Showing posts with label meccanica quantistica. Show all posts
Showing posts with label meccanica quantistica. Show all posts

13 February 2018

La blogosfera su Facebook

 
Sì, la blogosfera si è definitivamente spostata (e allargata, ma questo è un altro discorso) su Facebook.
«Neither superposition nor entanglement are quantum features. Thet are both a feature of wave mechanics. What makes quantum "quantum" is the collapse of the wavefunction, nothing else. Incidentally this makes quantum entanglement much more interesting and counterintuitive than its classical counterpart.»
Purtroppo non posso linkare perché — ed è questo il problema di Facebook — la conversazione è ristretta agli «amici».

06 May 2016

PR-boxes: correlazioni senza segnali superluminali più forti dell'entanglement quantistico

Spontaneous parametric down-conversion figure.png
Spontaneous parametric down-conversion
(Wikimedia Commons, the free media repository)
Conoscevo le disuguaglianze di Bell come formulazione quantitativa dell'idiosincrasia della meccanica quantistica per realismo o località; non sapevo che è concepire delle misure correlate in maniera ancora più forte di quanto lo siano misure su sistemi entangled, me mantenendo la condizione di non usare (cioè senza implicare la possibilità di inviare dei) segnali superluminali.
Debbo la scoperta ad un breve pezzo su quantumfrontiers, si tratta delle cosiddette PR-boxes e più genericamente si parla di superquantum correlations, e ovviamente viene naturale chiedersi come mai in natura si diano correlazioni più forti di quelle completamente locali, quelle dell'entanglement, ma non ancora più forti come quelle di ipotetiche PR-boxes, e se ci sia qualcosa di profondo sotto...

16 May 2014

Fluttuazioni quantistiche in cosmologia

E dopo il quantum computing (vi ricordate, no, la storia dell'epistemologia quantitativa di Aaronson, no? "Computer science" is a bit of a misnomer; maybe it should be called "quantitative epistemology") scopro che anche la moderna cosmologia — Sean Carroll, Squelching Boltzmann Brains (And Maybe Eternal Inflation) — può avere qualcosa da dire (addirittura con evidenze sperimentali? vedi le recenti misure di BICEP2) sulla natura delle fluttuazioni quantistiche e sulle diverse "interpretazioni" della meccanica quantistica.

30 August 2009

Relational physics

Coincidenze temporali?
Tomate comincia un serial su Julian Barbour e il "relazionalismo" poco dopo che, per puro caso, leggevo questa news dal "notiziario sissa", che mi rimandava qui, dove, oltre che da disegni e animazioni, rimanevo colpito dal framework Relational Quantum Gravity e mi tuffavo su en.wiki scoprendo questo e questo.
Altre letture da mettere in To Do List al punto Meccanica Quantistica, e non ho ancora spuntato nemmeno il primo sotto-punto Zurek...

28 June 2009

To Do List

Post àla tomate,ma più prosaico, perchè questa lista è un desiderata dannatamente reale,se solo riuscissi a trovare un po' ditempo...
  • Quine — ce ne sarebbero un sacco, di post, da scrivere, ma mi sarebbe piaciuto almeno chiarire la questione dell'olismo epistemologico. Sembrerebbe la cosa più facile da spiegare, visto che la tesi di Duhem-Quine si intuisce e si accetta abbastanza facilmente. Ma l'olismo di Quine è più estremo: l'indeterminatezza della traduzione è differente dalla (e per certi versi più destabilizzante della) sottodeterminazione della scienza di Duhem.
  • Meccanica Quantistica
    • Zurek — mi ero stampato l'articolo di Schlosshauer, me l'ero letto e mi ero appuntato un sacco di considerazioni interessantissime, intelligentissime e molto, molto argute. Ma quando ieri l'ho riaperto ho visto che i segni a matita erano criptici e anche un po' sbiaditi. E non mi ricordavo più nulla. :(
      Però almeno ho fatto una scoperta originalissima: scrivere appunti a margine non è una buona strategia...
    • Equivalence Postulate (of Quantum Mechanics) — mi ero stampato l'articolo di Faraggi e Matone, me l'ero letto e no, in questo caso non avevo prodotto pensieri molto interessanti. Ma qualche domanda per tomate, quelle sì che ce le avevo. Ma ho dimenticato anche quelle :(
  • Politica
    • Gossip
  • Papa
    • Simonia
    • Sepolcri imbiancati
    • Martin Lutero Blissett Q
  • KDE4 — forse sta arrivando il momento in cui potrò installare KDE4 anche sul portatile:
Approfitto poi di questo post per segnalare, perchi non l'avesse notato fra imiei shareditem,il videodel talk di StefanoQuintarelli: Dalmondo fisico al mondo immateriale. Solito stile Quintarelli:minima magniloquenza, massimo contenuto, analisi acuta e visioniemozionanti.

05 May 2009

Complementarietà, Contraddizioni, Bell e Bohr

Bohr elaborò una filosofia di quello che sta dietro le ricette della teoria [della Meccanica Quantistica, ndh]. Anziché essere disturbato dall’ambiguità di principio, egli sembra trovarci ragioni di soddisfazione. Egli sembra gioire della contraddizione, per esempio, tra onda e particella che emerge in ogni tentativo di superare una posizione pragmatica nei confronti della teoria. [...] Non allo scopo di risolvere queste contraddizioni e ambiguità, ma nel tentativo di farcele accettare egli formulò una filosofia, che chiamò complementarietà. Pensava che la complementarietà fosse importante non solo per la fisica, ma per tutta la conoscenza umana. Il suo immenso prestigio ha portato quasi tutti i testi di meccanica quantistica a menzionare la complementarietà, ma di solito in poche righe. Nasce quasi il sospetto che gli autori non capiscano abbastanza la filosofia di Bohr per trovarla utile. Einstein stesso incontrò grandi difficoltà nel cogliere con chiarezza il senso di Bohr. Quale speranza resta allora per tutti noi?
Io posso dire molto poco circa la complementarietà, ma una cosa la voglio dire. Mi sembra che Bohr usi questo termine in senso opposto a quello usuale. Consideriamo per esempio un elefante. Dal davanti esso ci appare come una testa, il tronco e due gambe. Dal dietro esso è un sedere, una coda e due gambe. Dai lati appare diverso e dall’alto e dal basso ancora diverso. Queste varie visioni parziali risultano complementari nel senso usuale del termine. Si completano una con l’altra, risultano mutuamente consistenti, e tutte assieme sono incluse nel concetto unificante di “elefante”. Ho l’impressione che assumere che Bohr usasse il termine complementare in questo senso usuale sarebbe stato considerato da lui stesso come un non aver colto il punto e aver banalizzato il suo pensiero. Lui sembra piuttosto insistere sul fatto che, nelle nostre analisi, si debbano usare elementi che si contraddicono l’un l’altro, che non si sommano o non derivano da un tutto. Con l’espressione complementarietà egli intendeva, mi pare, l’opposto: contraddittorietà. Sembra che Bohr amasse aforismi del tipo: l’opposto di una profonda verità rappresenta anch’esso una profonda verità; la verità e la chiarezza sono complementari. Forse egli trovava una particolare soddisfazione nell’usare una parola familiare a tutti attribuendogli un significato opposto a quello usuale. La concezione basata sulla Complementarietà è una di quelle che io chiamerei le visioni romantiche del mondo ispirate dalla teoria quantistica.
John Stewart Bell
(citato da Gian Carlo Ghirardi in Un'occhiata alle carte di Dio)

17 March 2009

Quine + |Zurek>

Sto cominciando a giocare troppo coi titoli, eh? Effettivamente l'unico riferimento a Quine questa volta riguarda la giustificazione sul perchè questo post non parla di Quine. E la giustificazione è che Clodovendro mi ha distratto dalla mia priorità di conquistare il mondo di divulgare Quine, tentandomi con le sirene delle interpretazioni della meccanica quantistica. Già lo so che sarà la solita bella senz'anima, come tutte, ma, come tutte, l'idea è stuzzichevole e vien voglia di approfondire un po'.
Questa volta è il turno di Zurek e del suo darwinismo quantistico (esatto: si cita Charles nel nome, se ne poteva non parlare anche per Prgetto Darwin su Progetto Galileo?). Dalla breve review segnalatami da Clodovendro non ci ho capito molto, ma del resto il terreno mi franava sotto i piedi a sentir parlare di decoherence e profondi abissi mi si spalancavano davanti ad einselection ed envariance (termini per me fino a quel momento sconosciuti...).
Così, invece di lavorare per voi su Quine, mi sono spulciato la bibliografia, mi sono scaricato una review un po' più corposa e nel week-end mi sono dato alla lettura, nella speranza di capirci qualcosina in più.
Il risultato (ma non ho ancora finito di leggere quest'ultimo articolo) non è che ora ho le idee più chiare, ma è che ora voi vi beccate due belle domandine in bottiglia che lancio nell'etere digitale.

   —   ∴   —   
 
La prima domanda è forse la più tecnica delle due, per cui la lascio per seconda, altrimenti quasi tutti si fermeranno subito e non proseguiranno a leggere la seconda, che pertanto esporrò per prima.
 
La seconda domanda, dunque, rappresenta, o almeno così mi par di capire, il punto centrale dell'idea di Zurek. Uno dei tanti modi di raccontare il problema della meccanica quantistica di cui, da quasi un secolo ormai, si cerca di venire a capo, è sottolineare l'irriducibile stridore fra i suoi postulati "matematici" da una parte (stati come raggi di vettori in spazi di Hilbert ed evoluzione unitaria, lineare e deterministica) e dall'altra quelli "di misura" (la legge di Born sulla probabilità e il fantomatico collasso della funzione d'onda). Ebbene, l'approccio di Zurek è quello di provare a partire dai primi e dedurre come loro "ovvia" conseguenza i secondi. L'approccio, sempre per quel che capisco, non è "fondazionale": non pretende di fornire esplicitamente un'espressione puramente quantistica per l'interazione sistema-apparato da cui dedurre "matematicamente" (nel senso di sopra) il collasso della ψ dall'equazione di Schroedinger. Piuttosto Zurek parte dall'assunzione che un'interazione di questo tipo esista, e prova a studiarne alcune sue caratterische.
Zurek parte dunque mettendo sullo stesso piano "quantistico" tanto il sistema, descritto dallo stato , quanto l'apparato di misura, l'ambiente con cui il sistema interagisce, descritto anch'esso da uno stato quantistico . Ebbene, l'assunzione fondamentale di Zurek è che l'interazione () che ha luogo durante una misura sia di questo tipo: (M)
0 = k skk0    k skkk
Zurek assume, cioè, che esistano degli stati k del sistema che restano invariati durante la misura e che, di più, lasciano un loro "imprinting" nell'ambiente, il quale a seguito dell'interazione modifica il suo stato da 0 a una sovrapposizione di k ciascuno dei quali "si porta dietro l'informazione" sulla componente k dello stato .
Tale assunzione di Zurek, se è davvero nei termini che ho esposto, sembra chiaramente molto forte. Non so abbastanza di decoherence, magari esistono degli esempi di decoerenza che possono essere modellizzati in questo modo (magari proverò a chiedere al mio amico Dragon Ball...), ma è certo che deve trattarsi di una qualche modellizzazione efficace (nel senso tecnico di effective) perchè la linearità dell'evoluzione unitaria mi pare che proibisca un'evoluzione come quella scritta sopra (può benissimo essere che mi sia arrugginito molto a non far più fisica, in tal caso fatemelo notare nei commenti!).
L'obiezione a questa mia obiezione è che l'intento di Zurek è proprio quello di spiegare il collasso della funzione d'onda, ed è quindi ovvio che da qualche parte debba forzare la meccanica quantistica "classica". Se posso fare un appunto, però, mi sembra che nei suoi articoli non si evidenzi abbastanza che dietro questa assunzione si celi la presunta "spiegazione" del collasso e che si tratta di un'assunzione "non standard" (ed è per questo che ho il forte sospetto che sia io a non aver capito qualcosa...)
Il resto delle argomentazioni di Zurek, fatto questo passo, diventano concettualmente semplici, o almeno è possibile riassumerle brevemente e "senza formule". Quel che Zurek dimostrerebbe è che gli stati k che soddisfano la condizione (M) devono necessariamente costituire una base ortonormale, ovvero devono essere autostati di un operatore autoaggiunto. La cosa, cioè, sarebbe la spiegazione del fatto che i risultati di una misura possono essere solo autostati di un simile operatore (ci tengo a dire che non sono riuscito affatto a seguire nei dettagli tali ulteriori passaggi e che il riassunto di sopra rappresenta quasi sicuramente una semplificazione eccessiva).
 
E la regola di Born sulle probabilità? Per quello è sufficiente invocare l'envariance, altrimenti nota come environment assisted invariance — e non potendo linkare wikipedia, mi tocca linkare da arxiv... — e il gioco è fatto. O così almeno crede Zurek. Perchè io, proprio a questo proposito, avrei giusto la mia prima domandina in bottiglia che attende.
 
Come dicevo, questa domanda è ancora più tecnica della precedente (mi perdonino i lettori a digiuno di fisica). Detto in parole semplici (e così l'anima pia vagante che vorrà provare a rispondermi potrà puntare il dito sul punto preciso in cui non ho capito... JB sei in ascolto?) si tratterebbe della possibilità di poter cambiare arbitrariamente le relazioni di fase φ(k) fra le ampiezze sk nel generico stato  = k skk di un sistema:
 → k eιφ(k)skk
forti del fatto di poterle poi "annullare" nel sistema "ambiente" con cui il sistema è accoppiato:
 → k e-ιφ(k)k 
Ora sicuramente c'è qualcosa di banale che non ho capito, perchè uno degli insegnamenti basilari che mi sono rimasti della meccanica quantistica è prorpio quello che la fase irrilevante è solo quella overall, mentre le fasi relative non solo sono rilevabili, ma sono anche rilevanti, com'è proprio il caso paradigmatico della particella libera a una dimensione: lì le fasi relative fra le ampiezze nelle |x rappresentano proprio il momento della particella: cambiare quelle fasi significa cambiare la distribuzione dei momenti della particella. Di più: non è possibile scegliere arbitrariamente quelle fasi e preparare, ad esempio, uno stato gaussiano strettamente reale nelle |x (ossia  = x sx|x con tutti i coefficienti sx con parte immaginaria nulla), perchè violerebbe il principio di indeterminazione! Pensare di effettuare una trasformazione del genere non una (solo sulla ) ma addirittura due volte (anche sull'ambiente ) senza che questo modifichi la fisica dei due sistemi, non mi sembra possibile: cos'ha in mente, dunque, Zurek?!?
 
Insomma, questa volta, prima di potermi abbandonare alla delusione dell'ennesimo vano tentativo di interpretazione per la meccanica quantistica... vorrei almeno prima capirlo! :)

21 January 2009

essere o trovare

Meccanica statistica classica: probabilità di essere.
Meccanica (statistica) quantistica: probabilità di trovare.
Il problema, lo sappiamo, non è il fatto che Dio giochi a dadi. Il problema è l'abisso senza fondo che separa osservatore e osservato. E l'abisso è tutto (e soltanto?) lì dentro, in quel trovare, che la meccanica quantistica non riesce a scrollarsi di dosso. Che non può scrollarsi di dosso, perchè è il significato stesso, della meccanica quantistica, così come la conosciamo, da quasi cent'anni, ormai.

30 June 2008

Quantum Computing Since Democritus

Prosegue la pubblicazione delle lectures del corso di Aaronson del 2006. Dopo lo sprazzo isolato di febbraio, in questo giugno ben tre post hanno annunciato tre nuove puntate del corso.
Ovviamente non ho ancora trovato il tempo di leggerle tutte, ma già la prima, How Big Are Quantum States?, offre spunti molto interessanti. Aaronson, lo sappiamo, ama le frasi ad effetto, ed anche ora parte alto:
"computer science" is a bit of a misnomer; maybe it should be called "quantitative epistemology".
Ma questa volta sembra abbastanza convincente.
E' quasi un secolo, ormai, che la meccanica quantistica continua a reggere contro tutti i tentativi di attacco sperimentale, mentre il fastidio "filosofico" che si prova a maneggiarla non si è ridotto punto. Ebbene, leggendo Aaronson si ha davvero la sensazione che i metodi della computer science possano finalmente offrire possibilità concrete per aprire una breccia proprio sul lato concettuale dei problemi. Ma è solo un paradosso, non c'è contraddizione: da una parte davvero la teoria della computabilità guarda alla meccanica quantistica da un punto di vista squisitamente teorico, e tuttavia, ugualmente, lo spirito è innegabilmente galileiano, quello con cui si parte da casi concreti e problemi circoscritti, per lasciar comporre alle loro risposte, le risposte alle domande più generali sui massimi sistemi:
Now that we have quantum computing, can we bring the intellectual arsenal of computational complexity theory to bear on this sort of question? I hate to disappoint you, but we can't resolve this debate using computational complexity. It's not well-defined enough. Although we can't declare one of these views to be the ultimate victor, what we can do is to put them into various "staged battles" with each other and see which one comes out the winner. To me, this is sort of the motivation for studying all sorts of questions about quantum proofs, advice, and communication.
Buona lettura!

22 November 2007

Probabilità negative 2: dalla probabilità ad uno spazio lineare (e poi daccapo)

Riprendo il discorso da dove l'avevo lasciato, qui, sulla lezione 9 di Aaronson.
   —   ∴   —   
Il percorso ingannevole parte con la rimozione della condizione di normalizzazione per una distribuzione di probabilità. Poiche' tale condizione si traduce semplicemente in un riscalamento complessivo di tutte le probabilità con un fattore costante globale, univocamente determinato dalla distribuzione stessa, si puo' sempre pensare di procedere senza questo vincolo e riapplicarlo solo alla fine quando bisogna confrontare le probabilità con le effettive frequenze misurate sperimentalmente. Del resto il concetto di probabilità nasce proprio come frequenze normalizzate, le frequenze essendo semplicemente non-negative.
 
Se si procede a questa sorta di semplificazione o di generalizzazione del concetto di probabilità, una distribuzione di probabilità si trasforma da combinazione lineare convessa a combinazione lineare non-negativa, sui possibili esiti. Da qui a chiedere di rimuovere anche il vincolo di non-negativita' delle componenti, fino ad ottenere un vero e proprio spazio lineare di probabilità, il passo e' breve (almeno per Aaronson).
Si noti, però, che il carattere di spazio lineare è del tutto innaturale per uno spazio di probabilità: le distribuzioni di probabilità non si sommano fra di loro nè si fanno combinazioni lineari. La mossa verso uno spazio lineare, in questo ragionamento, è una mossa dettata completamente a posteriori dal fatto che uno spazio lineare sarà la base della meccanica quantistica (gli stati fisici, quelli sì, si sommano, ovvero si sovrappongono).
 
Le ampiezze complesse della meccanica quantistica sono legate al suo carattere probabilistico e "somigliano" alle probabilità stesse, ma il loro carattere lineare è completamente estraneo al tradizionale concetto di probabilità. Il passaggio presuppone, dunque, non solo un'estensione di dominio (da reale-non-negativo a complesso) ma un vero e proprio salto di struttura matematica. E' diffile accettare questo salto semplicemente come una "naturale generalizzazione" piuttosto che come un'analogia forzata.
 
Ma torniamo a questa presunta generalizzazione. In ogni caso queste componenti della combinazione lineare (non piu' non-negativa ne' convessa) non possono piu' essere interpretate direttamente come probabilità, ovvero messe a diretto confronto con le frequenze misurate sperimentalmente. Allora si decide di ricostruire una distribuzione di probabilità tramite un meccanismo di ri-non-negativizzazione (l'applicazione del modulo-quadro) di quelle componenti e, risalendo a ritroso, di ri-normalizzazione. E arriviamo dunque ad una 2-norma del vettore dello spazio lineare precedentemente costruito.
 
E' chiaro che tale procedimento, partito in qualche modo come semplificazione per il calcolo matematico (l'applicazione di un vincolo solo in fase finale) e dunque di carattere del tutto arbitrario e convenzionale, finisce per originare una struttura del tutto nuova (lo spazio lineare delle ampiezze) su cui imbastire uno spazio di probabilità esattamente identico a quello che si intendeva semplificare e/o generalizzare (fatto di componenti non-negative e normalizzate, il modulo quadro di quelle ampiezze).
 
Insomma, il concetto di probabilità non viene in alcun modo generalizzato (si tratta sempre di un'astrazione del limite per delle frequenze misurate sperimentalmente), ma semplicemente innestato su un substrato di spazio lineare che pretende di costituire il fondamento per l'evoluzione temporale e la combinazione di quelle distribuzioni di probabilità. Ovvero, pretende di costituire la fisica che soggiacie alle probabilità misurate sperimentalmente, esattamente come la fisica classica costituiva il substrato fisico per le distribuzioni di probabilità sperimentali, prima dell'analisi dei fenomeni atomici e microscopici. Con l'avvento della meccanica quantistica ci si è resi conto che le distribuzioni di probabilità sperimentalmente misurate (le distribuzioni di frequenze) devono essere descritte con un formalismo basato su uno spazio lineare. Ci si è poi resi conto che questa nuova fisica "lineare" aveva proprietà molto strane rispetto a qualsiasi cosa si fosse abituati (entanglment, disuguaglianze di Bell) e che fosse intrinsecamente probabilistica (differenza fra miscele statistiche e sovrapposizioni coerenti).
 
Ma tutto ciò ha a che fare con la fisica, non con la probabilità.

16 October 2007

probabilità negative, ovvero: non poteva che essere meccanica quantistica

La Meccanica Quantistica è quello a cui si arriva inevitabilmente se si parte dalla teoria della probabilità e si prova poi a generalizzarla in maniera che i numeri che usualmente chiamiamo "probabilità" possano essere negativi. In questi termini, la teoria avrebbe potuto essere inventata dai matematici nel XIX secolo senza alcun input sperimentale. Non è stato così, ma avrebbe potuto essere.
Eppure, con tutte le strutture studiate dai matematici, nessuno di essi è giunto alla meccanica quantistica finchè l'esperimento non l'ha costretto.
Questa è una perfetta esemplificazione del perchè gli esperimenti sono importanti. Quasi sempre l'unico vero motivo per cui abbiamo bisogno degli esperimenti è che non siamo abbastanza acuti. Una volta effettuati gli esperimenti, se abbiamo imparato qualcosa che valeva la pena sapere, è — si spera — proprio il perchè non era necessario partire con un esperimento, perchè non avrebbe avuto senso che il mondo fosse altrimenti. Ma eravamo troppo ottusi per capirlo da soli!
Scott Aaronson, PHYS771, Lecture 9
(mia libera traduzione)
 
Mi sarebbe piaciuto condividere, ma in fondo le cose non stanno proprio così.
   —   ∴   —   
Intendiamoci, i termini generali di una posizione simile sono del tutto condivisibili (hai la sensazione di aver capito davvero proprio quando ti accorgi che le cose non potevano essere altrimenti) e non esiterei a sottoscriverli per il caso della Relatività Speciale (e del resto Einstein non era partito affatto dai risultati dell'esperimento di Michelson-Morley) e forse ancor di più per la Relatività Generale. Ed è anche vero, per citare la teoria dell'evoluzione menzionata da Aaronson, che sebbene Darwin giunse alla sua intuizione dopo un prolungato periodo di osservazione della fauna delle Galapagos, tuttavia non ebbe bisogno di appoggiarsi alla teoria di Mendel sull'ereditarietà dei caratteri nè di conoscere il dogma centrale della biologia moderna che impedisce ai caratteri acquisiti à la Lamark di essere trasmessi alle generazioni successive.
Ma il caso della meccanica quantistica, secondo me, è profondamente diverso, soprattutto se guardato dal punto di vista che propone Aaronson, quello della probabilità.
Il concetto di probabilità nasce in simbiosi con quello di frequenza e non ha senso parlare di probabilità negativa neanche in meccanica quantistica. La novità matematica alla base della meccanica quantistica che, si sostiene, avrebbe potuto essere "inventata" senza inbeccata sperimentale, non è alcun concetto di probabilità negativa (o addirittura complessa). La novità è uno spazio lineare (con prodotto interno, uno spazio di Hilbert) come substrato dello spazio di probabilità, da cui derivare, cioè, la distribuzione di probabilità stessa come una p-norma dei vettori di quello spazio. Ma questa idea non ha alcun carattere di necessità, una teoria della probabilità non ha alcun bisogno di ergersi su uno spazio lineare. E del resto la meccanica quantistica vede in tale spazio lineare la natura fisica del mondo, un modello di realtà che, tra le altre cose, presenta caratteri di aleatorietà da descrivere per mezzo di distribuzioni di probabilità del tutto "tradizionali" (reali e non-negative). E se invece dalle solite miscele statistiche siamo arrivati a dover maneggiare cose terribili come le sovrapposizioni coerenti e le violazioni delle disuguaglianze di Bell (cose che nessun filosofo che si fosse divertito a distinguere fra probabilità epistemica e non-epistemica avrebbe comunque mai potuto immaginare), è perchè abbiamo dovuto fronteggiare una nuova fisica, non perchè abbiamo scoperto nuove proprietà matematiche del concetto di probabilità.
Certo, una volta accettata l'idea di uno spazio lineare da cui derivare distribuzioni di probabilità, ci sono ragioni di consistenza intrinseca e naturalezza che conducono a nient'altro che una 2-norma su uno spazio di Hilbert su campo complesso. E per questo vale assolutamente la pena di leggere la lezione 9 di Aaronson. Ma pensare che, per questo, il mondo non poteva non realizzare altro che la teoria della meccanica quantistica, significa non rendersi conto che la meccanica quantistica non è una teoria della probabilità, ma una teoria che fa uso della teoria della probabilità.
Al di là della questione particolare sollevata da Aaronson, comunque, siamo ancora ben lontani da una comprensione della meccanica quantistica à la "non poteva che essere così!". Ma forse non è questione di comprensione quanto, banalmente, che non siamo ancora arrivati alla teoria che "non poteva che essere così!"...

28 July 2007

La dimensione trasversa di un fotone
ovvero
Domande sbagliate


Ma uno specchio semitrasparente e' davvero omogeneamente semiriflettente, oppure il suo comportamento e' il risultato macroscopico di una struttura microscopica composta da parti riflettenti e parti trasparenti? In questo secondo caso, qual e' la dimensione di queste micro-regioni riflettenti/trasparenti? Soprattutto rispetto ai fotoni incidenti: e' piu' grande, piu' piccola o del suo stesso ordine di grandezza? A proposito: ma quant e' grosso un fotone? qual e' la sua tipica dimensione trasversa? Sarebbe possibile "puntare" ogni fotone su una singola zona riflettente/trasparente, cambiando il comportamente macroscopico dello specchio semiriflettente?
   —   ∴   —   
Allora: quanto e' largo un fotone? Quanto e' lungo lo sappiamo, o almeno crediamo di saperlo, visto che ci insegnano presto la dualita' di Fourier k↔x, da cui verrebbe fuori che un fotone di frequenza fissata dev'essere "infinitamente lungo". Ma trasversalmente, quanto occupa?
Un primo elemento di confusione e' dato dall'idea che esista il fotone. No, no, certo, non voglio dire che non esistono fotoni, voglio dire che non esiste il fotone. L'equazione E=hv non significa che se voi specificate una frequenza v avete descritto un fotone di quella frequenza. La quantizzazione sta nell'interazione (con la materia), nell'energia (E, appunto pari ad hv) scambiata. Finche' non abbiamo interazione, non esiste alcun fotone, e abbiamo solo normalissime onde elettromagnetiche. Un laser a frequenza v impostato con un'intensita' cosi' bassa da emettere un'energia E=hv nell'arco di 24 ore, genererebbe un'onda piana per tutto il tempo per cui viene lasciato acceso, solo che avremmo una probabilita' di "vedere" il fotone sullo (l'interazione di quell'onda piana con lo) schermo, solamente, in media, una volta al giorno. Una sorgente puntiforme a simmetria sferica genererebbe un'onda sferica che si propaga in tutti e quattro i pigrechi di angolo solido, anche se poi magari l'interazione avviene in un punto particolare (col quale, siamo soliti dire, la sorgente ha scambiato un fotone...).
Chiarito questo, possiamo dimenticarci completamente la parola fotone e pensare direttamente in termini di onde: quanto posso "stringere" un'onda, nella sua dimensione trasversa? Il modo piu' semplice e naturale per generare un'onda "stretta" e' quello di usare una fenditura con cui "filtrare" un'onda piana piu' estesa. Ma... Esatto: nonappena avremo ridotto le dimensioni della fenditura all'ordine di grandezza della lunghezza d'onda dell'onda, i fenomeni di diffrazione allargherebbero l'onda uscente essenzialmente ad onda sferica!
In pratica possiamo parlare di fascio solo se la sua dimensione trasversa e' molto maggiore della lunghezza d'onda. Di fatto, anche il fascio sara' "sbrodolato" (diffratto) ai bordi, per il principio di Huygens e dunque potremo continuare a parlare di fascio proprio nella misura in cui: 1) la sua dimensione trasversa e' tanto maggiore della lunghezza d'onda (e quindi dell'entita' dei fenomeni di diffrazione); 2) siamo interessati a fenomeni che accadono "lontano dai bordi". Ovunque abbia senso parlare di "fascio", l'onda e' da considerarsi onda piana. Quindi, a voler insistere con la domanda "quanto e' larga un'onda", la risposta meno inappropriata sarebbe infinitamente larga.
Ma a ben pensarci, tutto si tiene: qualsiasi meccanismo di riflessione/trasmissione richiede proprio l'interazione di fronti d'onda piani (infinitamente "larghi") con la superficie di separazione di due mezzi di trasmissione dell'onda. E la superficie deve proprio essere del tutto omogenea e infinitamente estesa perche' le fasi dell'onda non si incasinino e possa effettivamente riemergere un'onda, riflessa o trasmessa. Se non lo fosse, se presentasse disomogeneita' grandi fino all'ordine della lunghezza d'onda incidente, le fasi si scombinerebbero e non avremmo piu' un'onda piana (diffusione) o, se le disomogeneita' sono "regolari", la loro regolarita' resterebbe impressa nel ricombinamento delle fasi dell'onda, e avremmo, ad esempio, un reticolo di diffrazione. Il fatto che, concretamente, non siano infiniti ne' i fronti d'onda ne' le superfici di separazione, significa semplicemente che il fenomeno di riflessione/trasmissione avverra' nei limiti in cui siamo lontani dai bordi, tanto dei fronti d'onda quanto delle superfici.
La domanda iniziale, dunque, sull'omogeneita' della composizione di uno specchio semiriflettente, non puo' che avere risposta positiva. Qualsiasi sia il meccanismo di semiriflessione, si trattera' essenzialmente di un gioco di superfici piane di separazione fra, ad esempio, l'aria e il vetro, capaci di generare, a partire da un fronte d'onda incidente, due fronti d'onda, uno in riflessione e uno in trasmissione.
   —   ∴   —   
Come avrete probabilmente intuito sin dall'inizio, la domanda (molto stupida, a posteriori) con cui sono partito nasceva dall'ennesimo ripensamento agli esperimenti "pazzi" della meccanica quantistica, in cui si mettono in evidenza i comportamenti di entangling o di autointerferenza di fotoni o addirittura di elettroni. L'esperimento consiste tipicamente nell'evidenziare fenomeni di interferenza di un fascio (di fotoni o particelle come elettroni o neutroni) che passa per due fenditure ravvicinate o viene diviso da, appunto, uno specchio semitrasparente. Il dubbio sullo specchio nasceva dal solito irresistibile tentantivo di immaginare nei dettagli (e spesso in termini particellari) quello che succede, e dall'ingenuo dubbio che, chissa', forse il fotone non si "divideva" davvero nello specchio, ma veniva riflesso o trasmesso solo "statisticamente", a meta', ma di volta in volta "interamente". Ovviamente, invece, la cosa essenziale e' proprio che le onde emergenti (dalle due fenditure o sui due percorsi a seguire dello specchio semitrasparente) siano perfettamente in fase, figlie dirette dell'unica onda incidente. E, di nuovo, finche' si parla di onde tutto puo' avere il suo senso: le fasi che si ricombinano, da una parte c'e' interferenza distruttiva, dall'altra costruttiva, et cetera et cetera. Il problema e' che poi le "interazioni", le "misure" sono quantizzate, avvengono "puntualmente". E si ricade nel tentativo frustrante di immaginare quegli stessi quanti lungo tutto il percorso che ha portato all'interazione: l'elettrone da che fenditura e' passato? il fotone ha "interferito con se stesso"?
Da questo punto di vista, l'interpretazione transazionale della meccanica quantistica, proposta da Cramer nel 1986, offre una soluzione apparentemente soddisfacente. Tirando in ballo le onde anticipate e la loro propagazione "indietro nel tempo", trova una giustificazione al fatto che, ad esempio, il fotone di un'onda sferica si sia diretto proprio verso il punto in cui, a posteriori, c'e' stata l'interazione. Purtroppo pero' anche questa interpretazione fallisce dove inesorabilmente falliscono tutte: nella descrizione del collasso della funzione d'onda. Come mi aveva fatto notare Gigi (facendo collassare tutto il mio ingenuo entusiasmo sull'interpretazione di Cramer), la domanda cruciale e' quando avviene il collasso? In qualsiasi esperimento possiamo sempre spostare a piacimento il confine fra cio' che e' quantistico (il sistema, in cui tutto e' questione di funzioni d'onda, evoluzione deterministica e continua, senza salti ne' collassi) e cosa no (l'apparato di misura, che invece restituisce risultati discreti, stocastici e irrispettosi dei limiti di Bell). E a questa domanda, su dove avvenga il collasso, se avvenga davvero... neanche l'interpretazione di Cramer da una risposta.
Forse perche' continuamo a farci, da ottant'anni a questa parte, la domanda sbagliata.
   —   ∴   —   
Oltre al gia' citato Gigi, questo post deve in qualche modo la sua esistenza anche a Federico. Le domande sbagliate sono infatte quelle a cui abbiamo cercato di rispondere in una piacevole discussione avvenuta ormai tanto tempo fa in uno dei mille viaggi Ginevra-Milano. Tutta la prima parte del post, in qualche modo, ne e' una trascrizione o, meglio, una riduzione.

25 April 2007

l'importanza di essere bayesiani (in un mondo quantistico)

Finalmente (?!?) mi e' capitato di fare qualche viaggio in treno 1) lungo 2) da solo 3) a distanza ravvicinata. Il risultato e' stato che sono riuscito a macinare un po' di letture delle mille scaturite dall'incontro con le lezioni di Scott Aaronson di cui vi avevo parlato.
Aaronson e le sue lezioni sono davvero fantastici. Ma di lui e loro parlero' in un secondo momento. Ora voglio solo provare a riassumere quel che ricordo di quel che ho capito dell'approccio "bayesiano" alla meccanica quantistica, ovvero quel che ricordo di quel che ho capito di quello che ho letto di tali Fuchs e Hardy.
   —   ∴   —   
Questo approccio tenta di risolvere i problemi interpretativi della meccanica quantistica provando a ridurrla a nient'altro che una teoria statistico-probabilistica.
Dico subito che non la considero una soluzione soddisfaciente. E il motivo e' abbastanza fondamentale: secondo questo approccio la meccanica quantistica non sarebbe altro che una teoria dell'informazione probabilistica "sui possibili risultati dei nostri interventi sperimentali sulla natura". E' chiaro, cioe', che resta vittima della dipendenza da una descrizione classica del mondo, rinunciando subito ad una qualche descrizione della natura.
Non si puo' negare, pero', che questo approccio evidenzia delle proprieta' sottili della meccanica quantistica, e dunque offre spunti per una cmprensione piu' profonda. E' interessante innanzitutto
l'approccio di tipo formale ad una teoria della probabilita', evidenziando a quali assiomi (essenzialmente uno) e' possibile ricondurre le differenze fra una teoria della probabilita' classica e una che, volendo non chiamare "quantistica", potremmo dire complessa, (nel senso dei numeri complessi), o "per ampiezze di probabilita'". In particolare sembra molto convincente l'interpretazione in termini di pura teoria probabilistica dell'informazine che viene data ai fenomeni di entanglement, essenzialmente ridotti a naturali applicazioni del teorema di Bayes sulla probabilita' condizionata.
Insomma: letture consigliate solo per chi e' davvero interessato alle problematiche dell'interpretazione della meccanica quantistica.

03 April 2007

Meccanica Quantistica, questa sconosciuta...

Come al solito le tentazioni piu' irresistibili arrivano legioni proprio quando meno puoi permettertelo.
E' da pochissimo che ho aggiunto i feed di questo blog fra i miei segnalibri, e oggi mi sono ritrovato con questo post che mi ha fatto scivolare irrimediabilmente a leggere la lezione 11 [›››] e quindi anche la lezione 9...
Sono in ritardo sparato col lavoro, e proprio non ho tempo, ma − diavolo! − quanto avrei voglia di mettermi a leggere, ora, subito, adesso e tutti di filato, tutte le Further Reading citate in quest'ultima lezione!!!
Per ora mi limito a consigliarvi queste due lezioni, ma quanto prima (sigh!) approfondiro' la cosa: cerchero' di capire meglio chi e' questo Scott Aaronson, daro' sicuramente un'occhiata alle altre lezione del suo corso [›››], al suo apparentemente portentoso articolo e agli altri che cita, compreso questo e gli altri di questo tal Christopher A. Fuchs...
Come si fa a tornare a lavorare?!?
 
PS
Franco, qui c'e' pane anche per i tuoi denti!

09 February 2007

Quantum Gravity - 4 : guida alla lettura

Visto l'inaspettato successo della saga Quantum Gravity, provo a dare una risposta piu' articolata al commento di Franco, per ribadire che si tratta davvero (almeno per quanto riguarda i primi due capitoli che ho gia' divorato) di una lettura “per tutti”.
   —   ∴   —   
Innanzitutto non pensate di essere di fronte a un libro di Loop Quantum Gravity. Se volete, ha scritto anche quello (in forma di una living review...), ma li' non posso garantirvi facile lettura... Il fatto che in questo caso, invece, l'argomento sia piu' generale, fa si' che, almeno all'inizio, l'approccio sia meno tecnico, volto piu' a dare una visione d'insieme dello stato dell'arte.
Il primo capitolo lo e' di sicuro, e ve lo conferma il titolo (che mi piace tantissimo): General ideas and heuristic picture. E' diviso essenzialamente in due parti. Nella prima vi mette di fronte al problema (il connubio fra Relativita' Generale e Meccanica Quantistica) con un approccio storico/didattico, mettendo in evidenza gli aspetti concettuali delle due teorie e le conquiste intellettuali (piu' che matematiche e strettamente fisiche) che quelle stesse teorie hanno comportato. Ovviamente sono tutte considerazioni che trovano ampio spazio anche nella seconda parte, quella in cui introduce le motivazioni e le caratteristiche principali della sua soluzione alla gravita' quantistica, quella a loop.
Io personalmente ho sempre trovato le sue considerazioni estremamente solide e convincenti. Ne avevo letto per la prima volta tanto tempo fa in questa bellissima conversazione, che vi consiglio caldamente, a mo' di aperitivo o, se proprio non amate le letture pesanti, in sostituzione, al libro di cui sto parlando. E' un'agile e snella trascrizione di un dialogo, il che facilitera' ancora di piu' la lettura.
Dicevo che per quanto mi riguarda le sue argomentazioni sono inespugnabili, e se in futuro dovessimo scoprire che alla scala di Plank la gravita' non e' descritta dalla LQG, sara' solo per accidenti tecnici, o perche' avremo realizzato un ulteriore e ad ora inimmaginabile cambiamento di prospettiva. E comunque non sara' certo l'approccio delle Teorie di Stringhe − intrinsecamente fenomenologico − a dire l'ultima parola.
Ebbene, la forza enorme di quelle argomentazione potrete misurarla proprio nel secondo capitolo del libro, intitolato semplicemente − ambiziosamente − General Relativity. Qui, appunto, si parla solo della teoria di Einstein: non ci sono dispute su nessun punto, tutto e' unanimamente condiviso dalla comunita' dei fisici e vengono affrontate questioni che potrebbero benissimo essere argomento di una lezione del corso di laurea.
Eppure, seguendolo, scoprirete la Relativita' Generale come non l'avevate mai conosciuta.
Va bene, la prima parte del capitolo e' dedicata alle notazioni e ad un riassunto (un condensato!) della teoria, addirittura in numerose formulazioni differenti, piu' o meno equivalenti. Questa parte se volete potete anche saltarla, o leggerla − come ho fatto io − chiudendo gli occhi. Riapriteli un momentino soltanto al paragrafo 2.1.3, in cui introduce il concetto di invarianza di gauge nella formulazione di Dirac. E poi sul finire di questa prima parte del secondo capitolo (a pagina 33), subito dopo (o compreso!) l'ultimo paragrafetto scritto in piccolo sulla geometria di Riemann. Li' torna ad essere non tecnico (e vi avverte che potete saltare la seconda parte del capitolo 2 che segue... se siete interessati solo ai tecnicismi! ma e' chiaro che, al contrario, e' proprio quel che resta del capitolo 2 la parte piu' bella!!!).
Di quel che resta, essenzialmente, sapete gia' tutto (e quindi vi sarete gia' buttati a capofitto a leggere...).
Buon divertimento (e fatemi un bip, se vi e' piaciuto)!

07 February 2007

Quantum Gravity - 2

Non c'e' che dire: almeno per i primi capitoli (sono arrivato al secondo) la review di Rovelli si legge davvero tutta d'un fiato. E la prima cosa che salta agli occhi e' proprio la fortissima sensazione di genuina comprensione che si ha studiando la relativita' generale e i suoi dintorni. Non c'e' paragone con quel che si prova quando si studia l'altro bandolo, quello quantistico, della Fisica.
—   ∴   —
In Meccanica Quantistica si ha certamente la sensazione di capire meglio quanto e' bizzarro il mondo microscopico. Riuscire a imbrigliare queste bizzarrie e sapersi destreggiare in allestimenti sperimentali dagli esiti contro-intuitivi ha il suo fascino e trasmette in qualche modo la sensazione di aver capito qualcosa degli ingranaggi del mondo microscopico. Ma, appunto, solo questo: la sensazione di aver capito qualcosa [›››].
In Relativita' (Generale) e' tutto diverso. Qui − ed e' questo che balza agli occhi leggendo Rovelli − tutto e' chiaro e pulito [›››]. Quando si capisce qualcosa di nuovo, quando si afferra un nuovo concetto o si realizza il significato di una qualche relazione, si ha proprio la sensazione di aver aumentato la risoluzione della propria immagine del mondo. Si percepisce nettamente di essersi liberati da preconcetti limitanti, si realizza che contingenze lontane sono in realta' lati contigui di una medesima realta'. L'atto del capire e' consustanziale alla sensazione che − accidenti! − doveva essere ovvio fin dall'inizio che le cose funzionavano in questo modo, perche' questa si' che e' la cosa piu' semplice e naturale, mentre il vecchio modo di vedere le cose era evidentemente frutto di un grossolano pregiudizio.
L'esatto contrario della meccanica quantistica, in cui ci si limita a gioire del saper riprodurre gli ingranaggi, e ci si gongola nel saper domare circostanze altrimenti folli.