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29 March 2018

Bitcoin, la metafora di Internet

 
La metafora di Internet per Bitcoin è molto potente.
Superficialmente potrebbe sembrare una banale analogia di buon auspicio, il rimando a un precedente storico per certi versi simili che oggi possiamo dire abbia avuto successo. Ma se fosse semplicemente così non avrebbe un gran valore: il successo di Bitcoin per molti è ancora tutto da dimostrare, certamente ancora tutto da venire — e si potrebbero fare mille esempi contrari di presunte innovazioni poi fallite miseramente.
Ma per chi conosce bene il contesto e le motivazioni che hanno portato alla nascita dell'esperimento Bitcoin, il parallelo risulta innegabilmente calzante, perché non si limita alla superficie del loro essere entrambe innovazioni tecnologiche: il senso profondo della metafora sta invece nel percorso storico — inimmaginabile — di Internet, che Giacomo Zucco descrive nella prima parte del suo intervento.
 
Oggi per Internet non possiamo che parlare di "successo" se lo misuriamo in termini di diffusione e di pervasività nelle nostre vite; ma se pensiamo anche solo banalmente alle ultimissime polemiche su Facebook e Cambridge Analytica, o alle ricorrenti accuse contro gli interventi dei bot russi sui social network, è tutt'altro che scontato pensare che Internet abbia seguito la via del successo che avevano immaginato per esso i suoi entusiasti preconizzatori della prima ora.
La metafora risulta pertanto estremamente illuminante perché da una parte non c'è dubbio che quello che Bitcoin sta sperimentando segnerà in maniera vasta e profonda il nostro futuro molto prossimo, ma allo stesso tempo non c'è dubbio che le specifiche modalità con cui una cripto-valuta parallela alle vecchie monete a corso forzoso modificherà il panorama economico, politico e sociale restano ancora imprevedibili.
Come per Internet, la certezza è una sola: nulla sarà più come prima.
 
 
Di seguito quindi l'intervento di Giacomo Zucco diviso in due parti: non aspettatevi qualcosa di didascalico o esplicativo, per quello ci sono le spiegazioni "fatte bene" de IlPost (fatte bene fino a un certo punto, visto che vi si afferma che il valore del denaro è una semplice convenzione, ma se sapete poco o nulla di Bitcoin resta comunque un buon punto di partenza); qui non si spiega molto, c'è più che altro entusiasmo (Zucco — come si dice? — buca il video) e spunti di riflessione e pretesti per ulteriori approfondimenti.
 
 

02 March 2016

Rothbard day

 
Oggi è il Rothbard Day, c'entra molto lateralmente con l'Economics for Real People di Gene Callahan, ma ne approfitto per tornare sul mio lungo thread sull'economia da zero.
Quasi nessun commento per tutto il tempo, sono un po' spiaciuto.
Per me fu una lettura folgorante: vorrei provare ad elencare gli elementi che più hanno rappresentato delle epifanie fondamentali.
 
Direi che il fulcro di tutto è la scoperta delle reali implicazioni di un libero scambio: da una parte la demolizione dell'equivoco diffuso e sottinteso secondo cui le due parti, nell'accordarsi per lo scambio, starebbero per ciò stesso concordando su un valore condiviso per i beni scambiati; dall'altra il rendersi conto che, invece, lo scambio può avvenire proprio e soltanto perché le due parti, al contrario, attribuiscono un diverso valore ai beni scambiati.
Lo scambio — e più in generale il commercio — è quindi inerentemente un gioco a guadagno condiviso, un processo che non trasferisce ricchezza, ma la genera, perché entrambe le parti giudicano ciascuna di stare meglio dopo lo scambio rispetto a prima.
 
Una simile conquista intellettuale è resa possibile da un altro concetto estremamente generale e fecondo, quello di marginalità: non è un bene in astratto che ha valore (l'acqua, il diamante...), ma la contingente e specifica quantità di quel bene in procinto di essere scambiata: il valore delle cose è determinato al margine.
 
E infine, direttamente collegato al concetto di marginalità, vi è l'altro concetto fondamentale, quello del costo-opportunità, che rappresenta l'altro lato, consustanziale, del valore delle cose: il valore di un certo fine è dato dal valore della cosa più preziosa a cui si sta rinunciando per perseguirlo.
 
Essenzialmente direi che sono questi gli elementi allo stesso tempo fondamentali e dirompenti di questa lettura.
Ma vorrei sottolineare anche almeno altri due aspetti notevoli della scuola austriaca che invece emergono in prospettiva, più che in singoli e specifici concetti.
 
Da una parte c'è, ho già avuto modo di dirlo, la sua organicità: questi mattoni elementari — la soggettività del valore, la sua diversità sancita in uno scambio, il suo formarsi al margine in termini di costo-opportunità — sono concetti del tutto complementari che si incastrano perfettamente in un quadro coerente. Un quadro coerente che pian piano si allarga, gettando nuova luce sul concetto di moneta, sui suoi ruoli di bene di scambio e di unità di prezzo; chiarendo che è proprio grazie a queste sue proprietà che la moneta assume anche il ruolo di segnale di valore, dell'urgenza dei vari beni nei piani delle persone, consentendone il coordinamento su vastissima scala, spaziale e temporale; gettando nuova luce sul concetto di preferenza temporale, alla base della nozione di tasso di interesse, come espressione del valore del risparmio, in contrapposizione invece al profitto imprenditoriale, etc, etc...
 
E infine l'altro punto di forza della prospettiva austriaca, strettamente legato al precedente: il suo enorme potere esplicativo.
La scuola austriaca non cerca di "simulare" l'andamento del mercato con un qualche modello del comportamento dei suoi attori, formulando una qualche funzione di costo/optimum che essi tenderebbero a minimizzare/massimizzare; facendo, cioè, mera fenomenologia. Al contrario essa si basa sulla natura stessa dell'agire economico e le "leggi" che riesce a derivare rappresentano la *spiegazione* del funzionamento dell'economia, non delle semplici "previsioni" che devono essere testate empiricamente e che sono condannate ad una validità limitata al grado di aderenza del caso concreto alle ipotesi formulate nel modello.
 
Ma quindi? Vi è piaciuto il thread?
 

29 August 2014

Deflazione

Basta post pretenziosi dai temi velleitariamente alti e nobili: torniamo a parlare un po' di attualità e cose concrete.
Ultimamente si fa un gran parlare, quasi con terrore, di questa fantomatica deflazione. Si sente ripete a più riprese il mantra che la deflazione sembrerebbe una cosa bella, ma in realtà non lo sarebbe. E si leggono tortuosi ragionamenti economici che, però, tutto fanno tranne che spiegare dove il senso comune si ingannerebbe. La retorica spesso è grossolanamente forzata, per cui in caso di inflazione "un euro non mi basta più per acquistare un chilo di carote, come era un anno prima", mentre in caso di deflazione "con un euro arrivo a comprare il doppio delle carote che compravo un anno prima" (enfasi mia).
Prendete l'argomento del rinvio degli acquisti: smettereste di mangiare perché fra un mese il cibo costerebbe di meno? Quindi il problema della deflazione non dovrebbe riguardare i beni primari e di consumo. Ma anche non prendendo in considerazione beni di consumo primario, avete forse notato una crisi perenne di Apple e Samsung da assenza di acquisti, per via che il prezzo degli smartphone dimezza, questo sì davvero, nel giro di un anno?
Del resto in un mondo dominato dell'innovazione, la deflazione è precisamente il pattern economico atteso, e un'eventuale inflazione artificiosamente creata non si configurerebbe altrimenti che come una forma di tassazione, con l'aggravante morale di essere occulta e l'aggravante economica di distorcere i segnali dei prezzi sulla corretta allocazione di risorse.
 
In tutto questo dare addosso alla deflazione, trovo soltanto due preoccupazioni "sensate": l'insostenibilità del debito (pubblico) e la wage-stickiness (in italiano sarebbe qualcosa come "vischiosità dei salari"). Ma, in entrambi i casi, mi sembra si accusi la deflazione di problemi che in realtà nascono e risiedono altrove.
Nel primo caso, lamentarsi di non poter svalutare il debito con l'inflazione significa lamentarsi di non poter derubare il creditore restituendogli meno di quel che si è ricevuto in prestito. Il problema è l'aver contratto un debito sapendo di non poterlo ripagare, non il fatto di doverlo restituire. Il problema è la spesa pubblica eccessiva, non la deflazione.
Anche nel secondo caso, si assume che i salari tendano intrinsecamente a salire e comunque a non scendere, ma mi sembra del tutto ragionevole ipotizzare che possa trattarsi in realtà di una conseguenza, più che di una causa, del regime pluricedennale di alta inflazione. Se la società non si aspettasse, non presupponesse un continuo aumento dei prezzi, sapere di avere un salario costante sarebbe ben percepito come un aumento del potere di acquisto. Al limite, in caso di deflazione prolungata, non è inverosimile immaginare delle rimodulazioni salariali al ribasso. In ogni caso l'aumento o la diminuzione del valore della moneta dovrebbe riflettere gli andamenti del mercato (la propensione al risparmio, la produttività, la produzione, gli investimenti...) e comunque l'aumento o la diminuzione del prezzo dei vari beni e servizi seguirebbero dinamiche specifiche legate all'andamento di domanda e offerta per singoli beni e servizi lungo tutta la catena di produzione, verticalmente e orizzontalmente. L'idea, invece, di manipolare artificialmente la massa monetaria significa sovrastare le richieste dei consumatori e provocare una ridistribuzione arbitraria di beni, risorse e denaro. Oltretutto, anche mettendosi in un'ottica redistributiva di ispirazione socialista, bisogna sottolineare che tali storture impattano abbastanza direttamente anche le disuguaglianze di reddito: poichè, infatti, l’immissione di nuova e fresca moneta non avviene in maniera uniforme, ma ha dei precisi canali di immissione e un deflusso con i suoi tempi, le politiche inflazionistiche e di espansione del credito vedono tipicamente nelle persone già ricche i privilegiati beneficiari di tali immissioni di nuova moneta (che poi la vera dicotomia non dovrebbe essere fra ricchi e poveri, ma fra guadagni legittimi e illegittimi, fra una ricchezza acquisita col lavoro, da una parte, o con arbitrari privilegi dall’altra).

01 May 2013

[5] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

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(...continua)
 
Però il 6 febbraio 2010 viene istituito Bitcoin Market e il 17 luglio MtGox: mercati di cambio in cui era possibile effettuare transazioni fra bitcoin e dollari, in entrambi i sensi. Su bitcoincharts potete trovare in dettaglio l'andamento del prezzo dei bitcoin insieme al volume di scambi effettuati su MtGox, il principale mercato di cambio di bitcoin.
Aveva dunque un valore, il Bitcoin, il 6 febbraio 2010? era un valore d'uso? di scambio? entrambi?
 
Per comprendere le dinamiche delle fasi di innesco iniziali del valore del Bitcoin è essenziale considerare il fatto che esso nasce col preciso scopo di costituire una moneta, e dunque gli viene applicato, a priori, tutto l'armamentario concettuale associato ad una valuta (riserva, liquidità...). Questo contesto rende evidente, in tutta la sua limpidezza teorica, la circolarità che Mises aveva affrontato con la sua regressione: i membri della comunità Bitcoin vorrebbero comprare bitcoin, o vendere i propri beni/servizi per bitcoin, per poterli poi usare come pagamento per comprare in futuro altri beni/servizi: ma quanto pagare per essi dipende in maniera cruciale da quanto potranno poi, con essi, comprare.
In questo caso la circolarità viene risolta da una regressione sottilmente diversa da quella proposta da Mises, in cui il perno di supporto che pone un limite alla regressione è costituito, paradossalmente, proprio dal valore-lavoro per la produzione di un bitcoin.
Il valore "d'uso" che la comunità Bitcoin vedeva per essi era legato al suo possibile utilizzo futuro come mezzo di scambio, ma tale valore non poteva essere quantificato. Poteva essere quantificato, invece, lo sforzo necessario per procurarsene uno, di bitcoin, in termini di risorse (tempo, hardware, corrente, competenza, etc...) da dedicare all'estrazione di bitcoin. E qui entra in gioco in maniera determinante l'idea di Satoshi Nakamoto di agganciare al(l'estrazione di) bitcoin una prova di lavoro.
In questo modo, pur non essendo in grado di quantificarne il valore di scambio di domani, posso quantificare le risorse che dovrei mettere in campo oggi per procurarmi, via estrazione, un bitcon; e posso dunque considerare la possibilità di offrire un ammontare equivalente, in dollari "sonanti", per acquistare un bitcoin già estratto.
Il fatto che tale valore non includa, in maniera quantificabile, la possibilità di acquisti futuri, sembrerebbe una ragione sufficiente a derubricarlo a mero "valore d'uso", per nulla "di scambio". Resta l'ambiguità di fondo che il motivo per cui si acquistano bitcoin è quello di poterli spendere in futuro, ragione per la quale sin dall'inizio, potrei essere disposto ad offrire per un bitcoin anche più del suo mero valore-lavoro.
Cercare di risolvere tale ambiguità, però, rischia di diventare una questione puramente formale: i fatti bruti sono che c'è un bene (scarso, rivale ed escludibile) per avere il quale alcune persone sono disposte a pagare una cifra quantificabile. Quale che sia il nome che volete dare a questo valore, sia esso "d'uso" o "di scambio", esso rappresenta in ogni caso il punto di partenza della regressione misesiana: a partire da quel momento, risolvendo l'indeterminazione del primo passo col "regolo" quantificatore imposto a tavolino dalla prova di lavoro, il Bitcoin acquisisce un valore "di mercato" misurabile attraverso gli scambi con altre valute. Il che non vuol dire che tale valore ce l'avrà per sempre: se la fiducia nel "futuro" del Bitcoin dovesse crollare, il suo valore potrebbe crollare fin sotto il suo "valore-lavoro" (il quale già scenderebbe per la regola dell'"un blocco ogni 10 minuti"), dal momento che quando nessuno più volesse acquistare bitcoin, anche il tempo e la corrente dedicate all'estrazione sarebbero privi di valore. Il partire, poi, da un valore di riferimento del tutto scorrelato dal valore d'uso previsto/sperato per il futuro e tutto ancora da allestire, ha anche un'altra conseguenza rilevante in termini di volatilità: finché non ci saranno scambi commerciali diversi dal mercato dei cambi — finché, cioé, non si sarà creato un vero mercato di beni e/o servizi per i bitcoin — è comprensibile che il suo valore oscilli molto.
In definitiva, come si diceva all'inizio, il ruolo di moneta un bene deve "conquistarselo" con tutta una serie di prorpietà che il bitcoin deve ancora maturare, se mai ce la farà. Solo la suddivisibilità è stato possibile dargliela "a tavolino". Anche la trasportabilità, che potrebbe sembrare una caratteristica del protocollo p2p, dipende in realtà da quanto sono/saranno pervasive e di facile uso le tecnologie capaci di gestirlo: ho letto critiche al bitcoin che puntavano il dito proprio sul fatto che un crollo improvviso delle capacità tecnologiche distruggerebbero un bitcoin ma non un lingotto d'oro; critiche ragionevoli, ma una moneta è una questione d'uso e di fiducia, non di mera possibilità teorica: se la tecnologia sembrerà affidabile, la gente si fiderà (a parità di tutto il resto). Anche per quanto riguarda la stabilità, le premesse tecnologiche ci sono (vedi i feedback implementati sulla velocità di estrazione), ma bisognerà prima superare lo scoglio iniziale di volatilità di cui dicevamo poco sopra (le critiche sul potenziale carattere deflattivo della moneta invece non le considero: dovete prima convincermi che la deflazione sia un male).
 
Il "teorema" di Mises — per conlcudere — è certamente una qustione rilevante per il caso Bitcoin, o forse sarebbe più appropriato esprimersi al contrario: quello del Bitcoin rappresenta un caso notevole per il "teorema" di Mises; si può discutere se siamo di fronte ad una banale regressione di Mises o ad una sua sottilmente diversa variante, ma si potrebbe anche sostenere che si tratterebbe di una discussione nominale; quel che è certo è che — in questo caso, come in generale — un'approccio formale ed analitico sia quantomeno eccessivo, se non addirittura fuori luogo.

[4] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

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(...continua)
 
Non è necessario entrare nei dettagli di cos'è un bitcoin (argomento peraltro molto affascinante, da pèrdercisi: ho lasciato in calce a questo post [§] un breve riassunto delle cose che ho letto a riguardo, ché altrimenti si divagava una volta di più): sarà sufficiente sapere che il suo protocollo garantisce per esso le tre proprietà tipiche di un bene privato: scarsità, rivalità ed escludibilità. Ovviamente queste tre proprietà non sono affatto sufficienti a fare del Bitcoin un bene economico: anche i disegni di mio fratello sono, in senso tecnico, scarsi, escludibili e rivali, eppure non c'è alcun mercato per essi, giacché gli manca la cosa essenziale: un valore.
Come si diceva, per il Bitcoin abbiamo a disposizione un'informazione dettagliatissima sulla sua storia, e un buon punto di partenza per capire la questione del suo valore potrebbe essere proprio la sua cronologia, con un occhio di riguardo alle transazioni di bitcoin.
Progettato da Satoshi Nakamoto a fine 2008, "nasce" a gennaio 2009, in cui viene generato il primo blocco di 50 bitcoin e viene effettuata la prima transizione di bitcoin fra due portafogli, come test, da Satoshi a Hal Finney: una prova tecnica, nessuno scambio, nessun indizio di valore.
Dieci mesi dopo, a partire dal 5 ottobre di quell'anno, New Liberty Standard comincia a pubblicare il primo sedicente tasso di conversione bitcoin-dollari, secondo il seguente criterio: During 2009 my exchange rate was calculated by dividing $1.00 by the average amount of electricity required to run a computer with high CPU for a year, 1331.5 kWh, multiplied by the the average residential cost of electricity in the United States for the previous year, $0.1136, divided by 12 months divided by the number of bitcoins generated by my computer over the past 30 days.
Dico sedicente perché esso non rappresenta né un vincolo imposto ad eventuali compravendite (come i tassi valutari in regime di cambi fissi), né un valore di cambio "di mercato", misurato su transazioni reali: fino a quel momento, del resto, non sono segnalate transazioni di bitcoin compensate da contropartite in dollari o in qualunque altro bene o servizio. Pertanto quel criterio adottato per "quantificare" il valore di un bitcoin non rappresenta altro che l'ennesimo strascico, inconscio, della teoria del valore-lavoro: interessante come riferimento-in-mancanza-di-altro (conviene più "minare" un bitcoin o comprarlo?), ma lungi dal costituire una misura del valore di un bitcoin.
Però...
 
[§] Cos'è Bitcoin, un bignami semi-tecnico.
Il protocollo Bitcoin gestisce automaticamente la "stampa" di bitcoin in maniera sequenziale, generando un nuovo blocco di bitcoin nonappena l'ultimo blocco che aveva generato viene assegnato ad un qualche portafoglio. Insieme al blocco di bitcoin da assegnare viene generata un'istanza specifica di un problema standard: il portafoglio del client bitcoin che per primo sottometterà la soluzione al problema diventerà, a mo' di premio, proprietario del blocco di bitcoin che era stato generato. In quel momento verrà generato un nuovo blocco di bitcoin, formulata un'altra istanza specifica del problema standard e si resterà in attesa del primo risolutore a cui assegnare il nuovo blocco; e così via.
Il tipo di problema da risolvere per ottenere l'assegnazione del blocco di bitcoin è una sorta di inversione di una funzione di hash (SHA-256). Al di là dei dettagli tecnici, la cosa essenziale è che si tratta di un problema (classicamente, i.e. non quantisticamente) difficile, di cui, cioè, non si conosce un algoritmo di risoluzione che scala polinomialmente nella dimensione del problema (la lunghezza della stringa hash da "invertire"). I migliori algoritmi noti di soluzione hanno un esponente di scala che è proporzionale ad n^(1/3)·log(n)^(2/3), ma se capisco bene il client bitcoin implementa un "banale" algoritmo di ricerca brute force, che esplora sistematicamente tutto lo spazio delle possibili soluzioni: in tal caso l'esponente di scala è proporzionale proprio alla lunghezza della stringa.
Fissata però una certa difficoltà del problema in termini di lunghezza della stringa di hash, non sarebbe comunque possibile stimare a priori il tempo medio necessario (wall clock time) per trovare una soluzione, perché questo dipenderebbe in maniera determinante dalla potenza di calcolo disponibile); meglio: dalla potenza di calcolo effettivamente dedicata alla generazione di bitcoin: più client bitcoin potrebbero decidere di collaborare parallelizzando l'esplorazione delle possibili soluzioni, riducendo così il tempo medio (wall clock time) fra la generazione di un blocco di bitcoin e il successivo. Tale tempo medio di generazione, insomma, sarebbe in qualche modo legato al valore attribuito ai bitcoin cercati, in termini di risorse di calcolo messe al lavoro nel processo di generazione di bitcoin: maggiori queste, minore il tempo medio di generazione, ovvero maggiore velocità di generazione.
Per compensare questo feedback, il protocollo Bitcoin non stabilisce la lunghezza della stringa di hash una volta per tutte, ma la imposta in maniera dinamica, aggiornandola ogni 2016 blocchi generati, aumentandola o riducendola in funzione di un obiettivo di riferimento prefissato che corrisponde ad un ritmo di generazione di un blocco ogni 10 minuti (2016 blocchi in due settimane).
Ogni blocco corrisponde attualmente a 25 bitcoin, ma il protocollo prevede un dimezzamento del numero di bitcoin associati ad un singolo blocco ogni 210 mila blocchi generati.
(continua...)

30 April 2013

[3] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

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(...continua)
 
Questa precisazione, che la regressione di Mises potrebbe non essere l'unico meccanismo di acquisizione di valore di scambio, è certamente rilevante nelle discussioni sul Bitcoin, ma entra in gioco anche su questioni ben meno recenti. Il valore del Dollaro, o dell'Euro, o comunque di monete a corso legale forzoso senza alcun ancoraggio ad un bene fisico come l'oro, rappresenta precisamente il caso di un bene privo di alcun valore d'uso e dotato di mero valore di scambio: un'apparente contraddizione con la formulazione semplificata del "teorema" di Mises, che si risolve però semplicemente notando che è sufficiente lo stesso meccanismo di regressione di Mises per spiegare il mantenimento del valore di scambio di un bene anche quando dovesse perdere del tutto il valore d'uso. Questo varrebbe per l'oro stesso: se anche dovesse perdere il suo valore d'uso (ad esempio perché i gioiellieri hanno trovato sostituti migliori per i loro gioielli), i prezzi in oro di tutti gli altri beni sul mercato costituirebbero comunque un riferimento di valore per l'oro. Allo stesso modo per le monete legali, il rilascio dell'ancoraggio all'oro non distrugge ipso facto la struttura dei prezzi in dollari per gli altri beni e, se permangono le condizioni di fiducia del mercato (eventualmente aiutati dall'applicazione del monopolio legislativo/esecutivo), la "progressione" di Mises (la regressione vista in senso temporale opposto) può continuare.
Per il Bitcoin, dunque, la sua relazione col meccanismo di regressione di Mises si pone nei termini che seguono. Certamente, per il "teorema" di Mises, il Bitcoin non può acquisire valore di scambio dal nulla: o esso poss(i)ede(va) già un valore d'uso, su cui p(u)ò(trà) far coagulare un ulteriore valore di scambio, oppure deve "ereditare" un valore di scambio da un qualche altro riferimento di prezzo (oppure ancora, ovviamente, potrebbe succedere qualcosa di nuovo che impareremo a studiare).
Del resto la sedicente dimostrazione di Colucci si presenta formalmente come petizione di principio: "prendiamo la prima persona che ha accettato bitcoin in pagamento per i suoi beni o servizi" assume già quel che si vuole dimostrare, e cioé che il Bitcoint per qualcuno ha avuto del valore. Di più, assume tacitamente che quel valore non potesse essere di scambio.
 
Va già meglio in questo articolo di Nikolay Gertchev, The Money-ness of Bitcoins, in cui almeno si cerca di giustificare quest'assunzione: il Bitcoin, dice Gertchev, avrebbe avuto, limitatamente alla comunità "cripto-punk" in cui è nato, un valore in un qualche senso "artistico", che gli avrebbe garantito un livello di prezzo rispetto ad altri beni su cui innestare il successivo valore d'uso. Resta il fatto che anche detto così — e Gertchev non approfondisce più di così — sembra proprio un vedere ciò che si vuol vedere, un calare dall'alto, a priori, il "teorema" di Mises: davvero la gente si scambiava bitcoin come opere d'arte? in cambio di beni fisici o servizi?
 
Molto peggio, invece, questo articolo di Frank Shostak, The Bitcoin Money Myth: dopo aver esposto la sua versione del "teorema" di Mises, tutto sommato correttamente, passa ad affrontare il caso Bitcoin cominciando con un'affermazione che ha dell'assurdo per la sua ingenuità: Observe that a bitcoin is not a thing; it is a unit of a non-material virtual currency. A bitcoin has no material shape; hence from this perspective the notion that it could somehow replace fiat money is not defendable. Come se il dollaro fosse una cosa, avesse una forma materiale, e non fosse un'unità di una valuta virtuale immateriale; come se il dollaro non avesse già sostituito una moneta "fisica" come il gold-standard. Anche il commento successivo non è chiaro: Besides, Bitcoin is not a new form of money that replaces previous forms, but rather a new way of employing existent money in transactions. Because Bitcoin is not real money but merely a different way of employing existent fiat money, obviously it cannot replace it. Una critica simile, infatti, andrebbe bene per forme di sedicenti valute alternative, come il Sardex, in cui c'è un cambio fisso con un'altra valuta che ne vincola valore e utilizzo: in quel caso sì, si tratterebbe di una forma alternativa di utilizzo di una valuta pre-esistente, l'Euro; ma il punto rilevante del Bitcoin è che invece per esso esiste un mercato valutario libero di fluttuare, in cui c'è gente che compra e gente che vende in transazioni libere in cui i volumi scambiati non sono vincolati dall'esterno. Il fatto che si possano comprare dollari con bitcoin e viceversa non significa infatti che siano la stessa cosa, esattamente come il fatto di poter comprare e vendere con dollari dei quadri di valore non significa che i quadri siano una forma diversa di utilizzare i dollari per gli scambi (nonostante certi quadri possano avere alcune caratteristiche tipiche di una moneta come la trasportabilità e l'essere riserva di valore). La stessa conclusione finale dell'articolo, the fact that the price of bitcoins has jumped massively lately implies that people assign a high value for the services it offers punta precisamente nella direzione opposta alla tesi che Shostak cerca di difendere: i bitcoin hanno (un qualche tipo di) valore.
 
Lasciamo dunque perdere i Mises Daily e il Colucci, e torniamo a porci il problema della relazione fra Bitcoin e meccanismo di regressione di Mises: i bitcoin hanno davvero valore? un valore di scambio? solamente di scambio? e in tal caso, come l'hanno conquistato?
Per fortuna, a differenza di tutte le altre monete che conosciamo, la nascita del Bitcoin è accaduta in epoca iperstorica: non semplici documenti scritti, su di esso abbiamo internet. E così, invece di pontificare aprioristicamente, possiamo andare a leggere cosa è accaduto davvero, in pieno spirito galileiano e scientifico, nonostante non faremo correlazioni statistiche né dimostreremo teoremi analitici.
(continua...)

[2] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

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(...continua)
 
L'argomento di regressione di Mises è essenzialmente una soluzione all'apparente circolarità della spiegazione sull'origine del valore (di scambio) di una moneta: Robert Murphy ne parla in questo suo vecchio Mises Daily del 2003: The Origin of Money and Its Value.
Provo ad esprimere il paradosso usando l'esempio dell'oro (facciamo finta per un attimo di usare ancora valute in regime di gold-standard): l'oro ha un determinato valore d'uso (ad esempio per la fabbricazione di gioielli), ma il suo valore di mercato sarà molto più alto del suo valore d'uso perché ad esso contribuisce anche il suo essere "moneta" (ovvero un bene liquido, riserva di valore, facilmente divisibile, facilmente trasportabile e soprattutto/quindi il suo essere comunemente usato come bene intermediario per transazioni commerciali). Il suo valore aumenta, cioè, perché la domanda di oro non originerà solo dai gioiellieri, ma essenzialmente da tutti gli attori del mercato, proprio per il suo ruolo di bene intermediario per il commercio.
Ma di quanto aumenterà il suo valore?
Se nella vendita di miei beni o servizi accettassi pagamenti direttamente in beni che uso, la risposta sarebbe ovvia: accetterò una quantità di beni in base al valore d'uso che assegno a quei beni; se accettassi beni che intendo rivendere, li valuterò sulla base del valore attribuito da coloro a cui cercherò di rivenderli, e costoro li valuteranno, come me prima, in base all'uso che ne faranno. Ma nel momento in cui decido di accettare l'oro, il suo valore non può essere fatto risalire al giudizio dei suoi utilizzatori finali, perché la gran parte dei compratori d'oro ne farà mero uso di intermediazione.
Ebbene, il ruolo chiave del meccanismo ricorsivo di Mises è proprio quello di ricondurre anche il valore di scambio dell'oro al giudizio dei suoi consumatori finali. Mises nota che il valore che sarò disposto a pagare per un bene che non consumerò direttamente, ma che userò per un ulteriore scambio, è essenzialmente un valore di mercato, ovvero una stima di quanto quel bene viene valutato da chi è disposto a comprarlo, e questa stima si basa sui prezzi applicati a quel bene fino a quel momento. La stima di quanto riuscirò a prezzare un bene domani si basa sul prezzo di mercato corrente. Il valore di scambio dell'oro oggi, dunque, si basa sul suo valore di ieri, e quello di ieri sul suo valore del giorno prima, e così via in una regressione che, però, non è senza fine, ma si appoggia sul valore che aveva l'oro prima di diventare un bene di scambio, quando il suo valore, cioè, era determinato dal giudizio dei suoi consumatori finali.
 
Notate bene che la circolarità di questo paradosso è sottile (o almeno io ci ho messo un po' a coglierla appieno) ed è di natura essenzialmente teorica: del resto il percorso storico attraverso il quale l'oro aveva via via acquisito valore di scambio in aggiunta al suo valore d'uso era già stato spiegato da Menger (vedi il Murphy linkato sopra).
Un modo per rendere più evidente il paradosso (e la sua soluzione) è quello di guardare alla regressione di Mises da una prospettiva invertita e di rimuovere contemporaneamente il perno che garantisce il termine alla ricorsione. Proviamo ad osservare la regressione di Mises, cioè, a partire dal momento in cui l'oro sta per acquisire valore di scambio, ma immaginiamo di togliergli il suo valore d'uso. Siamo in una situazione, cioè, in cui vorremmo utilizzare un bene, l'oro, come bene intermediario per il commercio, ma che di per sé non interessa a nessuno, non vale nulla. L'idea di bene intemediario è che io lo accetto in pagamento quando vendo un bene, sapendo di poterlo usare come pagamento quando vorrò acquistarne un altro, di bene. Ma se l'oro, come stiamo ipotizzando, non vale alcunché, il paradosso si manifesta in tutta la sua evidenza: quanto oro dovrò chiedere per la mia mucca? dipende ovviamente da quanto oro mi chiederanno per il maiale. Un certo quantitativo d'oro, o il suo doppio, o la sua metà, sarebbero del tutto equivalenti a patto che il valore del maiale venga poi prezzato in oro in maniera conseguente. Per "partire" nell'uso di un bene senza valore come bene di scambio serve un accordo a tavolino, una scelta arbitraria sul suo valore, che venga accettato istantaneamente da tutti gli attori del mercato. Se invece rilasciamo l'ipotesi artificiale e torniamo al caso in cui l'oro ha un suo valore d'uso, ci rendiamo conto che i primi acquisti d'oro al solo scopo di usarlo come bene intermedio per ulteriori commerci erano privi dell'ambiguità del valore, perché potevano partire precisamente dal suo valore d'uso.
 
Questo, dunque, è il senso dell'argomento di Mises. Lungi dall'avere il carattere di un teorema formale, può essere in effetti riassunto in molti modi, che spesso, però, ne rappresentano una semplificazione. In genere tali semplificazioni prendono la regressione di Mises e la eleggono ad unico possibile meccanismo per l'acquisizione del valore di scambio. Da questo passo illegittimo discendono le due tipiche formulazioni del "teorema" di Mises: se un bene ha valore di scambio, deve aver avuto un valore d'uso in passato (il punto 1 di Colucci); se un bene non ha valore d'uso, non potrà in futuro acquisire valore di scambio (il punto 4 di Colucci).
Quello di Mises rappresenta in realtà un possibile meccanismo attraverso il quale un bene può acquisire valore di scambio. Se proprio vogliamo tradurre l'argomento di Mises in forma negativa ("non è possibile che..."), esso va riformulato come "se un bene non ha valore d'uso, esso non può aver acquisito valore di scambio attraverso il meccanismo descritto nella regressione di Mises".
(continua...)

29 April 2013

[1] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

 
Questo post era nato come breve, facile ironia in chiave freudiana verso certe tendenze dei miei amici, si fa per dire, austriaci. Poi però il tema del Bitcoin e della sua natura economica mi ha appassionato più del previsto e nell'informarmi e formarmi un'opinione ne è venuta fuori una cosa molto più lunga.
Per questioni di digeribilità, in questo web frenetico abituato a non più di 140 caratteri, l'ho spezzato in cinque parti.
 
[1][2][3][4][5]
 
Non sono prevenuto verso le analisi quantitative in ambito economico, per quanto condivida le critiche piuttosto generali di Hayek. Quello che trovo sbagliato è attribuire ad esse il ruolo di linea di demarcazione, di condizione necessaria di scientificità: si tratta di una forma ingenua di, potremmo chiamarla, invidia del pene verso i successi delle scienze dure, i quali successi l'economia spera di riuscire a riprodurre applicando pedissequamente i loro metodi.
Ma queste cose le ho già dette tante volte, questo post invece è per notare meccanismi di invidia tutto sommato analoghi messi in campo sovente dagli economisti di scuola austriaca. Da parte loro l'invidia si esprime in forma, per così dire, simmetrica, in emulazione dell'altra scienza dura per antonomasia, la matematica — sì, alcuni non considerano la matematica una scienza (vedi Vladimir Arnold, Quine, o più "popolarmente" il Sondaggio: che cosa è la scienza? su L'estinto), ma insomma ci siamo capiti.
Il loro approccio, in pratica, invece di scimmiottare i modi empirici e quantitativi della fisica, tende a scimmiottare i modi assiomatici, formalistici ed ipotetico-deduttivi della matematica.
Non ho letto quasi niente di originale di Mises, quindi non conosco direttamente il suo stile, ma ho sentito molte volte elogiare il suo metodo sedicente aprioristico. E in effetti il pretesto per questo post non me lo offre un rinomato economista austriaco, ma l'ultimo post su Il Lume Ritrovato, Perché Bitcoin può diventare moneta: l'impostazione sembra da manuale di algebra, con definizioni, teoremi, dimostrazioni e persino quantificatori logici; l'effetto complessivo, però, tende ad essere l'esatto opposto del rigore matematico.
Con ciò non voglio dire che le sue tesi siano sbagliate o stupide, ma certamente i modi e le argomentazioni appaiono proprio così.
Prendete la definizione di moneta: il Colucci elegge la proprietà di "unità di conto" a definizione di moneta, ma si tratta in gran parte di un arbitrio: innanzitutto perché ci sono molte altre proprietà che caratterizzano una moneta (liquidità, riserva e stabilità di valore, suddivisibilità, trasportabilità, universalità, etc), e nessuna di esse è "on/off" (o un bene ce l'ha, o non ce l'ha), ma al contrario ogni bene può manifestare una o più di quelle proprietà in gradi diversi. L'elezione dell'unità di conto a proprietà definitoria è dunque in gran parte arbitraria perché un bene mostrerà tanto più le caratteristiche di una moneta quante più proprietà, fra quelle, possiede, e con più alto grado, e non sarà sufficiente che perda (un po' di) una sola di quelle proprietà perché non possa essere più considerato moneta.
Tutto questo per dire che le conseguenze che vogliamo trarre dalla costatazione che un bene funge da moneta non sono deduzioni "on/off", ma di grado, e saranno valide precisamente nella misura in cui — saranno tanto più valide quanto più — il bene gode di quella proprietà da cui volevamo far discendere la conseguenza.
 
Lo stesso teorema di regressione di Mises, tanto per fare un esempio più autorevole, non mi è per niente chiaro perché si chiami, appunto, teorema: quali sarebbero le ipotesi e quale la tesi? Quelle della schematizzazione di Colucci (punti 1 e 4) prestano il fianco a diverse critiche.
(continua...)

03 April 2013

No science at all?

Devo confessare che sta cominciando a infastidirmi questo ruolo di complottista in cui mi si infila nonappena cito la scuola austriaca. Questa volta è capitato nientemeno che con Marco Delmastro.
Ora, era ovvio che la sua domanda fosse orientata non tanto all'economia in generale quanto all'econofisica, in cui si cerca di applicare modelli di meccanica statistica ad oggetti di natura prevalentemente finanziaria. Era ovvio, perché rappresenta il naturale tentativo di approccio all'economia di chi ha studiato fisica.
La mia risposta, perciò, era chiaramente fuori tema e volutamente provocatoria (per questo mi sono affrettato a precisare che l'àmbito del mio suggerimento di lettura non era né la finanza né tantomeno l'econofisica).
Però la sua risposta non è stata del tipo: "ok, ma mi interessava altro", bensì del tipo: "ma quelle sono solo una serie di opinioni, non è punto scienza!".
 
Nel lungo thread Metodo e spiegazione scientifica mi sono già dilungato in chiave epistemologica sul problema della demarcazione e sulle sue "applicazioni" in ambito sociologico, in generale, ed economico in particolare.
In questo post mi limiterò pertanto a qualche osservazione più superficiale, per suggerire che, anche senza passare, con Quine, sul cadavere di Popper, è possibile accorgersi che c'è qualcosa di profondamente ingenuo, se non di palesemente sbagliato, nell'idea che sia sufficiente, in qualsiasi campo, applicare i metodi della fisica o della matematica per ottenere (finalmente?) risultati "scientifici": e l'economia non fa eccezione affatto.
 
Innanzitutto va sottolineato che la meccanica statistica, per definizione, non affronta la natura dei sistemi a cui è applicata: questo è il motivo della sua estrema versatilità ed efficacia, ma è anche il suo limite epistemologico. Il suo approccio è precisamente quello di dedurre la fenomenologia macroscopica a partire da pochi principi microscopici (simmetrie e località delle interazioni), da alcune assunzioni di casualità (giustificate da considerazioni ora di ergodicità classica, ora di intrinseca stocasticità quantistica) e dal loro "scalare" con le dimensioni del sistema (e.g. equilibrio infrarosso, flusso di rinormalizzazione, transizioni di fase, etc...). E' dunque ingenuo pretendere di riuscire a capire l'economia attraverso la meccanica statistica e, anzi, un suo eventuale successo descrittivo, predittivo persino, sarebbe soltanto la prova che il sistema non contiene forzanti macroscopiche rilevanti e che la sua evoluzione è essenzialmente governata dalle leggi browniane del random-walk: quasi, dal punto di vista del fisico, la prova che non c'è niente di realmente interessante. E infatti di solito i modelli fisico-matematici applicati alla finanza sono efficaci precisamente nei periodi "di calma piatta", quando, cioé, non ci sono "forze" su scala macroscopica e l'andamento è davvero governato dalla casualità microscopica. Se questo è tutto quello che si chiede, ben venga l'econofisica. Ma non parliamo, per favore, di capire l'economia.
Se, d'altra parte, un analisi più specifica delle dinamiche economiche porta ad escludere quasi a priori la possibilità di descrizioni e previsioni quantitative (rivoluzione marginalista, soggettività del valore, assenza di equilibrio per "everchanging landscape"), non la si deve necessariamente considerare una prova di non-scientificità, proprio come la scientificità dell'evoluzione darwiniana non viene minimamente scalfita dal fatto che non si possano prevedere tempi e modi delle prossime speciazioni.
Del resto quali breakthrough ha portato l'econofisica all'economia? Si è forse riusciti a prevedere questa crisi apocalittica che dal 2008 ancora non ci fa vedere la luce fuori dal tunnel? Forse che le dinamiche che l'hanno determinata non erano quelle messe in conto dalle modellizzazioni meccanico-statistiche? Ma più in generale ancora, al di là dell'econofisica, quali sono i breakthrough dell'economia tout court? E' riuscita forse lei, anche senza meccanica statistica, a prevedere questa crisi? O non è forse stato proprio il suo approccio keynesiano a causarla? Non vorrei ripetere cose già dette, ma dov'è tutta questa "scientificità" dell'economia, se le diverse scuole non sono d'accordo su niente, se le varie teorie, pezzi sconnessi senza puzzle, si succedono come mode senza alcun percorso, senza alcuna "crescita" di conoscenza?
 
E allora io non so su quali basi Marco si sia fatto l'idea che la scuola austriaca non sarebbe scientifica: davvero gli è bastata la ridotta presenza di matematica? o forse si è basato sul fatto che venga generalmente considerata eterodossa, e dunque, evidentemente, non scientifica, da neoclassici e keynesiani, sedicenti scientifici?

20 December 2012

Lo spreco dell'acqua

Visto che nessuno mi ha (ancora) risposto sulla questione del sovracconsumo delle risorse della Terra, spinto da un analogo post sempre su oggiscienza, Il libro blu dello spreco in Italia: l’acqua, vi propongo un'altra domanda, su analoga questione, ma più specifica: il consumo, ma soprattutto il risparmio, d'acqua dolce.
Nel caso dell'acqua siamo di fronte ad una risorsa che non viene stoccata in quantità significative, e la sua "produzione" è determinata, stazionariamente, dal famoso ciclo dell'acqua. I "volumi di produzione" di tale ciclo sono certamente variabili e posso dunque capire le preoccupazioni di chi biasima pratiche che potrebbero alterarne, al ribasso, i ritmi di produzione. Non mi vengono in mente esempi concreti di tali pratiche, ma le variabili da cui dipende il ciclo dell'acqua (in una determinata regione geografica) direi che ricadono in ambito atmosferico, climatico, orografico persino, ma certamente non nell'ambito del ritmo di consumo dell'acqua stessa. A meno, certo, del caso estremo in cui i livelli di consumo siano tali da esaurire l'intero volume di produzione locale: sto pensando a condizioni di siccità.
Ecco, le condizioni di siccità mettono in luce le contraddizioni che vedevo nel concetto di sovracconsumo: nel caso dell'acqua è evidente che non è possibile consumarne più di quanta ne venga prodotta, al massimo si può esaurirne la disponibilità ed eventualmente ci si può preoccupare della sua distribuzione. In caso di siccità del Po, in un esempio ipotetico, avrebbe senso preoccuparsi che se a Piacenza il consumo d'acqua dovesse essere troppo elevato, a Cremona potrebbero rimanerne senza.
Ma, e vengo finalmente al punto di questo post, se non ci troviamo in condizioni di siccità, il ritmo di utilizzo dell'acqua non mi pare possa incidere sul suo ritmo di produzione. Alla fine, per restare nell'esempio stilizzato di prima, tutta l'acqua del Po va finire in Adriatico, compresa quella che "risparmiamo" quando chiudiamo il rubinetto mentre ci insaponiamo o ci spazzoliamo i denti. L'invito che viene ripetuto a contenere il consumo dell'acqua, anche nelle stagioni umide, mi sembra del tutto analogo a quella storiella per bambini inappetenti che vengono esortati a finire la pappa... perché ci sono bambini poveri che non hanno niente da mangiare: tutto quello che "risparmiamo" sul cibo, che non "sprechiamo", non viene affatto, per il fatto stesso di non essere consumato, convogliato verso l'Africa subsahariana! Allo stesso modo, se non siamo in periodo di siccità, tutta l'acqua che non consumiamo... va semplicemente a finire in mare!
O no? Questa volta è forse più facile smascherare l'errore del mio ragionamento?

30 November 2012

   [9] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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(...continua)
§  La scuola austriaca
Con la scuola austriaca è tutt'un altro mondo, hai la genuina sensazione di comprensione: si parte da situazioni semplici e si acquisiscono principi e metodologie che appaiono subito come generali e facilmente applicabili in mille situazioni diverse. Di più, i vari pezzi combaciano perfettamente gli uni con gli altri a formare un quadro dotato di senso. Il che non significa, certamente, aver capito tutto subito, ma significa che per nuove situazioni sai individuare le variabili rilevanti, riesci a capire le direzioni in cui guardare per cercare una risposta, ma soprattutto sai giudicare cosa, invece, rappresenta un dettaglio del tutto irrilevante. Le situazioni reali restano involute, e ci mancherebbe, ma le interpretazioni austriache non si basano su modelli specifici, che assumono relazioni di causa-effetto semplici nonostante il contesto complesso; esse si basano su principi generali che valgono indipendentemente dai dettagli contingenti che invece sono il tipico oggetto di studio dei modelli economici mainstream.
 
Cosa dovremmo pensare, se non che non hanno capito nulla del processo evolutivo, di quei critici (della scientificità) dell'evoluzionismo che sfidassero a fare una previsione specifica su, chessò, quando precisamente quella tal specie cambierà qualche suo fenotipo, e quale, e come? Allo stesso modo le critiche alla teoria austriaca sulla sua mancanza di previsioni precise e falsificabili, sulla sua reticenza all'uso di modelli quantitativi, econometrici e verificabili sperimentalmente, rivelerebbero semplicemente di non aver colto il senso e la portata del suo quadro concettuale.
 
Faccio un esempio, per non lasciare che le mie apologie siano sempre vuote. Prendiamo le politiche monetarie delle banche centrali in regime di monopolio di emissione di moneta a corso legale forzoso: l'aver compreso il ruolo di coordinamento giocato dai prezzi di mercato, e in particolare di quel prezzo che è il tasso di interesse sui prestiti, ha come naturale conseguenza che le politiche monetarie, in qualsiasi direzione cerchino di spingere, devono essere considerate semplicemente delle distorsioni nei segnali che il livello dei prezzi altrimenti invierebbe a tutti gli attori del mercato, dirottando risorse verso progetti e investimenti non richiesti dal mercato, e dunque destinati al fallimento, sottraendole a quelli che potrebbero avere successo. Detto questo, non ha senso mettersi ad argomentare tirando in ballo l'entità della bilancia commerciale o le quotazioni della valuta sul mercato dei cambi o i tassi di prestiti interbancari o qualsiasi altro dettaglio contingente: l'effetto di distorsione ci sarà comunque, anche se l'effetto potrà assumere forme quantitative diverse, a seconda di quelle variabili e di mille altre che non saremmo mai in grado di misurare.
Per fare un parallelo con la fisica, è come se i modelli mainstream cercassero di analizzare in dettaglio la dinamica di una macchina del moto perpetuo, cercando il punto esatto in cui il modello si discosta dalla realtà, sperando così di poterlo migliorare ed ottere davvero, finalmente, il moto perpetuo; mentre gli austriaci, di fianco, magari non sanno dirti bene dove la dinamica del modello comincerà a discostarsi dalla realtà (perché la dinamica è davvero complessa, gli austriaci non lo negano), però provano a ragionare in termini di bilancio energetico e scoprono che no, non può essere: indipendentemente dai dettagli cinematici, alla fine il moto si smorzerà.
 
Insomma, la forza, notevole, dell'approccio austriaco è tutta qui: nel fornire un quadro di interpretazione coerente dei fenomeni economici, evidenziandone i meccanismi rilevanti, gli attori principali e quelli irrilevanti. Molto spesso lo fa senza appoggiarsi a quelle analisi quantitative che tanto piacciono agli economisti mainstream, utilizzando argomenti del tutto generali, capaci di giudicare la bontà o meno di una schematizzazione matematica prima ancora di controllarne l'aderenza empirica a determinati casi concreti.
Volete usare un nome specifico, prasseologia, per questo approccio? Liberissimi di farlo, ma si tratterebbe di una caratterizzazione di ambito, non di metodo. Il metodo, epistemologicamente parlando, è uno solo, quello scientifico, buono tanto per la fisica, quanto per la biologia e l'economia, ed è precisamente lo stesso, à la Quine, usato nella vita quotidiana per oggetti e persone. Le diverse declinazione che i diversi ambiti richiedono differiscono per prassi legate alle specificità dell'oggetto di studio, non per status epistemologico. E per la sedicente prasseologia l'ambito è lo stesso dell'economia classica.
 

29 November 2012

   [8] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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(...continua)
§  Tessere senza puzzle e il calorico di Laplace
La cosa che colpisce di più dell'approccio austriaco, dicevo, è proprio questo suo essere sistematico, questo fornire un quadro interpretativo coerente dei fenomeni economici. Colpisce molto perché, al contrario, un tratto comune di tutte le altre economie è proprio quello di essere, ciascuna, un coacervo di modellizzazioni: prima ancora del difetto di essere stilizzate e/o viziate da qualche assunzione inverosimile, hanno il ben più grave difetto di essere del tutto avulse l'una dall'altra, tessere isolate senza alcun puzzle. A posteriori, questa caratteristica appare come una delle principali ragioni per cui l'economia non era mai riuscita ad appassionarmi: ogni articolo, ogni "spiegazione" di un qualche processo, appariva, nella migliore delle ipotesi, come un brillante esercizio di stile, capace di colpire per il suo ricondurre un qualche effetto visibile ad un meccanismo semplice. Ma i diversi meccanismi non si incastravano l'uno con l'altro a formare un quadro coerente, né costituivano casi paradigmatici da poter applicare in altre situazioni. Per motivi probabilmente molto diversi, si aveva la stessa sensazione che si prova studiando filosofia al liceo: un brancolare senza direzione, con piacevoli incontri ma senza mai la percezione di un senso complessivo.
Prendete la pagina di wikipedia sulla storia del pensiero economico: non c'è un percorso, ogni paragrafo è un'idea diversa, pronta per essere dimenticata nel paragrafo successivo, e ritirata fuori quello dopo ancora, con un neo- davanti...
Ancora: sono molto divertenti tutti quegli studi, chessò, sul mercato del lavoro, in cui si argomenta prendendo in considerazione quella particolare variabile, chessò, il cuneo fiscale, si evidenzia un possibile effetto in una certa direzione di un suo aumento o riduzione, chessò, un aumento o riduzione della domanda, o dell'offerta, si argomenta con qualche caso storico, come quando nel tal paese si girò la manopola del cuneo fiscale in tale direzione e si verificò un cambiamento nel mercato del lavoro in quella certa direzione, e si conclude che il miglior provvedimento da prendere qui e ora è proprio quello. O quello opposto, perché non bisogna dimenticarsi di quell'effetto collaterale che spinge nell'altra direzione, come dimostra quello che successe in quel tal altro paese, quel cert'altro anno.
 
Quando Laplace misurò quantitativamente con precisi esperimenti la quantità di fluido calorico scambiato tra due corpi a temperature diverse, stava testando un caso specifico di una teoria con un solido apparato concettuale e matematico, e con un vasto riscontro sperimentale; quando la teoria cinetica del calore scalzò quella del calorico lo fece proprio attraverso una revisione estesa e profonda di tutto lo schema concettuale che inquadrava la già vasta conoscenza dei fenomeni termici; e la nuova teoria era in grado precisamente di rendere conto di quella stessa fenomenologia, inquadrandola meglio all'interno dell'immagine più ampia del mondo fisico.
 
Il caso ipotetico del mercato del lavoro, quale teoria vorrebbe corroborare? Cosa saremmo costretti a rivedere, se dovesse risultare falsificata? Poco o nulla, il suo valore è estremamente circoscritto, ed è sempre dietro l'angolo la possibilità che un fattore trascurato si riveli meno irrilevante o che un'ipotesi di partenza non fosse realmente soddisfatta.
A differenza della scuola austriaca, le varie economie mainstream (dalle varie neo-declinazioni keynesiane alle altrettanto varie declinazioni neoclassiche) non hanno una teoria in cui inquadrare i vari modellini: si limitano a prendere, ogni volta, in ogni particolare modellino, un gruppo di variabili quantitative più o meno a caso, provano a trarne una qualche correlazione matematica e cercano se una correlazione simile può essere riscontrata in un caso reale specifico: è del tutto evidente la totale povertà esplicativa a cui un simile approccio può aspirare!
(continua...)

17 November 2012

   [4] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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(...continua)
§  Le critiche degli austriaci: da Hayek alla prasseologia di Mises
Prendiamo, ad esempio, le critiche di Hayek, probabilmente le meno radicali e più circoscritte, e per questo forse le più facilmente condivisibili, ma non per questo meno incisive.
Un bel compendio (con beneficio di inventario: in realtà ho letto poco Hayek) lo si può trovare nel suo discorso di accettazione del Nobel (The Pretense of Knowledge). Le sue critiche non cercano di alzarsi sui massimi sistemi, tentando di definire un criterio di demarcazione per una conoscenza scientifica e bocciando il positivismo economico sulla semplice base della violazione di tali criteri. No, lui accetta di buon grado la possibilità, in linea del tutto teorica, di elaborare modelli quantitativi di sistemi socio-economici da cui trarre significativi insegnamenti e concrete ricette per modificare o stabilizzare l'evoluzione di tali sistemi in direzioni desiderate. Solo che poi arriva a negare la bontà di praticamente tutti i modelli usualmente proposti, sulla base di considerazioni nel merito di tali modelli, senza ovviamente contestare la bontà dello svolgimento matematico della modellizzazione, ma negando i presupposti di validità delle assunzioni che dovrebbero giustificare tali modelli come adeguate rappresentazioni della realtà. Le sue non sono argomentazioni "esterne", ma parlano la stessa lingua del positivismo economico; e tuttavia sono di natura così generale da avere come risultato pratico un rifiuto virtualmente sistematico dell'applicazione di metodi quantitativi nel tentativo di capire e governare l'economia.
Per poter giudicare la bontà e la forza delle argomentazioni di Hayek, dunque, bisogna in qualche modo entrare nel merito dell'economia e dell'econometria, bisogna adottare, cioè, lo stesso approccio positivista che si ritroverà alla fine enormemente depauperato.
 
In alternativa è possibile arrivare alle medesime tesi per vie ortogonali, criticando il positivismo economico su basi puramente epistemologiche, fornendo la propria visione di "giusto sapere" in campo socio-economico, cercando di mostrare che il "solito" metodo scientifico può andar bene per la fisica ma non per l'economia, e dando persino un nome, la prasseologia, al corretto approccio, sedicente aprioristico-deduttivo, per lo studio di dinamiche sociali.
Ebbene, è evidente che un tale approccio risulta estremamente delicato: cosa mai potranno, questi austriaci, su un problema, quello della demarcazione, su cui scienziati e filosofi della scienza a legioni si sono accaniti da prima ancora di Galileo, e a tutti, nei casi migliori, è sempre mancato qualcosa?
 
Meno che a Quine, ovviamente.
 
Ecco, le vaste pretese di questo post di cui parlavo in apertura stanno tutte, precisamente, nella spiegazione delle vere ragioni della bontà dell'approccio austriaco, perché mi toccherà riassumere l'epistemologia quineiana.
(continua...)

08 November 2012

   [0] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  Dichiarazione del tema
Post di vaste pretese, questo.
Tutto nascerebbe da una questione apparentemente marginale, ovvero il rapporto degli austriaci col positivismo. I primi da intendersi, ovviamente, non come popolazione di lingua tedesca localizzata in Austria, ma come metonimia per una tradizione di pensiero in campo economico; il secondo da intendersi, inizialmente, come approccio metodologico ai temi economici. Ho detto "inizialmente" perché il passo dal positivismo economico al positivismo scientifico è breve, soprattutto per chi come me ha un tenero rapporto d'affetto con quest'ultimo.
Il fatto è che questi economisti di scuola austriaca hanno invece un pessimo rapporto col positivismo, e per me le critiche al positivismo rappresentano, in genere, il primo campanello di allarme per sospetto idealismo tedesco (latente). E poiché la gente pensa già che col libertarismo io abbia abbracciato una sorta di setta satanica à la Scientology, se si fanno anche l'idea che abbia sdoganato pure i continentali, penseranno le peggiori cose di me — il libertarismo ti rivolta come un calzino... ma Hegel resta Hegel!
E' urgente più che mai, dunque, fare chiarezza sulla questione.
 
Siccome però questo post cominciava a diventare più lungo del solito (il che è tutto dire), e poiché pare che sul web pubblicare cose lunghe non sia cortesia verso il lettore, ho pensato di spezzarlo in più parti.
E così per ora mi fermo qui, lasciandovi a crogiolare nell'attesa della prossima puntata.

10 October 2012

Troll

Devo ripromettermi di cambiare completamente i toni dei commenti, altrimenti farò sempre la fine del troll, come in calce a questo post, "Why, Ahimè, the Usual Economics Cannot Explain the Industrial Revolution".
 
La situazione sembrava favorevole, il post simpatizzava con la McCloskey, che non solo si colloca fuori dal mainstream, ma, in un certo senso, potrebbe condividere con la scuola austriaca tutta una classe di critiche all'economia "ufficiale", quelle, almeno, che riguardano l'uso disinvolto dei modelli matematici. Ma, evidentemente, le cose si rompono proprio quando scoprono che sei un simpatizzante della scuola austriaca: come parlare di disegno intelligente in casa di un paleontologo.
 
Un paragone appropriato, secondo me, me lo ripropongo spesso: come faccio ad essere così sicuro che in questo caso, quello economico, sia proprio l'eresia ad essere nel giusto, e non il mainstream, come nel caso delle scienze?
Le ragioni, ovviamente, ci sono, e risiedono proprio nell'approfondimento delle tematiche economiche, che è sempre rimasto, l'approfondimento, in moto browniano, finché non è sbucata la scuola austriaca, che ha messo improvvisamente ogni cosa al suo posto. Questa cosa del moto browniano, però, non è solo mia: l'economia stessa, che progressi ha fatto, in tutti questi decenni? E' facile dire mainstream, ma qual è il core di conoscenze comune a tutti i dipartimenti di economia? Nonostante l'ostentata matematica, si ha molto la sensazione di essere come in filosofia: c'è tanta gente, ci sono tante cose interessanti (assieme ad una maggior pletora di fumo), ma non c'è un "modello standard". Anzi, la scuola austriaca è l'unica, che io sappia, ad avere un impianto teorico coerente, capace di fungere proprio da nucleo di aggregazione a mo' di "modello standard" di teoria economica.
Il paleontologo di fronte al disegno intelligente ha nientepopodimenoché Darwin, da mostrare. Contro gli austriaci, cosa c'è?
Ma il punto è: perché il mainstream non si accorge della scuola austriaca come di Darwin e di Einstein?
 
Oh, si prova a discuterne, eh? Ma giudicate anche voi e ditemi dove sbaglio.
 
Allora, il tema è questa teoria austriaca del ciclo economico, che è una sorta di applicazione pratica particolare, rispetto all'impianto del tutto generale della sua visione dell'economia (che forse non è un buon punto di partenza per un confronto proprio perché, invece di partire dalle fondamenta, si rivolge a situazioni concrete e reali; che però, ancora proprio per questo, diventa un frequente oggetto di confronto fra la scuola austriaca e il resto del mondo).
Gli argomenti che giustificano la teoria austriaca dei cicli economici risiedono, si diceva, nell'impianto teorico che ne sta alla base: il ruolo dei prezzi dei beni nel coordinamento per l'allocazione delle risorse, il tasso di interesse come "prezzo" di quel particolare bene che è la moneta, misura, il tasso di interesse, della propensione al risparmio e della preferenza temporale rispetto ai beni di consumo finali (ovvero della quantità di guadagno sottratta al consumo immediato e accantonata per consumi differiti nel tempo); su queste basi, la manipolazione arbitraria dei tassi di interesse e della massa monetaria da parte delle banche centrali costituisce una distorsione dei segnali dei prezzi, capace in particolare di frodare il naturale bilanciamento fra risparmio e consumo, e quindi di falsare le esigenze del mercato verso una maggiore o minore profittabilità di investimenti in progetti a lungo termine o meno.
Non c'è un meccanismo di causa-effetto quantitativamente semplice e diretto, ma una sintesi piuttosto comune della teoria austriaca del ciclo economico suona più o meno così: la tendenza a ridurre artificialmente il costo del denaro genera un eccesso di investimenti (fase di boom) su progetti che si riveleranno poi non sostenibili (bust).
E' una semplificazione e va presa per quello che è: se hai delle critiche, vanno dirette alla teoria austriaca, non alla sua semplificazione. Dire che la teoria non è convincente perché sì, ci sono stati gli interessi bassi che avrebbero causato il boom, ma poi quei tassi non si sono rialzati per generare la crisi che invece c'è stata, significa aver introiettato una propria idea della teoria austriaca, verosimilmente basata sulla diffusa semplificazione.
Ma, oh, può succedere: non siamo obbligati tutti ad essere esperti mondiali di scuola austriaca! Però se a questa critica si risponde uscendo (e sottolineando il fraintendimento generato) dalla semplificazione della sintesi, e si entra nei dettagli, poi a questa risposta bisogna controbattere su quei dettagli, non chiudersi a riccio.
 
E badate che non è questione di pochi casi isolati, di un blogger "sfigato" (che non è certamente il caso de La teiera, ché nientemeno che di un ricercatore e docente universitario di economia alla Bocconi si tratta), perché questa dinamica dialettica si trova pressoché ovunque si parli, in ambiti più o meno istituzionali, di scuola austriaca.
Prendete questa serie di video di Tyler Cowen, Business Cycles Explained, peraltro abbastanza carini (ma non sono ancora riuscito a vedere tutte le puntate) sui differenti approcci al problema dei cicli economici. La scuola austriaca, più o meno comprensibilmente, considerando anche le ragioni di sintesi, viene presentata attraverso l'usuale semplificazione appena descritta. Qui (siamo nel quarto video), quando si arriva a descrivere le (presunte) debolezze della teoria austriaca, si gioca la carta dell'altra obiezione citata da La teiera: l'intelligenza degli imprenditori che, diamine, non sono degli ingenui, e se intuiscono che i tassi sono artificialmente bassi, non si lasceranno ingannare e dirigeranno bene i loro investimenti in maniera da compensare i falsi segnali inviati dalla FED (c'è questa buffa scenetta in cui si ride pensando ad imprenditori che, ah ah ah, non leggono il FT o il WSJ o addirittura Fox News per controllare le previsioni del tem… ehm, dell'inflazione). Anche qui, la teoria austriaca risponde uscendo dalla semplificazione e spiegando come sia l'obiezione ad essere ingenua: se, a differenza della teiera, non vi lasciate spaventare dalla lunghezza — che nondimeno è realmente eccessiva, al mises sono sempre verbosissimi (senti chi parla, ndl) — potete trovare una versione più o meno approfondita della risposta su questo vecchio Mises Daily di Brian J. Stanley: Why Don't Entrepreneurs Outsmart the Business Cycle?
Badate che la risposta di Stanley non esaurisce le ragioni della teoria austriaca contro le manipolazioni centrali della massa monetaria e le ragioni profonde dei cicli economici, essa si limita a rispondere alla critica sull'ingannabilità o meno degli imprenditori: in breve, per citare due punti soltanto fra molti, è ingenuo pensare che l'imprenditore sappia discernere la componente artificiale da quella naturale dei tassi, ed è ingenuo ignorare che i tassi artificialmente bassi rappresentano comunque un'opportunità economica che sarebbe stupido per l'imprenditore non sfruttare.
 
L'obiezione, nella sua ingenuità, è facilmente smontata. Forse che, così come viene formulata, così come viene intesa dagli austriaci che la contestano nel merito, l'obiezione ha una sostanza meno ingenua dietro quella che sarebbe dunque, analogamente, una semplificazione?
E quale sarebbe, di grazia, questa sostanza?

05 September 2012

Earth overshoot day

Provo a riprendere con un post dall'ultimo commento del Mau (che avrà di meglio a cui pensare in questi giorni, ma tanto i tempi di questo blog sono sempre stati molto pazienti), col pretesto dell'Earth overshoot day, lo scorso 22 agosto, nella speranza che qualcuno degli ormai rari lettori che ancora passano per questo blog possano aiutarmi a capire qualcosa.
 
Ne avevo letto prima su Linkiesta, Dal 22 agosto esaurite le risorse naturali 2012. Inizia la decrescita infelice?, ma poi ne ha parlato anche OggiScienza, In debito con la Terra, e sono anche andato a spulciarmi il sito ufficiale, Global Footprint Network, ma non riesco proprio a venirne a capo. 
L'idea, sembrerebbe di capire, è che l'uomo consuma più risorse di quante la Terra gliene possa mettere a disposizione, ma tale concetto, prima ancora di qualsiasi conto, mi sfugge completamente. 
Non abbiamo altre "Terre" cui attingere, come riusciremmo a soddisfarli, dunque, quei consumi "extra"? Il conto verrebbe fatto anno per anno, ed è già da un po' di anni che "sforiamo". Il Montesi de Linkiesta sembra concepire una simile domanda, a cui prova a fornire (io credo con una propria certa autonomia d'interpretazione) la risposta più plausibile in questo contesto: le uniche risorse rimaste sono le nostre riserve: riserve alimentari ed energetiche. Ma una tale prospettiva rende l'idea ancora più incomprensibile. 
Davvero, aiutatemi a capire: di quali risorse stiamo parlando? 
Risorse alimentari? Davvero ci sono da qualche parte dei grandi magazzini di, chessò, riso, patate, o altro cibo (evidentemente non deperibile, o liofilizzato...), messo da parte fino agli anni '70 e da cui ormai da un po' di anni abbiamo cominciato ad attingere per tirare a fine anno? La gente muore di fame, in Africa e non solo, certo, ma questo significa che non ce ne sono abbastanza, di risorse alimentari, non significa che ne stiamo consumando più di quante ne produciamo. Si vuol forse dire che il regime di alimentazione di una parte del mondo (quello occidentale) non potrebbe essere offerto parimenti a tutto il mondo? Ma allora si tratterebbe di un problema di distribuzione, di quelle risorse, non di sovracconsumo. 
O stiamo forse parlando di risorse energetiche? Ma a parte quelle rinnovabili (solare, eolico, marino, etc...), tutte le altre fonti energetiche sono per definizione sovracconsumate: la Terra non ha alcuna quota di "produzione" annua di petrolio, carbone, etc: la totalità, il 100% del loro consumo è "sovracconsumato" e non verrà mai più rigenerato dalla Terra il prossimo anno. Al massimo, se volessimo parlare di quota annuale, questa riguarderebbe la loro estrazione, peraltro estremamente variabile, ma anche in quel caso è inverosimile che si sia "stipato" carbone e petrolio estratto fino agli anni settanta e poi cominciato a svuotare le riserve. Forse si vuol considerare un qualche forma di "capacità di smaltimento" dei prodotti di scarto dello sfruttamento di quelle risorse: ma allora stiamo parlando di inquinamento, o di effetto serra (riassorbimento di CO2), concetti molto lontani da quelli di "produzione di una risorsa" e di "suo consumo". 
 
E non pensate che il punto sia il mio fare le pulci ad un articolo di un quotidiano generalista e non scientifico come Linkiesta: anche OggiScienza si limita a rigirare le parole sulla metafora del budget annuale esauritosi già a due terzi dell'anno, e possiamo quasi capirla, in fondo, perché persino sul sito ufficiale del Footprint ci sono pagine e pagine di parole vuote: la sezione Footprint Science si limita a girare in tondo: dicono solo che calcolano l'ecological resource use and resource capacity of nations over time, che pubblicano dati da un po' di anni, suddivisi per oltre 230 nazioni, usando più di 6000 punti dati (?!?) per ogni nazione, esprimendo tutti i valori in ettaro equivalente, etc, etc... Va forse un po' meglio nella sezione Footprint basics in cui si spiega che l'Ecological Footprint misurerebbe di quanta superficie, di terra e di acqua, l'umanità ha bisogno per produrre le risorse che consuma, lo spazio necessario per gli edifici e le strade, e l'ecosistema necessario per assorbire i rifiuti prodotti, come la CO2 (lo spazio per edifici e strade? sì, sì, dice proprio the space for accommodating its buildings and roads!): qui si capisce che effettivamente vorrebbero tener conto dell'effetto serra, ma quali sarebbero le risorse che terra e acqua produrrebbero e che staremmo consumando ad un ritmo maggiore di quello di produzione? Le FAQ e il glossario non migliorano la situazione, rifilandoci per l'ennesima volta sempre le stesse vuote e circolari parole, per cui la biocapacity sarebbe la capacità di produrre useful biologica materials e di assorbire waste materials generated by humans, dove per “Useful biological materials” si intendono quelli richiesti dall'economia (?!?), e le terre e le acque biologically productive sono quelle che supportano una significativa attività di fotosintesi e di accumulo di biomassa usata poi dall’uomo (biomassa alimentare? voglio vedere questi container degli anni '60! Biomassa da combustione? di nuovo, come facciamo a consumarne più di quanta ne produciamo?). 
 
Insomma, se queste sono le argomentazioni sulla decrescita, qualcuno mi aiuti a capire. 
Dal canto mio vi suggerisco, in alternativa, questo video: Are We Running Out of Resources? 
 

17 July 2012

La comodissima verità sui prestiti

Ci sono verità scomode e verità comode. [...] Le verità comode [...] sono quelle che un po’ tutti già sanno, ma siccome sono comode la gente pensa che ci sia sotto una fregatura (“troppo comodo!”), così si comporta come se non fossero vere e alla fine, dopo qualche secolo, se le dimentica. [...] Poi c’è una terza categoria di verità: le verità comodissime. Vere e proprie pantofole per le orecchie.
Smeriglia, Tre verità comodissime
Un'altra di queste verità comodissime è la questione di come funzionano i debiti: ho qualche bisogno (o progetto) per cui mi servirebbero soldi subito e mi impegno, pian piano, a ripagare il prestito con gli interessi pattuiti (o scommetto che il progetto avrà successo e mi permetterà di ripagare debito ed interessi).
Sembra semplice, non pare ci sia bisogno di un corso di economia per capire la faccenda.
Almeno finché non si parla, appunto, di economia.
Prendete questo post, Positive feedback, di Giuseppe Lipari, persona intelligente ancorché non esperto di economia.
Nel descrivere la situazione stazionaria del "sistema dinamico" bilancio statale, scrive placidamente che fra le entrate di uno Stato, oltre alle tasse, possiamo annoverare anche la vendita di titoli, come se si trattasse di vendita di un patrimonio e non della contrazione di un debito. Scacciamennule è intelligente, si diceva, è non dimentica quindi di riportare, fra le uscite, anche la restituzione del debito, oltre alle spese correnti e al pagamento degli interessi. Ma si tratta di un errore (s'era detto che non è un esperto di economia), perché nessun economista vero si sognerebbe mai di pensare alla restituzione del debito: ad ogni scadenza di un blocco di titoli, lo Stato scende sui mercati obbligazionari per acquistarne altrettanti e più. Le due equazioni che scrive peccano del suo background scientifico, perché un vero economista semplificherebbe il debito da entrambi i lati dell'equazione entrate = uscite e scriverebbe:
 
uscite = spesa + interessi sul debito
 
entrate = tasse + ricavato vendita di ulteriori titoli (ulteriori rispetto al rinnovo automatico dei titoli in scadenza)
 
da cui si vede che il debito è semplicemente sparito (sì, compare come dipendenza degli interessi nelle uscite, ma si tratta di un tecnicismo matematico).
Fuor d'ironia, ammettiamo pure, per amor di discussione, che si sia di scuola keynesiana: ma non si deve forse prevedere un certo debito (per il fantomatico stimolo all'economia) solo per un limitato periodo di tempo, giusto appunto per superare una crisi e poter poi, col boom, ripagare quel debito contratto?
Quale logica perversa si cela dietro l'assunzione che uno Stato possa contrarre debito perenne... ma cosa dico: contrarre debito in maniera perennemente crescente?
Attenzione: la risposta non deve contenere la parola "inflazione".

24 December 2010

Per vedere lo Stato bisogna capirlo

Per vedere una cosa bisogna capirla. La poltrona presuppone il corpo umano, con le sue parti e le sue articolazioni; le forbici l’atto di tagliare. Che dire di una lampada o di un veicolo? Il selvaggio non può percepire la Bibbia del missionario; il passeggero non vede lo stesso cordame che vede l’equipaggio. Se vedessimo realmente l’universo, forse lo capiremmo.
J. L. Borges, There are more things, in Il libro di sabbia.
 
Oltre ad esporre la sua specifica visione libertaria della società, nel suo libro Per una nuova libertà Rothbard prova anche ad avanzare qualche ipotesi sulle possibilità concrete che le idee libertarie possano trovare realizzazione, più o meno pienamente, in un futuro non troppo remoto, magari proprio nei suoi Stati Uniti. E si resta sorpresi, a posteriori, del suo ottimismo, che intravede in una serie di "crisi" (la recessione, l'inflazione, i fallimenti keynesiani, l'aumento delle tasse, la situazione in Vietnam, il Watergate, et cetera) grazie alle quali avrebbero dovuto diventare evidenti a tutti gli esiti nefasti degli interventi statali.
In maniera molto simile, un analogo ottimismo tenta anche me, oggi: la gravità della crisi attuale e in particolare il fatto che siano proprio gli Stati in quanto tali a rischiare il fallimento, sembrerebbe l'occasione giusta per mettere in luce le contraddizioni del ruolo stesso dello Stato nella società (ché, ricordiamecelo, Stato e società sono cose diverse).
 
Le proteste diffuse (in Grecia, in Irlanda) contro i famigerati "piani di austerità", ad esempio, renderanno evidente a tutti, finalmente, la natura coercitiva del sistema statale: una persona piena di debiti, che ha speso per anni più di quel che aveva chiedendo in prestito soldi in giro, contro chi mai potrebbe protestare per non essere più in grado, ora, di restituire ogni cosa? Ebbene l'analogia con gli Stati e i loro debiti si rompe nel punto preciso in cui chi deve pagare, il cittadino, non coincide con chi ha deciso dove e come "bersi" tutti quei soldi, il politico — lo Stato non siamo noi, sono loro!
Finalmente tutti si accorgeranno che dichiarare qualcosa — un bene o un servizio — come "diritto" del cittadino (assistenza sanitaria, istruzione, trasporto pubblico, etc...), in maniera astratta, "a garanzia statale", significa considerare lo Stato come una mucca da mungere con risorse infinite, significa ignorare — per ingenuità o malafede — il costo del bene/servizio e chi debba pagarlo: perché qualcuno, in qualche modo, deve pur pagarlo, there ain't no such thing as a free lunch.
Ma adesso che si presenta il problema del "chi paga", diventa finalmente chiara la violenza dello Stato: io non ho scelto di avere servizi che non potevo permettermi e ora non voglio dover pagare per essi ("protesto contro le manovre di austerità"); del resto, negli anni di boom, ho approfittato anch'io di questi servizi "sopra le mie possibilità", ma d'altro canto non avevo alternative, erano servizi "pagati dallo Stato"!
Ecco dunque palesarsi, in tutta la sua perversione, la sproporzione e l'inganno del meccanismo elettorale: il voto non costa nulla, ma ha effetti devastanti: con esso non mi limito a dare "indicazioni legislative" su ciò che sarà legale o meno (e non entro ora nel merito del rapporto fra uno Stato e queste altre questioni legislative), ma sto dando letteralmente "carta bianca" sull'uso non solo dei miei soldi presenti, che forzatamente mi vengono espropriati con le tasse, ma addirittura sui miei soldi futuri, che vengono ipotecati per poter fornire, ora, servizi ad un livello che non ci si può permettere.
 
"Fornire servizi", ovviamente, nella più ingenua delle concessioni di beneficio del dubbio.
 
Questa volta, poi, c'è anche la concomitanza del caso Wikileaks, in cui non poteva essere più evidente che la differenza fra le democrazie occidentali e la fantomatica Cina è molto più sfumata di quello che viene sbandierato: se provi a metterti contro lo Stato, pur sedicente democratico, ci si mangia in un sol boccone, e senza nemmeno troppo dissimulare, qualsiasi habeas corpus.
 
Un ottimismo simile a quello di Rothbard, insomma, tenta anche me, oggi.
 
Ma quale ingenuità, sarebbe!
 
In realtà anche questa volta, come e più dei tempi di Rothbard, nessuno si accorgerà di niente e, anzi, come allora, la soluzione a tutti i mali sarà ancora più Stato, più Stato, più Stato. Ripeteranno ancora che le tasse per uscire dalla crisi le pagheranno i più ricchi per poter continuare a offrire servizi ai più poveri, e la gente continuerà a non accorgersi che sarà, come sempre, l'esatto contrario. Saranno capaci di offrire come cura al veleno, indebitamento e azzardo morale, ancora altro veleno, ulteriore indebitamento (il fantomatico "stimolo") e ancora più azzardo (titoli non più di Stato, ma addirittura d'Europa).
 
Del resto, io stesso, solo qualche mese fa, che interpretazione avrei dato di queste vicende? Mi sarei finalmente, da solo, riscoperto libertario? Del tutto inverosimile. Avrei invece cercato di far rientrare i fatti nell'usuale schema concettuale: avrei dato la colpa alla classe dirigente, ai politici, alla situazione anomala italiana di clamoroso conflitto di interessi, agli italiani incapaci di accorgersi di quell'anomalia e rigettarla alla prima occasione elettorale, o ad una delle innumerevoli altre successive, magari addirittura giustificandoli per via dell'immenso condizionamento mediatico a cui sono sottoposti da decenni.
Sarebbe stato difficile per me accorgermi, solo sulla base di questa crisi, che in realtà quello Italiano rappresenta proprio il caso emblematico di un meccanismo degenerativo del tutto generale e intrinseco alla natura stessa degli Stati, ai loro meccanismi di funzionamento standard. Che scandalizzarsi per la corruzione dei politici e chiedere a gran voce un ritorno alla legalità e all'onestà istituzionale e politica è semplicemente come scandalizzarsi per il corso dei fiumi e chiedere con fermezza che l'acqua prenda finalmente a scorrerre in salita!
E il caso italiano, dunque, diventa emblematico, contemporaneamente, da due punti di vista. Innanzitutto, come dicevo, rappresenta un esempio eclatante dell'esito naturale di un meccanismo che, monopolizzando l'uso della forza, permette proprio ai più ricchi e potenti di avere un solo interlocutore da dover "convincere", con facili ringraziamenti, per poter avere privilegi e agevolazioni; che, proprio per il fatto di avere un solo interlocutore, nega la possibilità di scelta al singolo cittadino e offre spazio di manovra ai poteri forti (corporazioni e lobby), solo loro capaci di potersi permettere gli opportuni "ringraziamenti" da offrire allo stato.
Ma nella sua esasperazione di questi meccanismi, l'Italia è contemporaneamente la prova paradigmatica che sarà impossibile cambiare, che l'evidenza più sfacciata di sopprusi, corruzione e malafede non può assolutamente niente, se manca una teoria capace di interpretare quell'evidenza.