Gene Callahan, ma ne approfitto per tornare sul mio lungo thread sull'economia da zero.
Quasi nessun commento per tutto il tempo, sono un po' spiaciuto.
Per me fu una lettura folgorante: vorrei provare ad elencare gli elementi che più hanno rappresentato delle epifanie fondamentali.
 
Direi che il fulcro di tutto è la scoperta delle reali implicazioni di un libero scambio: da una parte la demolizione dell'equivoco diffuso e sottinteso secondo cui le due parti, nell'accordarsi per lo scambio, starebbero per ciò stesso concordando su un valore condiviso per i beni scambiati; dall'altra il rendersi conto che, invece, lo scambio può avvenire proprio e soltanto perché le due parti, al contrario, attribuiscono un diverso valore ai beni scambiati.
Lo scambio — e più in generale il commercio — è quindi inerentemente un gioco a guadagno condiviso, un processo che non trasferisce ricchezza, ma la genera, perché entrambe le parti giudicano ciascuna di stare meglio dopo lo scambio rispetto a prima.
 
Una simile conquista intellettuale è resa possibile da un altro concetto estremamente generale e fecondo, quello di marginalità: non è un bene in astratto che ha valore (l'acqua, il diamante...), ma la contingente e specifica quantità di quel bene in procinto di essere scambiata: il valore delle cose è determinato al margine.
 
E infine, direttamente collegato al concetto di marginalità, vi è l'altro concetto fondamentale, quello del costo-opportunità, che rappresenta l'altro lato, consustanziale, del valore delle cose: il valore di un certo fine è dato dal valore della cosa più preziosa a cui si sta rinunciando per perseguirlo.
 
Essenzialmente direi che sono questi gli elementi allo stesso tempo fondamentali e dirompenti di questa lettura.
Ma vorrei sottolineare anche almeno altri due aspetti notevoli della scuola austriaca che invece emergono in prospettiva, più che in singoli e specifici concetti.
 
Da una parte c'è, ho già avuto modo di dirlo, la sua organicità: questi mattoni elementari — la soggettività del valore, la sua diversità sancita in uno scambio, il suo formarsi al margine in termini di costo-opportunità — sono concetti del tutto complementari che si incastrano perfettamente in un quadro coerente. Un quadro coerente che pian piano si allarga, gettando nuova luce sul concetto di moneta, sui suoi ruoli di bene di scambio e di unità di prezzo; chiarendo che è proprio grazie a queste sue proprietà che la moneta assume anche il ruolo di segnale di valore, dell'urgenza dei vari beni nei piani delle persone, consentendone il coordinamento su vastissima scala, spaziale e temporale; gettando nuova luce sul concetto di preferenza temporale, alla base della nozione di tasso di interesse, come espressione del valore del risparmio, in contrapposizione invece al profitto imprenditoriale, etc, etc...
 
E infine l'altro punto di forza della prospettiva austriaca, strettamente legato al precedente: il suo enorme potere esplicativo.
La scuola austriaca non cerca di "simulare" l'andamento del mercato con un qualche modello del comportamento dei suoi attori, formulando una qualche funzione di costo/optimum che essi tenderebbero a minimizzare/massimizzare; facendo, cioè, mera fenomenologia. Al contrario essa si basa sulla natura stessa dell'agire economico e le "leggi" che riesce a derivare rappresentano la *spiegazione* del funzionamento dell'economia, non delle semplici "previsioni" che devono essere testate empiricamente e che sono condannate ad una validità limitata al grado di aderenza del caso concreto alle ipotesi formulate nel modello.
 
Ma quindi? Vi è piaciuto il thread?
 

03 February 2013

Democrazia /3

Riprendo con questo post la discussione nei commenti al post precedente, riportando in particolare il mio personale percorso di lettura come risposta alla richiesta di Cristian di una possibile bibliografia d'attacco alle tematiche libertarie.
 
Essenzialmente ci sono due fronti su cui ci si può affacciare al tema: quello economico, da una parte, e dall'altra quello più propriamente etico e politico.
 
Sul fronte economico io sono partito con l'Economics for Real People di Callahan (se hai un ebook-reader, c'è anche una versione in PDF messa a disposizione dal Mises Institute), ed è stato in discesa sin dall'inizio. L'economia, secondo me, non è un fronte "caldo", non ci sono grossi pregiudizi da abbattere, c'è solo il grande vuoto di uno schema interpretativo coerente, capace di inquadrare quelli che altrimenti restano tanti modellini matematici più o meno scorrelati. La scuola austriaca provvede precisamente a questo, e il libro di Callahan ne costituisce una semplice introduzione, estremamente didattica. Proprio poco prima di Callahan avevo letto L'economista mascherato di Tim Harford — su suggerimento di Bressanini — e l'avevo trovato molto bello, esattamente come dice Dario. Ma dopo aver letto Callahan ti accorgi della differenza siderale: da una parte L'economista mascherato non ti lascia niente se non una serie di aneddoti e di spiegazioni di qualche meccanismo peraltro molto interessante (uno per tutti, il self pricing); dall'altra Callahan ti lascia uno schema interpretativo: la stessa differenza che c'è fra il donare pesci e l'insegnare a pescare.
 
L'altro fronte è senza dubbio il più delicato, e intraprenderlo sarà certamente un'esperienza tormentata (per questo il mio consiglio è comunque quello di partire con Callahan). Il problema, per quel che mi riguarda, è duplice: sia in astratto (la prospettiva è profondamente stravolta, i luoghi comuni da abbattere sono tanti e così radicati da non riuscire spesso nemmeno a riconoscerli come tali) che in concreto (non ho da suggerirti testi cristallini, con tesi condivisibili al 100% esposte con argomentazioni semplici e lineari).
I libri che hanno fatto seguito a Callahan sono quelli di Rothbard, L'etica della libertà e Per una nuova libertà, e quello di David Friedman L'ingranaggio della libertà (li ho tutti letti in prestito, ma di quest'ultimo di Friedman ne ho una copia che posso prestarti molto volentieri).
L'atteggiamento da mantenere è un po' quello di prepararsi ad assistere ad un attacco di sfondamento, mettendo in conto tutta la sua rozzezza. In particolare non dovrai pensare di trovarti davanti a dei trattati scientifici (né tantomeno al credo di una religione) con l'idea che si debba necessariamente accettare tutto in blocco e che dunque sia sufficiente il primo disaccordo per poter buttare all'aria tutto quanto.
Non lo ripeterò mai abbastanza: sono libri da costringersi con la forza a proseguire nella lettura; a partire dallo stile: sono opere scritte più di 30-40 anni fa, e certamente è un aspetto che si fa sentire. Ma anche nel merito delle questioni, spesso avrei da ridire — ancora adesso — sia sui metodi che sulle tesi. Tanto per dire: tutta la prima parte sul diritto naturale nelL'etica della libertà è piena, secondo me, di molte ingenuità a livello filosofico nella difesa del giusnaturalismo: anche qui, come in economia, partivo come una tabula rasa e ho dovuto integrare quei capitoli con le pagine di wikipedia sul positivismo giuridico (e lunghissime chiacchierate col mio amico-mentore) per inquadrare meglio il dibattito sul diritto e scoprire (molto, molto dopo) che sì, la posizione giusnaturalista, in fondo, è la mia, anche se certamente non per le ragioni descritte da Rothbard.
Ancora, non ricordo bene dove, Rothbard mantiene una posizione a difesa del diritto d'autore che non mi convince affatto.
E insomma, come dicevo, al di là delle varie tesi che si incontrano nel percorso, l'importanza di questi saggi è nell'usarli come arieti rispetto ai pregiudizi della "religione-stato" di cui non siamo nemmeno consapevoli di essere adepti. La loro importanza risiede soprattutto nel fatto che in essi vengono delineati degli scenari sociali che non devono necessariamente essere presi come l'unica alternativa ad una società democratica, ma che vanno considerati come la semplice dimostrazione che lo Stato non è l'unica possibilità: mi riferisco a tutte quelle cose — polizia, tribunali, giustizia, leggi — che non siamo nemmeno in grado di concepire senza uno Stato (o un dittatore). E l'effetto dirompente di queste letture non è tanto nel presentarci, in astratto, un concetto di diritto svincolato dall'istituzione statale, quanto proprio quello di mostrarci, concretamente, come potrebbe configurarsi, in maniera del tutto plausibile e consistente, una società in cui convivono diversi tribunali, diverse corti di giustizia, diversi copri di polizia, o agenzie di sicurezza, capaci non solo di catalizzare una convivenza sociale pacifica e una pacifica risoluzione dei conflitti, ma addirittura di offrire una di gran lunga maggiore (rispetto al caso democratico) garanzia per quei "deboli" di cui tanto spesso lo Stato si presenta, con grande illusione, come unico possibile difensore.

26 November 2012

   [6] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

[0][1][2][3][4][5][6][7][8][9]
(...continua)
§  La prasseologia: perché?
Una delle cose che colpisce maggiormente avvicinandosi alla scuola austriaca in maniera anche solo minimamente sistematica è proprio questo suo carattere organico.
 
Mises conia un termine specifico, la prasseologia, per identificare il suo oggetto di studio, e marcare in qualche modo le distanze con l'economia classica, e devo confessare che questa cosa mi insospettiva parecchio: questa presunta nuova scienza in -logia ricordava troppo le altre scienze sociali, e ad aggravare la cosa c'era questo suo sedicente carattere ipotetico-deduttivo, questo suo richiamarsi alla logica e alla matematica, di cui però non condivideva il linguaggio formalizzato, e questo ispirava innegabilmente pochissima fiducia: di quante teorie strampalate avete sentito parlare che si appellavano all'auto-evidenza, a partire nientepopodimenoché da Cartesio?
Oltretutto se vi capita di leggere su internet delle difese della scuola austriaca che non si limitano ad Hayek, ma che si rifanno espressamente a Mises, con grande probabilità vi ritroverete precisamente a leggere delle ingenue ricapitolazioni e ridefinizioni di metodo scientifico che fanno sorridere chiunque mastichi un po' di filosofia della scienza, annacquando completamente la reale portata del contributo misesiano.
E non sto parlando solo di semplici, comuni "blogger": prendete questo brano di Rothbard sull'uso della matematica in economia, A Note On Mathematical Economics (Una nota sulla matematica in economia): i concetti su cui insiste — le particelle fisiche unmotivated da una parte e le azioni umane motivated dall'altra, le leggi fisiche meaningless da un lato e quelle prasseologiche meaningful dall'altro, il mero "significato operativo" (operational meaning) delle leggi fisiche da confrontare con le leggi prasseologiche che sarebbero invece significativamente vere (meaningfully true) — fanno venir voglia di fuggire a gambe levate e smettere di leggere dopo i primissimi paragrafi!
 
Ma se si mettono completamente da parte le solite ragioni epistemologiche — cioè quelle rivendicate dai tipici libertari, a cominciare da Rothbard stesso, e non quelle rivendicate da Quineiani come me :-) — se si mettono da parte, dicevo, le solite ragioni epistemologiche che dovrebbero, a priori, condannare gli approcci positivisti e consacrare solo quelli misesiani, e si procede in maniera sistematica dal principio (io continuo ad indicare sempre lo stesso testo, l'Economics for Real People di Gene Callahan, solo perché è l'unico che ho letto, ma chissà quali testi migliori esistono là fuori), si scopre un approccio del tutto originale, purtroppo oggi come allora, ai temi economici.
(continua...)

24 December 2010

Per vedere lo Stato bisogna capirlo

Per vedere una cosa bisogna capirla. La poltrona presuppone il corpo umano, con le sue parti e le sue articolazioni; le forbici l’atto di tagliare. Che dire di una lampada o di un veicolo? Il selvaggio non può percepire la Bibbia del missionario; il passeggero non vede lo stesso cordame che vede l’equipaggio. Se vedessimo realmente l’universo, forse lo capiremmo.
J. L. Borges, There are more things, in Il libro di sabbia.
 
Oltre ad esporre la sua specifica visione libertaria della società, nel suo libro Per una nuova libertà Rothbard prova anche ad avanzare qualche ipotesi sulle possibilità concrete che le idee libertarie possano trovare realizzazione, più o meno pienamente, in un futuro non troppo remoto, magari proprio nei suoi Stati Uniti. E si resta sorpresi, a posteriori, del suo ottimismo, che intravede in una serie di "crisi" (la recessione, l'inflazione, i fallimenti keynesiani, l'aumento delle tasse, la situazione in Vietnam, il Watergate, et cetera) grazie alle quali avrebbero dovuto diventare evidenti a tutti gli esiti nefasti degli interventi statali.
In maniera molto simile, un analogo ottimismo tenta anche me, oggi: la gravità della crisi attuale e in particolare il fatto che siano proprio gli Stati in quanto tali a rischiare il fallimento, sembrerebbe l'occasione giusta per mettere in luce le contraddizioni del ruolo stesso dello Stato nella società (ché, ricordiamecelo, Stato e società sono cose diverse).
 
Le proteste diffuse (in Grecia, in Irlanda) contro i famigerati "piani di austerità", ad esempio, renderanno evidente a tutti, finalmente, la natura coercitiva del sistema statale: una persona piena di debiti, che ha speso per anni più di quel che aveva chiedendo in prestito soldi in giro, contro chi mai potrebbe protestare per non essere più in grado, ora, di restituire ogni cosa? Ebbene l'analogia con gli Stati e i loro debiti si rompe nel punto preciso in cui chi deve pagare, il cittadino, non coincide con chi ha deciso dove e come "bersi" tutti quei soldi, il politico — lo Stato non siamo noi, sono loro!
Finalmente tutti si accorgeranno che dichiarare qualcosa — un bene o un servizio — come "diritto" del cittadino (assistenza sanitaria, istruzione, trasporto pubblico, etc...), in maniera astratta, "a garanzia statale", significa considerare lo Stato come una mucca da mungere con risorse infinite, significa ignorare — per ingenuità o malafede — il costo del bene/servizio e chi debba pagarlo: perché qualcuno, in qualche modo, deve pur pagarlo, there ain't no such thing as a free lunch.
Ma adesso che si presenta il problema del "chi paga", diventa finalmente chiara la violenza dello Stato: io non ho scelto di avere servizi che non potevo permettermi e ora non voglio dover pagare per essi ("protesto contro le manovre di austerità"); del resto, negli anni di boom, ho approfittato anch'io di questi servizi "sopra le mie possibilità", ma d'altro canto non avevo alternative, erano servizi "pagati dallo Stato"!
Ecco dunque palesarsi, in tutta la sua perversione, la sproporzione e l'inganno del meccanismo elettorale: il voto non costa nulla, ma ha effetti devastanti: con esso non mi limito a dare "indicazioni legislative" su ciò che sarà legale o meno (e non entro ora nel merito del rapporto fra uno Stato e queste altre questioni legislative), ma sto dando letteralmente "carta bianca" sull'uso non solo dei miei soldi presenti, che forzatamente mi vengono espropriati con le tasse, ma addirittura sui miei soldi futuri, che vengono ipotecati per poter fornire, ora, servizi ad un livello che non ci si può permettere.
 
"Fornire servizi", ovviamente, nella più ingenua delle concessioni di beneficio del dubbio.
 
Questa volta, poi, c'è anche la concomitanza del caso Wikileaks, in cui non poteva essere più evidente che la differenza fra le democrazie occidentali e la fantomatica Cina è molto più sfumata di quello che viene sbandierato: se provi a metterti contro lo Stato, pur sedicente democratico, ci si mangia in un sol boccone, e senza nemmeno troppo dissimulare, qualsiasi habeas corpus.
 
Un ottimismo simile a quello di Rothbard, insomma, tenta anche me, oggi.
 
Ma quale ingenuità, sarebbe!
 
In realtà anche questa volta, come e più dei tempi di Rothbard, nessuno si accorgerà di niente e, anzi, come allora, la soluzione a tutti i mali sarà ancora più Stato, più Stato, più Stato. Ripeteranno ancora che le tasse per uscire dalla crisi le pagheranno i più ricchi per poter continuare a offrire servizi ai più poveri, e la gente continuerà a non accorgersi che sarà, come sempre, l'esatto contrario. Saranno capaci di offrire come cura al veleno, indebitamento e azzardo morale, ancora altro veleno, ulteriore indebitamento (il fantomatico "stimolo") e ancora più azzardo (titoli non più di Stato, ma addirittura d'Europa).
 
Del resto, io stesso, solo qualche mese fa, che interpretazione avrei dato di queste vicende? Mi sarei finalmente, da solo, riscoperto libertario? Del tutto inverosimile. Avrei invece cercato di far rientrare i fatti nell'usuale schema concettuale: avrei dato la colpa alla classe dirigente, ai politici, alla situazione anomala italiana di clamoroso conflitto di interessi, agli italiani incapaci di accorgersi di quell'anomalia e rigettarla alla prima occasione elettorale, o ad una delle innumerevoli altre successive, magari addirittura giustificandoli per via dell'immenso condizionamento mediatico a cui sono sottoposti da decenni.
Sarebbe stato difficile per me accorgermi, solo sulla base di questa crisi, che in realtà quello Italiano rappresenta proprio il caso emblematico di un meccanismo degenerativo del tutto generale e intrinseco alla natura stessa degli Stati, ai loro meccanismi di funzionamento standard. Che scandalizzarsi per la corruzione dei politici e chiedere a gran voce un ritorno alla legalità e all'onestà istituzionale e politica è semplicemente come scandalizzarsi per il corso dei fiumi e chiedere con fermezza che l'acqua prenda finalmente a scorrerre in salita!
E il caso italiano, dunque, diventa emblematico, contemporaneamente, da due punti di vista. Innanzitutto, come dicevo, rappresenta un esempio eclatante dell'esito naturale di un meccanismo che, monopolizzando l'uso della forza, permette proprio ai più ricchi e potenti di avere un solo interlocutore da dover "convincere", con facili ringraziamenti, per poter avere privilegi e agevolazioni; che, proprio per il fatto di avere un solo interlocutore, nega la possibilità di scelta al singolo cittadino e offre spazio di manovra ai poteri forti (corporazioni e lobby), solo loro capaci di potersi permettere gli opportuni "ringraziamenti" da offrire allo stato.
Ma nella sua esasperazione di questi meccanismi, l'Italia è contemporaneamente la prova paradigmatica che sarà impossibile cambiare, che l'evidenza più sfacciata di sopprusi, corruzione e malafede non può assolutamente niente, se manca una teoria capace di interpretare quell'evidenza.

26 October 2010

Vuota apologia del libertarianismo

Dicevo che il Libertarianismo è una di quelle "scoperte" che ti cambiano radicalmente il modo di vedere tutte le cose; e vi sarà sembrata, lo so, una di quelle frasi romantiche, di chi ama naufragare fra per sempre e mai piú, e immaginare l'infinito dietro l'ermo colle.
E invece è letteralmente così, ti rivolta davvero tutto il mondo come un calzino: lo shopping, lo stato, la società, l'ecologia, i diritti fondamentali degli uomini, non sono più gli stessi; non è più la stessa cosa votare, pagare le tasse, andare a scuola, al lavoro, (non) fare ricerca scientifica. Persino l'astrologia, l'omeopatia e Vanna Marchi (e ditemi voi se è romanticismo Vanna Marchi!) non sono più quelli di prima!
 
Chiaramente sto parlando della mia esperienza personale: non so se tutti i libertari sono passati attraverso un'analoga fase tellurica o se magari hanno vissuto un'esperienza simile ma in più tenera età e, quindi, con meno sconvolgimento (o, più banalmente, sono stati libertari "da sempre").
 
Personalmente, per quanto riguarda la portata rivoluzionaria, trovo che il paragone naturale sia con la fisica moderna e il Darwinismo: se, da una parte, Relatività e Meccanica quantistica ridefiniscono la stoffa con cui è fatto il mondo (spazio, tempo, oggettività, causalità...), dall'altra il Darwinismo tocca più da vicino proprio l'essere umano (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo). Ebbene, la prospettiva libertaria rappresenta il vertice di questo climax perché sconvolge il concetto di uomo nella società, e dunque te la ritrovi dappertutto, quotidianamente.
Ma, sempre in chiave di portata rivoluzionaria, c'è un aspetto profondamente diverso fra Libertarianismo, da una parte, e Relatività, Meccanica quantistica e Darwinismo dall'altra: mentre queste ultime sono scienze consolidate e mainstream, e il Darwinismo addirittura, pur in facili semplificazioni, è addirittura patrimonio comune (ok, lasciamo stare in questo momento l'Intelligent Design...), il Libertarianismo rappresenta invece una specie di terra ignota, ignobile persino, priva anche del fascino trasgressivo dei tabù.
E' stato del tutto casualmente, infatti, che qualcuno mi ha indicato Rothbard, Friedman e prima ancora la scuola austriaca di economia. Eppure, esattamente come succede con Darwin, l'unica reazione che si prova, a posteriori, è semplicemente un: ma come ho potuto essere stato cieco per tutti questi anni? E, a differenza di Darwin, com'è possibile che tanta gente, colta e istruita, progressista, sia del tutto ignorante rispetto a questo modo così naturale di vedere le cose?
 
Va bene, direte voi, ora piantala di girare attorno alla questione e di creare tutta questa suspense: dicci finalmente cos'è, cosa dice questa teoria libertaria della società (ché a leggere Wikipedia sembrano dei pazzi furiosi).
 
La cosa più semplice che potrei fare, in effetti, è proprio fornire qualche link: oltre a Wikipedia ci sono tante fonti online su argomenti libertari e ci sono anche ottimi blogger che ne parlano.
Il punto è che io stesso ero entrato in contatto con alcuni concetti libertari, pur in maniera casuale e tutt'altro che sistematica, proprio attraverso letture sporadiche da alcuni blogger (ad esempio il lume rinnovato), e tuttavia non ero riuscito a coglierne la portata. Un po' perché ero viziato da tutta una serie di pregiudizi inconsapevoli molto comuni e di cui mi sono dovuto letteralmente liberare con non poca fatica, e un po' perché si trattava di concetti isolati di cui mi mancava il contesto (contesto tanto fondamentale proprio perché il Libertarianismo presuppone un cambiamento di prospettiva radicale rispetto al modo di pensare comune). E infatti, almeno da questo punto di vista, un po' mi sono pentito dei miei post recenti in cui riportavo "beceramente" dei brani di Rothbard, perché ottengono in molti casi lo stesso (controproducente) effetto nel lettore non-libertario: straniamento e sospetto.
Quel che mi piacerebbe, invece, è provare a fornire un percorso, anche solo accennato, sicuramente da approfondire poi altrove, che possa però facilitare la strada ad altri che si trovano in una situazione simile a quella in cui mi trovavo io fino a qualche mese fa. Gran parte dei pochi lettori che mi seguono, infatti, almeno io credo, non sono libertari per lo stesso motivo per cui non lo ero io: semplice e pura ignoranza.
 
A coloro che, per ingannare l'attesa (sicuramente lunga, potenzialmente vana) di una prossima puntata, su questi schermi, su questi temi, volessero comunque cominciare da Wikipedia, chiederei almeno di non affrettare il giudizio: le pagine di Wikipedia, giocoforza, espongono le idee libertarie in maniera concisa, evidenziandone le tesi, manco a dirlo, rivoluzionarie. E proprio in quanto tali, prese così, dall'alto, queste tesi possono apparire al limite dell'irragionevolezza. Di più: a volte possono anche esserlo, irragionevoli, perché nella semplificazione di una voce enciclopedica possono rappresentare il risultato estremo di un approccio del tutto inusuale. Il punto è che — e in questo effettivamente il paragone con la fisica moderna e il Darwinismo non regge decisamente più — il Libertarianismo non è un monolite, accentrato, chessò, sulle tesi di Rothbard o di Friedman (che, tanto per dire, erano spesso in disaccordo reciproco su tante cose). Il Libertarianismo, in tutte le sue varie forme rappresenta una prospettiva sulla società, un modo di pensare e di affrontare questioni in cui semplicemente hai imparato a evitare "i soliti errori". Su molte questioni non esiste la soluzione libertaria (al massimo c'è la soluzione di Rothbard, quella di Friedman, e spesso quelle più "famose" sono le più "estreme", da cui, almeno in parte, l'immagine diffusa di "pazzi furiosi"). L'accordo, se vogliamo, è "in negativo", su quali soluzioni "sicuramente non funzionano" e su quali sono i fattori rilevanti, nella ricerca di una soluzione.
 
Questo, tra l'altro, per dire che no, non ho trovato l'unica verità politica a cui tutti dovrebbero adeguarsi, che sarebbe oltremodo ingenuo. L'effetto di devastante rivoluzione della prospettiva libertaria è in negativo, riguarda la quantità di credenze implicite e apparentemente naturali che improvvisamente si frantumano, si rivelano quali falsi preconcetti che da sempre hanno distorto la visione della società.
Proprio come con la fisica moderna e il Darwinismo, il panorama che ti si para davanti è sterminato, e approfondirlo richiede(rebbe) tempo ed energie, ma ugualmente, da subito, capisci che, qualunque cosa troverai, non sarà come quello a cui eri abituato.
 
Insomma: non è tanto una o più specifiche tesi finali di particolari libertari, quanto la prospettiva, che vorrei provare a farvi scorgere, in qualche modo, in futuro, su questo blog. Non ho idea di come fare, dovrò cercare di ricordare com'ero, io stesso, qualche mese fa (e già mi sembra un io lontanissimo ed estraneo), come ragionavo, cosa mi risultava assolutamente impossibile da concepire, ma soprattutto come invece sono arrivato a concepirlo, prima, e, ben presto, a trovarlo addirittura naturale e ovvio.

28 March 2010

Per una nuova libertà /3

Soluzioni libertarie a problemi attuali: conservazione, ecologia, sviluppo — Inquinamento
È interessante notare che ci sono due aree in cui l'inquinamento è diventato un problema grave: l'atmosfera e l'acqua, e in particolare i fiumi. Si tratta però proprio di quelle aree in cui non è ancora concessa la proprietà privata.
I fiumi, e anche gli oceani, sono in linea di massima proprietà dello Stato; la proprietà privata, e comunque la proprietà privata completa, non è mai stata concessa per le acque. In definitiva, quindi, i fiumi appartengono agli Stati. Tuttavia il diritto di proprietà dello Stato non è un vero diritto di proprietà, giacché i funzionari del governo, pur potendo controllare tale risorsa, non possono raccogliere i frutti del suo valore capitale sul mercato: non possono vendere i fiumi o venderne i titoli in borsa. Di conseguenza, non sono economicamente incentivati a preservarne la purezza e il valore. I fiumi, quindi, dal punto di vista economico, sono "proprietà di nessuno"; perciò, i funzionari hanno permesso che i fiumi potessero essere inquinati e rovinati. Chiunque ha potuto scaricare rifiuti nelle acque. Consideriamo ciò che succederebbe se le imprese private potessero possedere laghi e fiumi. Se una compagnia privata fosse proprietaria del lago Eire, ad esempio, chiunque vi scaricasse rifiuti verrebbe processato per aver aggredito la proprietà privata altrui, costretto a risarcire i danni, a cessare immediatamente l'azione aggressiva, e a desistere da simili violazioni future. Dunque, solo il diritto di proprietà privata porrebbe fine all'invasione-inquinamento delle risorse. È solo perché i fiumi non appartengono a nessuno che nessun proprietario insorge per difendere la sua preziosa risorsa dagli attacchi esterni.
Come ha detto il professor Dolan:
Se la General Motors possedesse il fiume Mississipi, stiamo pur certi che verrebbero chieste alte tariffe per gli effluenti alle industrie e alle amministrazioni comunali site lungo le rive, e l'acqua verrebbe mantenuta pulita, tanto da massimizzare i proventi degli appalti concessi alle imprese che volessero acquisire i diritti all'acqua potabile, alla ricreazione e alla pesca commerciale

17 March 2010

Per una nuova libertà /2

Soluzioni libertarie a problemi attuali: conservazione, ecologia, sviluppo

È vero che diverse risorse naturali, nel passato e nel presente, hanno rischiato l'esaurimento. Ma in ogniuno dei casi ciò non era dovuto all'"ingordigia capitalista"; al contrario, la ragione è da ravvisarsi nell'incapacità del governo di acconsentire alla proprietà privata della risorsa — un'incapacità di perseguire abbastanza radicalmente la logica dei diritti della proprietà privata.
Un esempio è quello delle risorse di legname. Nell'America occidentale e in Canada, la maggior parte delle foreste non appartiene a privati ma ai governi federali (o provinciali). Il governo le poi in gestione alle compagnie private. La proprietà privata viene concessa solo per l'utilizzo annuale della risorsa, ma non per la foresta, per la risorsa stessa. In tale situazione la compagnia privata non possiede il valore capitale e quindi non deve preoccuparsi dell'esaurimento della risorsa stessa. Non ha alcun incentivo economico a conservare la risorsa, a piantare nuovi alberi, etc. L'unico incentivo è quello di tagliare più alberi possibile, dal momento che non le viene alcun vantaggio economico dalla conservazione del valore capitale della foresta. In Europa, dove la proprietà privata delle foreste è molto più diffusa, ci sono poche lamentele contro la distruzione delle risorse del legno. Infatti laddove è permessa la proprietà privata delle foreste, è nell'interesse del proprietario preservare e ripristinare le riserve di alberi man mano che procede al disboscamento, affinchè si possa evitare l'esaurimento del valore capitale della foresta.
Quindi negli Stati Uniti uno dei maggiori colpevoli è stato il Forest Service del Dipartimento dell'agricolutra, il quale possiede foreste e concede permessi annuali in base ai quali è possibile far legna, e di conseguenza distruggere gli alberi. Al contrario le foreste private possedute da grandi imprese di legname come la Georigia-Pacific e la U.S. Plywood tagliano gli alberi e rimboscano con metodi scientifici, così da assicurare una riserva futura.
Un'altra conseguenza negativa dell'incapacità del governo americano di permettere la proprietà privata delle risorse fu la distruzione, nel XIX secolo, delle praterie dell'America occidentale. Ad ogni spettatore di western sono familiari il ritratto mistico delle "praterie aperte" e gli scontri spesso violenti fra gli allevgatori di bestiame e gli agricoltori per appezzamenti di terreno. La "prateria aperta" rappresentava l'incapacità del governo di applicare la politica dello homesteading al mutamento delle condizioni del clima secco a ovest del Mississipi. Nell'East, i 160 acri di terreno concessi gratuitamente agli agricoltori che per primi avevano disboscato le terre governative costituiscono un'unità tecnologica funzionale all'agricoltura in un'area piovosa. Ma nelle zone aride dell'Ovest, nessuna fattoria per l'allevamento di bestiame poetva essere organizzata con successo su soli 160 acri di terreno. Il governo federale tuttavia si rifiutò di espandere l'unità di 160 acri e di autorizzare lo homesteading di fattorie più estese. Di qui, la "prateria aperta", sulla quale i proprietari di bestiame potevano muoversi incontrollati su terreni da pascolo di proprietà del governo. Ciò significava però che i pascoli, la terra stessa, non appartenevano a nessuno; era quindi economicamente vantaggioso per ogni allevatore portare il proprio bestiame a pascolare lì e utilizzare l'erba prima possibile, altrimenti sarebbe stata sfruttata da qualche altro allevatore. Il risultato di questo tragico rifiuto di autorizzare la proprietà privata della terra fu un eccessivo utilizzo dei pascoli, la rovina delle praterie a causa del pascolo prematuro e fuori stagione, e l'impossibilità che qualcuno piantasse nuova erba — chiunque si prendeva il disturbo di farlo doveva poi assistere impotente mentre un altro allevatore vi portava a pascolare il proprio bestiame. Di qui i tentativi illegali di molti agricoltori di recintare i terreni appropriandosene — e di qui anche gli scontri delle praterie. [...]
Vi è un settore importante in cui l'assenza della proprietà privata ha causato, e sta ancora causando, non solo l'esaurimento delle risorse, ma anche l'assoluta impossibilità di sviluppare vaste risorse poetnziali. Si tratta dell'enorme e assai produttiva risorsa degli oceani. Gli oceani fanno parte di un demanio internazionale: nessun individuo, nessuna compagnia e nessuno Stato può vantare diritti di proprietà su parti degli oceani. Di conseguenza, essi sono rimasti allo stato primitivo come lo era la terra prima dello sviluppo dell'agricoltura. L'uomo primitivo produceva attraverso le attività di "caccia e raccolta"; cacciava animali selvatici e raccoglieva frutta, noci, frutti di bosco, semi, verdure. Lavorava passivamente all'interno del proprio ambiente, invece di adoperarsi per trasformarlo; dunque egli traeva il proprio sostentamento dalla terra senza tentare di modificarla. Di conseguenza, i terreni erano improduttivi, e solo pochi uomini delle tribù riuscivano a sopravvivere. Solo con lo sviluppo dell'agricoltura, con la lavorazione e la trasformazione della terra attraverso la coltivazione fu possibile l'aumento della produttività e della qualità della vita. E fu solo con l'avvento dell'agricoltura che poté avere inizio la civiltà. Tuttavia, per permettere lo sviluppo dell'agricoltura dovettero essere riconosciuti i diritti di proprietà privata, dapprima sui campi e sulle piantagioni, e successivamente sulla terra stessa.
Per quanto riguarda l'oceano, però, ci troviamo ancora allo stadio primitivo della caccia e della raccolta. Chiunque può catturare i pesci nell'oceano, o estrarre da esso le sue risorse, ma solamente in modo casuale, da semplice cacciatore o raccoglitore. Nessuno può coltivare l'oceano, nessuno può dedicarsi all'acquacoltura. Così veniamo privati della possibilità di utilizzare le immense risorse di pesce e di minerali presenti nei mari. Ad esempio, se qualcuno tentasse di coltivare il mare e di incrementare la produttività delle zone di pesca usando fertilizzanti, questi verrebbe immediatamente privato dei frutti dei suoi sforzi, dal momento che non potrebbe impedire agli altri pescatori di impossessarsi del pesce. Di conseguenza nessuno cerca di fertilizzare gli oceani come avviene invece per la terra. Inoltre, ci sono pochissimi incentivi economici — vi sono anzi dei disincentivi — per chi volesse impegnarsi nella ricerca tecnologica dei modi e mezzi con cui migliorare la produttività delle zone di pesca, o estrarre minerali dagli oceani. Vi saranno incentivi simili solo se verranno concessi i diritti di proprietà di parti di oceani, come avviene per la terra. Già adesso è disponibile una tecnica efficace e semplice per migliorare la produttività dell'industria della pesca [...].
Gli Stati nazionali hanno tentato invano di risolvere il problema della scarsità del pesce con restrizioni assurde e dispendiose delle dimensioni delle reti, della durata delle stagioni di pesca. Nel caso del salmone, del tonno e dell'halibut i metodi di pesca sono rimasti primitivi e improduttivi a causa della limitazione dei periodi di pesca e delle stimolo alla sovrapproduzione in quei periodi. È ovvio che tali restrizioni non fanno assolutamente nulla per stimoplare lo sviluppo dell'acquacoltura. Come hanno detto i professori North e Miller: «[...] Non è nell'interesse di alcun pescatore preoccuparsi del mantenimento dei banchi di salmone. Anzi, è il contrario: è nel suo interesse pescare la maggior quantità di pesci possibile durante la stagione.» North e Miller hanno dimostrato che i diritti di proprietà privata dell'oceano, grazie ai quali i proprietari potrebbe usare tecnologie meno costose e più efficienti e al contempo preservare e rendere più produttiva la risorsa stessa, sono oggi più assegnabili che mai [...].

10 March 2010

Per una nuova libertà /1

Il retaggio libertario: la Rivoluzione americana e il liberalismo classico

L'America, quindi, più di qualsiasi altra nazione, nacque da una rivoluzione esplicitamente libertaria, una rivoluzione contro il potere coloniale, contro le tasse, il monopolio sul commercio, la regolamentazione, il militarismo e il potere del governo. La Rivoluzione portò a governi limitati da restrizioni senza precedenti. Ma mentre in America ci fu pochissima resistenza istituzionale all'avvento del liberalismo, apparverò però, sin dall'inizio, forze elitarie potenti, composte soprattutto dai grandi mercanti e coltivatori, i quali desideravano mantenere in vita il restrittivo sistema mercantilista britannico di tasse esose, controlli, e privilegi monopolistici concessi dal governo. Questi gruppi volevano un governo centrale forte e imperialista; in sintesi essi volevano il sistema britannico ma senza la presenza della Gran Bretagna. Queste forze conservatrici e reazionarie apparvero dapprima durante la Rivoluzione, e più tardi formarono il Partito federalista e l'Amministrazione federalista dell'ultimo decennio del XVIII secolo. [...]
[...] il liberalismo classico costituì una profonda minaccia per gli interessi politici ed economici delle classi dominanti che traevano benefici dal Vecchio ordine: i re, i nobili e gli aristocratici proprietari terrieri, i mercanti privilegiati, le gerarchie militari, le burocrazie statali. Nonostante le tre principali e violente Rivoluzioni avviate dai liberali — quella inglese del XVII secolo, quelle americana e francese del XVIII — le vittorie in Europa furono solo parziali. La resistenza fu ostinata e riuscì a mantenere con successo i monopoli terrieri, le istituzioni religiose, le politiche estere e militari, e per un certo periodo riuscì anche a far esercitare il diritto di voto a una ristretta élite. I liberali dovettero concentrarsi sull'estensione del suffragio, poiché era chiaro che gli interessi oggettivi economici e politici della gente comune si identificavano con la libertà individuale. È interessante notare che, all'inizio del XIX secolo, le forze laissez-faire erano ormai conosciute con il nome di "liberali" e "radicali" (appellativi riservati agli esponenti più puri e coerenti), e che l'opposizione che voleva preservare o risuscitare il Vecchio ordine fu chiamata genericamente "conservatrice". Infatti il conservatorismo ebbe inizio nei primi anni del XIX secolo come tentativo conscio di disfare e distruggere gli odiosi frutti del nuovo spirito classico liberale — delle Rivoluzioni americana, francese e industriale. Sotto la guida di due pensatori reazionari francesi, de Bonald e de Maistre, il movimento conservatore si prefisse lo scopo di sostituire la parità dei diritti e l'uguaglianza davanti alla legge con un governo gerarchico e strutturato di élites privilegiate; la libertà individuale e un governo minimo con un governo assoluto e forte; la libertà religiosa con il governo teocratico di una Chiesa di Stato; la pace e il libero commercio con il militarismo, le restrizioni mercantilistiche e la guerra come strumento di espansione dello Stato-nazione; l'industria e la libera iniziativa con la vecchia organizzazione feudale e agraria. I conservatori volevano sostituire il nuovo consumo di massa e l'innalzamento della qualità di vita per tutti con il vecchio ordine di sussistenza minima per le masse e il consumo di lusso per l'élite al governo.
Alla metà e sicuramente alla fine del XIX secolo, i conservatori si resero conto del fatto che la loro causa era inevitabilmente destinata a fallire se avessero insistito a pretendere di rinnegare l'enorme crescita del livello di vita del popolo, dovuta alla Rivoluzione industriale, e ad opporsi alla estensione del diritto di voto, ponendosi apertamente in contrasto con gli interessi della gente. Per questo l'ala destra (etichetta nata per una casualità di ordine "geografico" — il portavoce del Vecchio ordine si sedette infatti sul lato destro dell'Assemblea durante la rivoluzione francese) decise che era arrivato il momento di aggiornare il suo credo statalista ripudiando la propria dichiarata opposizione all'industrialismo e al suffragio democratico. Al disprezzo e all'odio del vecchio conservatorismo per le masse i nuovi conservatori sostituirono la doppiezza e la demagogia. Essi corteggiarono la gente col seguente ritornello: «Anche noi siamo favorevoli all'industrialismo e ad un più alto tenore di vita. Ma per raggiungere tali obiettivi, dobbiamo regolamentare l'industria per il bene pubblico; dobbiamo sistituire alle spietate regole del mercato libero e competitivo la cooperazione organizzata, e soprattutto dobbiamo sostituire alle dottrine che distruggono la nazione, la pace e il libero mercato, quei principi che invece celebrano la nazione, quali la guerra, il protezionismo, l'impero e il valore militare.» Perché questi cambiamenti avessero luogo era necessario, ovviamente, un "governo forte" piuttosto che un governo minimo.
Così, verso la fine del XIX secolo, lo statalismo e il "governo forte" fecero ritorno, ma questa volta mostravano una faccia pro-industria e pro-benessere sociale in generale. Tornò il Vecchio ordine, ma ora i beneficiari erano leggermente diversi: non più la nobiltà, i proprietari terrieri feudali, l'esercito, la burocrazia e i mercanti privilegiati, bensì l'esercito, la burocrazia, i proprietari feudali ormai deboli e principalmente i produttori privilegiati. Lanciata da Bismarck in Prussia, la Nuova destra disegnò un collettivismo di destra basato sulla guerra, sul militarismo, sul protezionismo e sulla cartellizzazione obbligatoria degli affari e dell'industria — una gigantesca rete di controlli, regolamentazioni, sussidi e privilegi che rappresentò la base della società formata dal "governo forte" e da alcuni privilegiati dell'industria e del mondo degli affati.
Si doveva fare qualcosa anche per ciò che riguardava il nuovo fenomeno della presenza di un numero enorme di operai salariati — il "proletariato". Durante il XVIII secolo e fino alla fine del XIX, la massa degli operai era a favore del laissez-faire e del libero mercato, ritenute condizioni positive per i loro interessi, sia come lavoratori che come consumatori. Anche i primi sindacati, ad esempio quelli della Gran Bretagna, erano convinti sostenitori del laissez-faire. I nuovi conservatori, guidati da Bismark in Germania e Disraeli in Gran Bretagna, indebolirono la volontà libertaria dei lavoratori versando lacrime di coccodrillo sulle condizioni delle forze di lavoro industriale e introducendo la cartellizzazione e regolamentazione dell'industria, intralciando così, e in maniera non accidentale, la competizione efficiente. Infine, nei primi anni del ventesimo secolo, il nuovo "Stato corporativo" conservatore — allora e tutt'oggi il sistema politico dominante nel mondo occidentale — reclutò sindacati "responsabili" e corporativistici come nuovi membri del "governo forte" e favorì le grandi industrie nel nuovo sistema decisionista, statalista e corporativistico.
[...]
I libertari laissez-faire [...] erano stati da sempre chiamati "liberali", ed i più puri e ligi di essi "radicali"; erano detti anche "progressisti" in quanto sostenitori del progresso industriale, della diffusione della libertà e del miglioramento della qualità della vita dei consumatori. I nuovi accademici e intellettuali statalisti si appropriarono degli aggettivi "liberale" e "progressista", e successivamente riuscirono a mettere in cattiva luce i loro oppositori laissez-faire accusandoli di essere retrogradi, "neandertaliani" e "reazionari". Lo stesso appellativo "conservatore" fu attribuito ai liberali classici. [...]
Se i liberali laissez-faire rimasero spiazzati dalla nuova recrudescenza dello statalismo e del mercantilismo in quanto statalismo corporativista e "progressista", un'altra ragione per lo sfacelo del liberalismo classico alla fine del diciannovesimo secolo fu la crescita di un nuovo movimento: il socialismo. Esso nacque negli anni Trenta del XIX secolo e si espanse rapidamente dopo gli anni Ottanta. La caratteristica peculiare del socialismo fu che nacque come movimento politico confuso e ibrido, influenzato da entrambe le ideologie alla base dei due poli politici diametralmente opposti preesistenti: il liberalismo e il conservatorismo. Dai liberali classici i socialisti presero in prestito la franca accettazione dell'industrialismo e della Rivoluzione industriale, la glorificazione della "scienza" e della "ragione" e una devozione, anche se retorica, agli ideali classici liberali quali la pace, la libertà individuale, e il miglioramento del livello di vita. È certo che i socialisti, con grande anticipo rispetto ai corporativisti, furono i pionieri di un reclutamento al proprio servizio della scienza, della ragione e dell'industrialismo. I socialisti non solo fecero propria l'adesione liberale classica alla democrazia, ma si spinsero oltre, reclamando una "democrazia allargata" grazie alla quale "la gente" avrebbe potuto controllare l'economia — e controllarsi a vicenda.
Dall'altro lato, dai conservatori i socialisti presero la devozione alla coercizione e all'utilizzo di quei mezzi statalisti con i quali era possibile raggiungere gli obiettivi liberali. L'armoniosa crescita dell'industria doveva essere realizzata tramite l'espansione dello Stato, il quale doveva diventare una istituzione onnipotente che potesse governare econimia e società in nome della "scienza". Un'avanguardia di tecnocrati doeva avere il controllo completo sulle persone e sulle proprietà di ogni individuo nel nome del "popolo" e della "democrazia". Non soddisfatto della conquista liberale della ragione e della libertà in nome della ricerca scientifica, lo Stato socialista voleva imporre il controllo da parte degli scienziati stessi su tutto e tutti; non soddisfatto che i liberali avevano permesso ai lavoratori di essere liberi di raggiungere una prosperità fino allora neppure sognata, lo Stato socialista voleva imporre il controllo da parte dei lavoratori stessi su tutto e tutti, o meglio un controllo esercitato per loro conto dai politici, burocrati e tecnocrati. Non soddisfatto del credo liberale nell'uguaglianza dei diritti, della uguaglianza davanti alla legge, lo Stato socialista voleva calpestare tale uguaglianza in nome del mostruoso ed impossibile obiettivo di raggiungere l'uguaglianza o uniformità dei risultati — voleva insomma creare una nuova élite di privilegiati, una nuova classe dunque in nome del raggiungimento di tale impossibile uguaglianza.
Il socialismo fu un movimento confuso e ibrido perché tentò di realizzare gli obiettivi liberali di libertà, pace ed armoniosa crescita industriale — obiettivi in realtà raggiungibili solo attraverso la libertà e la separazione del governo da praticamente tutto — con l'imposizione dei vecchi mezzi conservatori dello statalismo, del collettivismo e dei privilegi gerarchici. [...].
Ma la cosa peggiore dell'ascesa del movimento socialista fu che riuscì a scavalcare i liberali classici "a sinistra": cioè, in quanto partito della speranza, del radicalismo, della rivoluzione nel mondo occidentale. Come i difensori dell'ancien régime si sedettero nell'ala destra dell'aula durante la Rivoluzione, così liberali e radicali si sedettero sul lato sinistro; da quel momento e fino all'ascesa del socialismo, i libertari classici libertari rappresentavano la "sinistra" ed anche l'"estrema sinistra" sulla scala ideologica. Addirittura fino al 1848 alcuni liberali francesi militanti laissez-faire come Frédéric Bastiat si sedevano a sinistra durante l'Assemblea nazionale. I liberali classici erano partiti come il movimento politico radicale e rivoluzionario dell'Occidente, come il partito della speranza e del cambiamento in nome della libertà, della pace e del progresso. L'aver permesso ad altri di aggirarli, l'aver concesso ai socialisti di rappresentare il "partito della sinistra" fu un grave errore strategico: i liberali si trovarono così in una posizione ambigua, in mezzo, tra i poli opposti del socialismo e del conservatorismo. Poiché il libertarismo altro non è che un partito di cambiamenti e di progressi nella direzione della libertà, l'abbandono di quel ruolo significò l'abbandono di molte delle ragioni stesse alla base della sua esistenza — o nella realtà o nelle menti della gente. [...].
Negli Stati Uniti il partito liberale classico era da etmpo il Partito democratico, detto anche, nella seconda metà del XIX secolo, "partito della libertà personale". In sostanza era stato il partito non solo della libertà personale ma anche di quella economica; la colonna dell'opposizione al proibizionismo, alle leggi "puritane" e all'istruzione obbligatoria; il campione devoto del libero mercato, della moneta forte (assenza d'inflazione governativa), della separazione del sistema bancario dallo Stato e di un governo assolutamente minimo. Auspicava un potere dello Stato trascurabile e un potere federale inesistente. Per ciò che riguardava la politica estera, il Partito democratico, pur se in maniera non rigida, tendeva ad essere il partito della pace, dell'antimilitarismo e dell'antimperialismo. [...].
Oggi sembrerà strano a molti che un antimperialista possa non essere marxista, ma l'opposizione all'imperialismo iniziò ai tempi dei liberali laissez-faire, come Cobden e Bright in Inghilterra ed Eugen Richter in Prussia. La Lega antimperialista, infatti, capeggiata dall'industriale ed economista di Boston Edward Atkinson (e di cui fece parte anche Sumner) consisteva in gran parte di radicali laissez-faire che avevano combattuto la giusta battaglia a favore dell'abolizione della schiavitù e che poi avevano sostenuto il libero commercio, la moneta forte e il governo minimo. Per loro questa battaglia finale contro il nuovo imperialismo americano era semplicemente parte integrante della loro battaglia peerenne contro la coercizione, lo statalismo e l'ingiustizia — contro il "governo forte" in ogni settore della vita, sia interna sia estera.

Per una nuova libertà /0

Non solo non sono un esperto, ma nemmeno un appassionato (non ancora, almeno), di storia né di economia. Per cui è facile darmi a bere qualsiasi cosa.
Però questa visione austriaca dell'economia sembra davvero limpida e naturale, oltre che illuminante, e non si capisce come mai sia stata relegata dal mondo accademico ufficiale, se non proprio nei ghetti delle eresie, comunque fuori dal main stream delle teorie economiche.
Me non era di economia che volevo parlarvi, perchè sulla scia di queste mie letture austriache sono poi approdato a Rothbard e alle visioni libertarie del mondo. Anche qui mi si è aperto un nuovo mondo, ma questa volta sono rimasto così spiazzato e incredulo, mi sono trovato davanti ad una visione così inaspettata e lontana da qualsiasi cosa mi fosse capitato di leggere, che sto ancora cercando di digerirlo.
Per una nuova libertà
Nel frattempo, per rendervi partecipi della cosa, vi propongo qualche assaggio, forse non dei più succosi, nondimeno già capace di scuotere alcune mie implicite credenze. Scuoterle e farle quasi crollare, certo; sostituirle con le sue, forse è un po' presto, il salto sarebbe enorme, ma forse è solo questione di tempo e abitudine.
Nel primo brano che vi proporrò, ad esempio, si parla di destra e sinistra, evidenziando le numerose sovrapposizioni ideologiche che si celano dietro le apparenti diversità. Ma non si tratta (banalmente) di evidenziare i loro comuni tratti populistici o di rinunciare ad una politica propriamente intesa per una visione tecnico-economica della gestione di uno stato (e quindi sedicente trasversale e sedicente oggettiva). Il discorso è squisitamente politico e le analogie e le differenze sono tracciate in chiave storica e riguardano le radici più profonde che dovrebbero caratterizzare questa polarizzazione politica che oggi ci pare così naturale e necessaria. E che invece, se è vero quel che dice Rothbard, non è sempre esistita e non è sempre stata declinata nei termini in cui la concepiamo oggi.
Cose ovvie, direte voi. Ma non per uno come me che, tanto per dirne una, non distingue(va) benissimo i termini conservatore/liberale/liberista/libertario/radicale/progressista l'uno dall'altro...

Saranno letture un po' lunghe, più da comodino che da aggregatore.
Non cambiate canale!