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28 March 2010

Per una nuova libertà /3

Soluzioni libertarie a problemi attuali: conservazione, ecologia, sviluppo — Inquinamento
È interessante notare che ci sono due aree in cui l'inquinamento è diventato un problema grave: l'atmosfera e l'acqua, e in particolare i fiumi. Si tratta però proprio di quelle aree in cui non è ancora concessa la proprietà privata.
I fiumi, e anche gli oceani, sono in linea di massima proprietà dello Stato; la proprietà privata, e comunque la proprietà privata completa, non è mai stata concessa per le acque. In definitiva, quindi, i fiumi appartengono agli Stati. Tuttavia il diritto di proprietà dello Stato non è un vero diritto di proprietà, giacché i funzionari del governo, pur potendo controllare tale risorsa, non possono raccogliere i frutti del suo valore capitale sul mercato: non possono vendere i fiumi o venderne i titoli in borsa. Di conseguenza, non sono economicamente incentivati a preservarne la purezza e il valore. I fiumi, quindi, dal punto di vista economico, sono "proprietà di nessuno"; perciò, i funzionari hanno permesso che i fiumi potessero essere inquinati e rovinati. Chiunque ha potuto scaricare rifiuti nelle acque. Consideriamo ciò che succederebbe se le imprese private potessero possedere laghi e fiumi. Se una compagnia privata fosse proprietaria del lago Eire, ad esempio, chiunque vi scaricasse rifiuti verrebbe processato per aver aggredito la proprietà privata altrui, costretto a risarcire i danni, a cessare immediatamente l'azione aggressiva, e a desistere da simili violazioni future. Dunque, solo il diritto di proprietà privata porrebbe fine all'invasione-inquinamento delle risorse. È solo perché i fiumi non appartengono a nessuno che nessun proprietario insorge per difendere la sua preziosa risorsa dagli attacchi esterni.
Come ha detto il professor Dolan:
Se la General Motors possedesse il fiume Mississipi, stiamo pur certi che verrebbero chieste alte tariffe per gli effluenti alle industrie e alle amministrazioni comunali site lungo le rive, e l'acqua verrebbe mantenuta pulita, tanto da massimizzare i proventi degli appalti concessi alle imprese che volessero acquisire i diritti all'acqua potabile, alla ricreazione e alla pesca commerciale

17 March 2010

Per una nuova libertà /2

Soluzioni libertarie a problemi attuali: conservazione, ecologia, sviluppo

È vero che diverse risorse naturali, nel passato e nel presente, hanno rischiato l'esaurimento. Ma in ogniuno dei casi ciò non era dovuto all'"ingordigia capitalista"; al contrario, la ragione è da ravvisarsi nell'incapacità del governo di acconsentire alla proprietà privata della risorsa — un'incapacità di perseguire abbastanza radicalmente la logica dei diritti della proprietà privata.
Un esempio è quello delle risorse di legname. Nell'America occidentale e in Canada, la maggior parte delle foreste non appartiene a privati ma ai governi federali (o provinciali). Il governo le poi in gestione alle compagnie private. La proprietà privata viene concessa solo per l'utilizzo annuale della risorsa, ma non per la foresta, per la risorsa stessa. In tale situazione la compagnia privata non possiede il valore capitale e quindi non deve preoccuparsi dell'esaurimento della risorsa stessa. Non ha alcun incentivo economico a conservare la risorsa, a piantare nuovi alberi, etc. L'unico incentivo è quello di tagliare più alberi possibile, dal momento che non le viene alcun vantaggio economico dalla conservazione del valore capitale della foresta. In Europa, dove la proprietà privata delle foreste è molto più diffusa, ci sono poche lamentele contro la distruzione delle risorse del legno. Infatti laddove è permessa la proprietà privata delle foreste, è nell'interesse del proprietario preservare e ripristinare le riserve di alberi man mano che procede al disboscamento, affinchè si possa evitare l'esaurimento del valore capitale della foresta.
Quindi negli Stati Uniti uno dei maggiori colpevoli è stato il Forest Service del Dipartimento dell'agricolutra, il quale possiede foreste e concede permessi annuali in base ai quali è possibile far legna, e di conseguenza distruggere gli alberi. Al contrario le foreste private possedute da grandi imprese di legname come la Georigia-Pacific e la U.S. Plywood tagliano gli alberi e rimboscano con metodi scientifici, così da assicurare una riserva futura.
Un'altra conseguenza negativa dell'incapacità del governo americano di permettere la proprietà privata delle risorse fu la distruzione, nel XIX secolo, delle praterie dell'America occidentale. Ad ogni spettatore di western sono familiari il ritratto mistico delle "praterie aperte" e gli scontri spesso violenti fra gli allevgatori di bestiame e gli agricoltori per appezzamenti di terreno. La "prateria aperta" rappresentava l'incapacità del governo di applicare la politica dello homesteading al mutamento delle condizioni del clima secco a ovest del Mississipi. Nell'East, i 160 acri di terreno concessi gratuitamente agli agricoltori che per primi avevano disboscato le terre governative costituiscono un'unità tecnologica funzionale all'agricoltura in un'area piovosa. Ma nelle zone aride dell'Ovest, nessuna fattoria per l'allevamento di bestiame poetva essere organizzata con successo su soli 160 acri di terreno. Il governo federale tuttavia si rifiutò di espandere l'unità di 160 acri e di autorizzare lo homesteading di fattorie più estese. Di qui, la "prateria aperta", sulla quale i proprietari di bestiame potevano muoversi incontrollati su terreni da pascolo di proprietà del governo. Ciò significava però che i pascoli, la terra stessa, non appartenevano a nessuno; era quindi economicamente vantaggioso per ogni allevatore portare il proprio bestiame a pascolare lì e utilizzare l'erba prima possibile, altrimenti sarebbe stata sfruttata da qualche altro allevatore. Il risultato di questo tragico rifiuto di autorizzare la proprietà privata della terra fu un eccessivo utilizzo dei pascoli, la rovina delle praterie a causa del pascolo prematuro e fuori stagione, e l'impossibilità che qualcuno piantasse nuova erba — chiunque si prendeva il disturbo di farlo doveva poi assistere impotente mentre un altro allevatore vi portava a pascolare il proprio bestiame. Di qui i tentativi illegali di molti agricoltori di recintare i terreni appropriandosene — e di qui anche gli scontri delle praterie. [...]
Vi è un settore importante in cui l'assenza della proprietà privata ha causato, e sta ancora causando, non solo l'esaurimento delle risorse, ma anche l'assoluta impossibilità di sviluppare vaste risorse poetnziali. Si tratta dell'enorme e assai produttiva risorsa degli oceani. Gli oceani fanno parte di un demanio internazionale: nessun individuo, nessuna compagnia e nessuno Stato può vantare diritti di proprietà su parti degli oceani. Di conseguenza, essi sono rimasti allo stato primitivo come lo era la terra prima dello sviluppo dell'agricoltura. L'uomo primitivo produceva attraverso le attività di "caccia e raccolta"; cacciava animali selvatici e raccoglieva frutta, noci, frutti di bosco, semi, verdure. Lavorava passivamente all'interno del proprio ambiente, invece di adoperarsi per trasformarlo; dunque egli traeva il proprio sostentamento dalla terra senza tentare di modificarla. Di conseguenza, i terreni erano improduttivi, e solo pochi uomini delle tribù riuscivano a sopravvivere. Solo con lo sviluppo dell'agricoltura, con la lavorazione e la trasformazione della terra attraverso la coltivazione fu possibile l'aumento della produttività e della qualità della vita. E fu solo con l'avvento dell'agricoltura che poté avere inizio la civiltà. Tuttavia, per permettere lo sviluppo dell'agricoltura dovettero essere riconosciuti i diritti di proprietà privata, dapprima sui campi e sulle piantagioni, e successivamente sulla terra stessa.
Per quanto riguarda l'oceano, però, ci troviamo ancora allo stadio primitivo della caccia e della raccolta. Chiunque può catturare i pesci nell'oceano, o estrarre da esso le sue risorse, ma solamente in modo casuale, da semplice cacciatore o raccoglitore. Nessuno può coltivare l'oceano, nessuno può dedicarsi all'acquacoltura. Così veniamo privati della possibilità di utilizzare le immense risorse di pesce e di minerali presenti nei mari. Ad esempio, se qualcuno tentasse di coltivare il mare e di incrementare la produttività delle zone di pesca usando fertilizzanti, questi verrebbe immediatamente privato dei frutti dei suoi sforzi, dal momento che non potrebbe impedire agli altri pescatori di impossessarsi del pesce. Di conseguenza nessuno cerca di fertilizzare gli oceani come avviene invece per la terra. Inoltre, ci sono pochissimi incentivi economici — vi sono anzi dei disincentivi — per chi volesse impegnarsi nella ricerca tecnologica dei modi e mezzi con cui migliorare la produttività delle zone di pesca, o estrarre minerali dagli oceani. Vi saranno incentivi simili solo se verranno concessi i diritti di proprietà di parti di oceani, come avviene per la terra. Già adesso è disponibile una tecnica efficace e semplice per migliorare la produttività dell'industria della pesca [...].
Gli Stati nazionali hanno tentato invano di risolvere il problema della scarsità del pesce con restrizioni assurde e dispendiose delle dimensioni delle reti, della durata delle stagioni di pesca. Nel caso del salmone, del tonno e dell'halibut i metodi di pesca sono rimasti primitivi e improduttivi a causa della limitazione dei periodi di pesca e delle stimolo alla sovrapproduzione in quei periodi. È ovvio che tali restrizioni non fanno assolutamente nulla per stimoplare lo sviluppo dell'acquacoltura. Come hanno detto i professori North e Miller: «[...] Non è nell'interesse di alcun pescatore preoccuparsi del mantenimento dei banchi di salmone. Anzi, è il contrario: è nel suo interesse pescare la maggior quantità di pesci possibile durante la stagione.» North e Miller hanno dimostrato che i diritti di proprietà privata dell'oceano, grazie ai quali i proprietari potrebbe usare tecnologie meno costose e più efficienti e al contempo preservare e rendere più produttiva la risorsa stessa, sono oggi più assegnabili che mai [...].

10 March 2010

Per una nuova libertà /1

Il retaggio libertario: la Rivoluzione americana e il liberalismo classico

L'America, quindi, più di qualsiasi altra nazione, nacque da una rivoluzione esplicitamente libertaria, una rivoluzione contro il potere coloniale, contro le tasse, il monopolio sul commercio, la regolamentazione, il militarismo e il potere del governo. La Rivoluzione portò a governi limitati da restrizioni senza precedenti. Ma mentre in America ci fu pochissima resistenza istituzionale all'avvento del liberalismo, apparverò però, sin dall'inizio, forze elitarie potenti, composte soprattutto dai grandi mercanti e coltivatori, i quali desideravano mantenere in vita il restrittivo sistema mercantilista britannico di tasse esose, controlli, e privilegi monopolistici concessi dal governo. Questi gruppi volevano un governo centrale forte e imperialista; in sintesi essi volevano il sistema britannico ma senza la presenza della Gran Bretagna. Queste forze conservatrici e reazionarie apparvero dapprima durante la Rivoluzione, e più tardi formarono il Partito federalista e l'Amministrazione federalista dell'ultimo decennio del XVIII secolo. [...]
[...] il liberalismo classico costituì una profonda minaccia per gli interessi politici ed economici delle classi dominanti che traevano benefici dal Vecchio ordine: i re, i nobili e gli aristocratici proprietari terrieri, i mercanti privilegiati, le gerarchie militari, le burocrazie statali. Nonostante le tre principali e violente Rivoluzioni avviate dai liberali — quella inglese del XVII secolo, quelle americana e francese del XVIII — le vittorie in Europa furono solo parziali. La resistenza fu ostinata e riuscì a mantenere con successo i monopoli terrieri, le istituzioni religiose, le politiche estere e militari, e per un certo periodo riuscì anche a far esercitare il diritto di voto a una ristretta élite. I liberali dovettero concentrarsi sull'estensione del suffragio, poiché era chiaro che gli interessi oggettivi economici e politici della gente comune si identificavano con la libertà individuale. È interessante notare che, all'inizio del XIX secolo, le forze laissez-faire erano ormai conosciute con il nome di "liberali" e "radicali" (appellativi riservati agli esponenti più puri e coerenti), e che l'opposizione che voleva preservare o risuscitare il Vecchio ordine fu chiamata genericamente "conservatrice". Infatti il conservatorismo ebbe inizio nei primi anni del XIX secolo come tentativo conscio di disfare e distruggere gli odiosi frutti del nuovo spirito classico liberale — delle Rivoluzioni americana, francese e industriale. Sotto la guida di due pensatori reazionari francesi, de Bonald e de Maistre, il movimento conservatore si prefisse lo scopo di sostituire la parità dei diritti e l'uguaglianza davanti alla legge con un governo gerarchico e strutturato di élites privilegiate; la libertà individuale e un governo minimo con un governo assoluto e forte; la libertà religiosa con il governo teocratico di una Chiesa di Stato; la pace e il libero commercio con il militarismo, le restrizioni mercantilistiche e la guerra come strumento di espansione dello Stato-nazione; l'industria e la libera iniziativa con la vecchia organizzazione feudale e agraria. I conservatori volevano sostituire il nuovo consumo di massa e l'innalzamento della qualità di vita per tutti con il vecchio ordine di sussistenza minima per le masse e il consumo di lusso per l'élite al governo.
Alla metà e sicuramente alla fine del XIX secolo, i conservatori si resero conto del fatto che la loro causa era inevitabilmente destinata a fallire se avessero insistito a pretendere di rinnegare l'enorme crescita del livello di vita del popolo, dovuta alla Rivoluzione industriale, e ad opporsi alla estensione del diritto di voto, ponendosi apertamente in contrasto con gli interessi della gente. Per questo l'ala destra (etichetta nata per una casualità di ordine "geografico" — il portavoce del Vecchio ordine si sedette infatti sul lato destro dell'Assemblea durante la rivoluzione francese) decise che era arrivato il momento di aggiornare il suo credo statalista ripudiando la propria dichiarata opposizione all'industrialismo e al suffragio democratico. Al disprezzo e all'odio del vecchio conservatorismo per le masse i nuovi conservatori sostituirono la doppiezza e la demagogia. Essi corteggiarono la gente col seguente ritornello: «Anche noi siamo favorevoli all'industrialismo e ad un più alto tenore di vita. Ma per raggiungere tali obiettivi, dobbiamo regolamentare l'industria per il bene pubblico; dobbiamo sistituire alle spietate regole del mercato libero e competitivo la cooperazione organizzata, e soprattutto dobbiamo sostituire alle dottrine che distruggono la nazione, la pace e il libero mercato, quei principi che invece celebrano la nazione, quali la guerra, il protezionismo, l'impero e il valore militare.» Perché questi cambiamenti avessero luogo era necessario, ovviamente, un "governo forte" piuttosto che un governo minimo.
Così, verso la fine del XIX secolo, lo statalismo e il "governo forte" fecero ritorno, ma questa volta mostravano una faccia pro-industria e pro-benessere sociale in generale. Tornò il Vecchio ordine, ma ora i beneficiari erano leggermente diversi: non più la nobiltà, i proprietari terrieri feudali, l'esercito, la burocrazia e i mercanti privilegiati, bensì l'esercito, la burocrazia, i proprietari feudali ormai deboli e principalmente i produttori privilegiati. Lanciata da Bismarck in Prussia, la Nuova destra disegnò un collettivismo di destra basato sulla guerra, sul militarismo, sul protezionismo e sulla cartellizzazione obbligatoria degli affari e dell'industria — una gigantesca rete di controlli, regolamentazioni, sussidi e privilegi che rappresentò la base della società formata dal "governo forte" e da alcuni privilegiati dell'industria e del mondo degli affati.
Si doveva fare qualcosa anche per ciò che riguardava il nuovo fenomeno della presenza di un numero enorme di operai salariati — il "proletariato". Durante il XVIII secolo e fino alla fine del XIX, la massa degli operai era a favore del laissez-faire e del libero mercato, ritenute condizioni positive per i loro interessi, sia come lavoratori che come consumatori. Anche i primi sindacati, ad esempio quelli della Gran Bretagna, erano convinti sostenitori del laissez-faire. I nuovi conservatori, guidati da Bismark in Germania e Disraeli in Gran Bretagna, indebolirono la volontà libertaria dei lavoratori versando lacrime di coccodrillo sulle condizioni delle forze di lavoro industriale e introducendo la cartellizzazione e regolamentazione dell'industria, intralciando così, e in maniera non accidentale, la competizione efficiente. Infine, nei primi anni del ventesimo secolo, il nuovo "Stato corporativo" conservatore — allora e tutt'oggi il sistema politico dominante nel mondo occidentale — reclutò sindacati "responsabili" e corporativistici come nuovi membri del "governo forte" e favorì le grandi industrie nel nuovo sistema decisionista, statalista e corporativistico.
[...]
I libertari laissez-faire [...] erano stati da sempre chiamati "liberali", ed i più puri e ligi di essi "radicali"; erano detti anche "progressisti" in quanto sostenitori del progresso industriale, della diffusione della libertà e del miglioramento della qualità della vita dei consumatori. I nuovi accademici e intellettuali statalisti si appropriarono degli aggettivi "liberale" e "progressista", e successivamente riuscirono a mettere in cattiva luce i loro oppositori laissez-faire accusandoli di essere retrogradi, "neandertaliani" e "reazionari". Lo stesso appellativo "conservatore" fu attribuito ai liberali classici. [...]
Se i liberali laissez-faire rimasero spiazzati dalla nuova recrudescenza dello statalismo e del mercantilismo in quanto statalismo corporativista e "progressista", un'altra ragione per lo sfacelo del liberalismo classico alla fine del diciannovesimo secolo fu la crescita di un nuovo movimento: il socialismo. Esso nacque negli anni Trenta del XIX secolo e si espanse rapidamente dopo gli anni Ottanta. La caratteristica peculiare del socialismo fu che nacque come movimento politico confuso e ibrido, influenzato da entrambe le ideologie alla base dei due poli politici diametralmente opposti preesistenti: il liberalismo e il conservatorismo. Dai liberali classici i socialisti presero in prestito la franca accettazione dell'industrialismo e della Rivoluzione industriale, la glorificazione della "scienza" e della "ragione" e una devozione, anche se retorica, agli ideali classici liberali quali la pace, la libertà individuale, e il miglioramento del livello di vita. È certo che i socialisti, con grande anticipo rispetto ai corporativisti, furono i pionieri di un reclutamento al proprio servizio della scienza, della ragione e dell'industrialismo. I socialisti non solo fecero propria l'adesione liberale classica alla democrazia, ma si spinsero oltre, reclamando una "democrazia allargata" grazie alla quale "la gente" avrebbe potuto controllare l'economia — e controllarsi a vicenda.
Dall'altro lato, dai conservatori i socialisti presero la devozione alla coercizione e all'utilizzo di quei mezzi statalisti con i quali era possibile raggiungere gli obiettivi liberali. L'armoniosa crescita dell'industria doveva essere realizzata tramite l'espansione dello Stato, il quale doveva diventare una istituzione onnipotente che potesse governare econimia e società in nome della "scienza". Un'avanguardia di tecnocrati doeva avere il controllo completo sulle persone e sulle proprietà di ogni individuo nel nome del "popolo" e della "democrazia". Non soddisfatto della conquista liberale della ragione e della libertà in nome della ricerca scientifica, lo Stato socialista voleva imporre il controllo da parte degli scienziati stessi su tutto e tutti; non soddisfatto che i liberali avevano permesso ai lavoratori di essere liberi di raggiungere una prosperità fino allora neppure sognata, lo Stato socialista voleva imporre il controllo da parte dei lavoratori stessi su tutto e tutti, o meglio un controllo esercitato per loro conto dai politici, burocrati e tecnocrati. Non soddisfatto del credo liberale nell'uguaglianza dei diritti, della uguaglianza davanti alla legge, lo Stato socialista voleva calpestare tale uguaglianza in nome del mostruoso ed impossibile obiettivo di raggiungere l'uguaglianza o uniformità dei risultati — voleva insomma creare una nuova élite di privilegiati, una nuova classe dunque in nome del raggiungimento di tale impossibile uguaglianza.
Il socialismo fu un movimento confuso e ibrido perché tentò di realizzare gli obiettivi liberali di libertà, pace ed armoniosa crescita industriale — obiettivi in realtà raggiungibili solo attraverso la libertà e la separazione del governo da praticamente tutto — con l'imposizione dei vecchi mezzi conservatori dello statalismo, del collettivismo e dei privilegi gerarchici. [...].
Ma la cosa peggiore dell'ascesa del movimento socialista fu che riuscì a scavalcare i liberali classici "a sinistra": cioè, in quanto partito della speranza, del radicalismo, della rivoluzione nel mondo occidentale. Come i difensori dell'ancien régime si sedettero nell'ala destra dell'aula durante la Rivoluzione, così liberali e radicali si sedettero sul lato sinistro; da quel momento e fino all'ascesa del socialismo, i libertari classici libertari rappresentavano la "sinistra" ed anche l'"estrema sinistra" sulla scala ideologica. Addirittura fino al 1848 alcuni liberali francesi militanti laissez-faire come Frédéric Bastiat si sedevano a sinistra durante l'Assemblea nazionale. I liberali classici erano partiti come il movimento politico radicale e rivoluzionario dell'Occidente, come il partito della speranza e del cambiamento in nome della libertà, della pace e del progresso. L'aver permesso ad altri di aggirarli, l'aver concesso ai socialisti di rappresentare il "partito della sinistra" fu un grave errore strategico: i liberali si trovarono così in una posizione ambigua, in mezzo, tra i poli opposti del socialismo e del conservatorismo. Poiché il libertarismo altro non è che un partito di cambiamenti e di progressi nella direzione della libertà, l'abbandono di quel ruolo significò l'abbandono di molte delle ragioni stesse alla base della sua esistenza — o nella realtà o nelle menti della gente. [...].
Negli Stati Uniti il partito liberale classico era da etmpo il Partito democratico, detto anche, nella seconda metà del XIX secolo, "partito della libertà personale". In sostanza era stato il partito non solo della libertà personale ma anche di quella economica; la colonna dell'opposizione al proibizionismo, alle leggi "puritane" e all'istruzione obbligatoria; il campione devoto del libero mercato, della moneta forte (assenza d'inflazione governativa), della separazione del sistema bancario dallo Stato e di un governo assolutamente minimo. Auspicava un potere dello Stato trascurabile e un potere federale inesistente. Per ciò che riguardava la politica estera, il Partito democratico, pur se in maniera non rigida, tendeva ad essere il partito della pace, dell'antimilitarismo e dell'antimperialismo. [...].
Oggi sembrerà strano a molti che un antimperialista possa non essere marxista, ma l'opposizione all'imperialismo iniziò ai tempi dei liberali laissez-faire, come Cobden e Bright in Inghilterra ed Eugen Richter in Prussia. La Lega antimperialista, infatti, capeggiata dall'industriale ed economista di Boston Edward Atkinson (e di cui fece parte anche Sumner) consisteva in gran parte di radicali laissez-faire che avevano combattuto la giusta battaglia a favore dell'abolizione della schiavitù e che poi avevano sostenuto il libero commercio, la moneta forte e il governo minimo. Per loro questa battaglia finale contro il nuovo imperialismo americano era semplicemente parte integrante della loro battaglia peerenne contro la coercizione, lo statalismo e l'ingiustizia — contro il "governo forte" in ogni settore della vita, sia interna sia estera.

Per una nuova libertà /0

Non solo non sono un esperto, ma nemmeno un appassionato (non ancora, almeno), di storia né di economia. Per cui è facile darmi a bere qualsiasi cosa.
Però questa visione austriaca dell'economia sembra davvero limpida e naturale, oltre che illuminante, e non si capisce come mai sia stata relegata dal mondo accademico ufficiale, se non proprio nei ghetti delle eresie, comunque fuori dal main stream delle teorie economiche.
Me non era di economia che volevo parlarvi, perchè sulla scia di queste mie letture austriache sono poi approdato a Rothbard e alle visioni libertarie del mondo. Anche qui mi si è aperto un nuovo mondo, ma questa volta sono rimasto così spiazzato e incredulo, mi sono trovato davanti ad una visione così inaspettata e lontana da qualsiasi cosa mi fosse capitato di leggere, che sto ancora cercando di digerirlo.
Per una nuova libertà
Nel frattempo, per rendervi partecipi della cosa, vi propongo qualche assaggio, forse non dei più succosi, nondimeno già capace di scuotere alcune mie implicite credenze. Scuoterle e farle quasi crollare, certo; sostituirle con le sue, forse è un po' presto, il salto sarebbe enorme, ma forse è solo questione di tempo e abitudine.
Nel primo brano che vi proporrò, ad esempio, si parla di destra e sinistra, evidenziando le numerose sovrapposizioni ideologiche che si celano dietro le apparenti diversità. Ma non si tratta (banalmente) di evidenziare i loro comuni tratti populistici o di rinunciare ad una politica propriamente intesa per una visione tecnico-economica della gestione di uno stato (e quindi sedicente trasversale e sedicente oggettiva). Il discorso è squisitamente politico e le analogie e le differenze sono tracciate in chiave storica e riguardano le radici più profonde che dovrebbero caratterizzare questa polarizzazione politica che oggi ci pare così naturale e necessaria. E che invece, se è vero quel che dice Rothbard, non è sempre esistita e non è sempre stata declinata nei termini in cui la concepiamo oggi.
Cose ovvie, direte voi. Ma non per uno come me che, tanto per dirne una, non distingue(va) benissimo i termini conservatore/liberale/liberista/libertario/radicale/progressista l'uno dall'altro...

Saranno letture un po' lunghe, più da comodino che da aggregatore.
Non cambiate canale!