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27 September 2016

Regolamentazioni

 
Questo recente post di Giuseppe Lipari, Disparità, sulla sparità fra uomini e donne nell'amministrazione statale, solleva la questione delle regolamentazioni, della loro efficacia, degli incentivi che producono e degli effetti collaterali che il legislatore, con un'ingenuità colpevole, non aveva previsto, credendo come un bambino dell'asilo che per ottenere qualcosa sia sufficiente metterlo per iscritto.
C'è anche un caso paradigmatico noto in letteratura col nome di effetto cobra, in cui il governatore britannico di una provincia dell'India, per contrastare un'invasione di cobra, offrì una taglia per ogni cobra morto consegnato alle autorità, generando in tal mondo un forte incentivo opposto ad allevare cobra.
 
Ma non c'è da scervellarsi su ogni caso specifico per evitare l'eterogenesi dei fini, non c'è da studiare un anno intero ogni singola regolamentazione per scovare tutti i possibili effetti collaterali: è infatti un principio del tutto generale che le regolamentazioni causino inefficienza e producano danno ai consumatori, attraverso artificiali barriere all'ingresso.
L'effetto immediato di simili inefficienze è quello di spingere consumatori e produttori a incontrarsi al di fuori delle regolamentazioni, con beneficio reciproco; ed è per questo che vengono introdotte sanzioni (il cui costo viene comunque accollato sulle spalle dei consumatori, anche se in maniera scorrelata al mercato di applicazione di quelle sanzioni).
In definitiva le transazioni "in nero" vengono messe in atto non già quando risultano più convenienti tout court delle corrispondenti soluzioni "regolamentate" (il che sarebbe essenzialmente sempre), ma quando risultano più convenienti includendo il sovraccosto delle sanzioni. E per sovraccosto ovviamente non si intende semplicemente il prezzo dell'eventuale multa, ma tutti i costi connessi ad essa e ai suoi rischi.
 
Tutto ciò non si limita, come si potrebbe ingenuamente credere, a drenare una certa quantità di risorse da produttori e consumatori a vantaggio del regolatore [1], ma deforma in maniera sostanziale la struttura stessa della domanda e dell'offerta.
I casi più evidenti sono quelli estremi, in cui cioè la regolamentazione statale alza barriere smisurate. Lo stereòtipo è il "nobile esperimento" del proibizionismo americano sugli alcolici degli anni venti del secolo scorso, o equivalentemente quello attuale sugli stupefacenti e la canapa, in cui i costi di regolamentazione hanno assunto i connotati di una vera e propria guerra alla droga.
Gli effetti sono molteplici.
Innanzitutto c'è quello di sterilizzazione del mercato sotto-soglia, sia per la domanda che per l'offerta, che colpisce quei settori che non sono in condizione di superare la barriera d'ingresso artificiale. Versioni economiche del prodotto non verranno prodotte, o almeno non per essere vendute a quella fascia di domanda, che resterà dunque all'asciutto. Questo tra l'altro significa che le regolamentazioni sono una tassa intrinsecamente regressiva, cioè che ricade maggiormente sui meno abbienti, i quali non possono più permettersi il bene regolamentato [2].
Nel caso del proibizionismo questa sterilizzazione arriva a colpire una grossa fetta del mercato, vista l'entità della soglia.
Ma l'effetto non è banalmente di "taglio" nella distribuzione, perché il mercato sopra-soglia che sopravvive deve compensare il fatto che gran parte dei costi che sta sostenendo non sono legati alla produzione, ma alle sanzioni: i gangster dovevano sostenere un prezzo molto alto per i loro traffici (il rischio di essere catturati dalla polizia, o uccisi da bande rivali, le strategie di difesa armate, frutto esse stesse del fatto che la risoluzione dei conflitti con i propri competitor non poteva seguire le più convenienti vie pacifiche dei tribunali, etc, etc) e dunque potevano dedicare poche risorse alla qualità dei propri prodotti, che in più, per ottimizzare i costi, non potevano che commerciare in grandi quantità. Ecco perché alcool e droga sotto il proibizionismo circolano tendenzialmente ad alta densità (ricordate di trafficanti di birra? solo superalcolici!) e bassa qualità (la droga di per sè non uccide: i morti per overdose sono l'effetto collaterale di un mercato in cui i prodotti sono tagliati male per ridurre i costi e in cui l'illegalità impedisce la formazione di marchi e rende pressoché impossibile una circolazione trasparente delle informazioni sulla qualità dei prodotti). [3]
 
In definitiva le regolamentazioni del mercato hanno, col beneficio del dubbio della migliore delle ipotesi, motivazioni ingenue da wishful thinking ed effetti distorsivi inevitabilmente a svantaggio di tutti.
E il dramma di tutto ciò è che il proibizionismo è stato sperimentato ormai un secolo fa, i suoi effetti sono sotto gli occhi di tutti, ma la guerra alla droga non ha indietreggiato di un millimetro e, al contrario, di fronte agli effetti collaterali negativi che emergono da ogni nuova regolamentazione, la riposta che si chiede a gran voce è ancora e ancora più regolamentazione.
C'è modo di uscirne?
Ne parleremo nella prossima puntata!

[1] il quale poi, dice, riverserà alla comunità, ovviamente dopo aver decurtato i costi di quell'enforcing, se mai fossero inferiore agli introiti delle sanzioni, che comunque non sarebbero pensati con scopi di fare cassa...
[2] e corrispondentemente ricade anche sui produttori con meno risorse, che dovranno chiudere bottega.
[3] Questo chiarisce anche l'ipocrisia delle campagne di sensibilizzazione che accusano la droga di uccidere, quando il vero assassino è invece proprio la legislazione proibizionista.

24 June 2016

Brexit /2

 
Maledetta attualità, ancora.
Qualche ulteriore commento[1], sempre in chiave libertaria, ancora a caldo subito dopo l'esito, un po' a sorpresa, del referendum nel Regno Unito.
La questione è un po' la solita, se l'abbandono del mercato unico europeo sia una scelta anti-liberale, sott'intendendo che l'adesione ad un'area di libero scambio sia, più o meno per definizione, un'opzione liberale.
Il punto è che in questa narrazione c'è qualcosa che non torna.
L'area Euro viene dipinta come uno po' come l'analogo per le merci ed il commercio degli accordi di Schengen per la libera circolazione delle persone. Ma a ben guardare l'appartenenza all'Unione Europea rappresenta un vincolo, per il paese partecipante, ad uniformarsi ad un insieme di regolamenti e legislazioni finalizzate ad uniformare le condizioni economiche e commerciali fra gli Stati membri. Be', capite bene che questo è l'esatto contrario del libero mercato ed è invece precisamente un cartello di rendite di posizione artificiali su scala continentale — pensate alle quote latte, alla Politica Agricola Comune, etc, etc...
Anche in chiave internazionale, l'uscita di una Pese forte come il Regno Unito da un simile cartello si traduce in un nuovo attore sul mercato globale con cui poter trattare in maniera indipendente: quando la Cina, la Russia o l'America, il Canada e la Svizzera vorranno affacciarsi sul vecchio continente non avranno più un interlocutore unico, ma Europa e Regno Unito si presenteranno in competizione[2].
 
Tutto questo per dire che per un libertario l'opzione del Regno Unito di uscire dall'Area Euro non si pone come un travagliato trade-off fra ragioni contrastanti, fra l'anelito indipendentista e la rinuncia al liberismo: si tratta invece di un'opzione che si muove nella direzione "giusta" su entrambi i fronti — disintegrazione politica e disintegrazione[3] economica.
Se poi produrrà addirittura un effetto a catena per cui a breve seguiranno anche la Scozia e la Catalunya — e, chissà, magari poi in scia anche il Veneto di Yoshi e la Sardegna di Fabristol — be', tanto meglio ancora!
 

[1] Anche per questo post, come per il precedente, valgono le solite avvertenze del caso: poco o punto è farina del mio sacco e dunque i meriti sono suoi, i granchi miei.
[2] Per citare un argomento prettamente anarco-capitalista — non-libertari, vi prego, voi ignorate del tutto questa nota! — i vincoli europei non permettevano alla City di Londra di funzionare come paradiso fiscale; ora non è detto che lo diventerà, ma certamente avrà molto più spazio di manovra.
[3] Yoshi usa il termine integrazione economica, per definire l'optimum libertario, ma il senso, chiaramente, è quello della divisione del lavoro, del vantaggio comparato, dell'anti-autarchia, che sono i giochi a guadagno condiviso del libero mercato. L'uso del termine integrazione, in questo senso, può risultare fuorviante, perché è lo stesso termine che viene usato appunto a livello europeo per indicare, però, una condizione di omogeneizzazione del mercato che è l'esatto opposto di quello che, io capisco, intende Yoshi.