Scopro più o meno per caso Infinite forme bellissime e meravigliose, blog fresco di nascita, su cui mi capita subito di leggere, in maniera del tutto scorrelata ma perfettamente in scia con gli ultimi miei post, che ci sarebbe una evidente e profonda differenza fra democrazia e dittatura della maggioranza. Ma forse il caso è solo apparente, perché il pretesto di quel post è lo stesso da cui era partito questo mio thread, ovvero il ruolo della democrazia per la scienza; fatto sta che mi s'offre, senza nemmeno chiederla, una risposta alternativa a chi invece si richiamava alle costituzioni per scongiurare le prevaricazioni della maggioranza e poter continuare a difendere la democrazia.
Tale risposta alternativa, però, è completamente sott'intesa e, almeno per me, tutta da chiarire: quale sarebbe la differenza, per non confonderle, fra democrazia e dittatura della maggioranza?
Per scongiurare il più possibile il rischio di passare per troll mi impegno in tutta la diplomazia di cui sono capace e mi arrischio ad un commento in calce al post. La diplomazia funziona, il rischio troll sembra scongiurato e segue nei commenti un interessante confronto.
Provo a tracciarne un riepilogo qui, in modo da tenerne traccia nel filone democrazia.
Dunque la difesa della democrazia, in questo caso, prenderebbe la via della condivisione (chissà cosa sarebbe venuto fuori ad approfondire il tema della consapevolezza...). Obscura per obscuriora, per quanto mi riguardava, nonostante tale differenza venisse giudicata lampante da chi scriveva. Chiarito che il senso non era, banalmente, quello di maggioranza allargata, il più ampia possibile, emerge il concetto di "bene comune" come linea guida: le scelte veramente democratiche sarebbero quelle condivise nel senso di orientate al bene comune e non di una sola parte, fosse anche la maggioranza.
Tesi estremamente interessante, se non altro perché potrebbe essere il senso implicito di molte difese della democrazia, più di quello della costituzione di cui dicevo nell'altro post.
Esisterebbe dunque un criterio indipendente, rispetto a quello del voto, per giudicare la bontà (democraticità?) di una scelta politica: il bene comune.
Noto subito che, anche in questo caso, la difesa della democrazia passa attraverso il forte ridimensionamento del meccanismo di voto come elemento caratterizzante. Nel caso dei "costituzionalisti" — lasciatemi chiamare così, in questo discorso, coloro che sottolineano l'importanza della costituzione per giudicare "difendibile" una democrazia — il ridimensionamento potrebbe essere considerato parziale, sottolineando che il voto resterebbe l'unico meccanismo decisionale legittimo, pur nei limiti costituzionali. Nel caso della democrazia "per il bene comune", invece, il meccanismo di voto viene spogliato anche della sua circoscritta autonomia e su ogni sua decisione pende il giudizio di dittatorialità qualora non sia perseguito il bene comune.
L'unico modo che mi viene in mente per salvare la caratterizzazione della democrazia, in questo caso, è quello di sostenere che il voto sia un meccanismo privilegiato per l'individuazione del bene comune: quello di sostenere, cioè, che il voto rappresenterebbe il miglior meccanismo decisionale capace di far procedere la società verso scelte "per il bene comune".
Non conosco argomenti a favore di una simile tesi che vadano al di là di una concezione ingenua del consorzio umano; al contrario, è stata elaborata un'intera branca dell'economia, che va sotto il nome di public choice theory (che ha dato il Nobel a diversi economisti, fra cui il recentemente scomparso James M. Buchanan), la quale mette in evidenza precisamente gli innumerevoli incentivi, inerentemente connaturati al processo decisionale democratico, che portano inevitabilmente a scelte di parte, che favoriscono minoranze ben organizzate a danno di maggiornze capaci di diluire il danno a tal punto da rendere sconveniente l'attività di lobbying per rimediare a quel danno. Niente di più lontano, cioè, da un meccanismo di avvicinamento al bene comune.
Questo ordine di obiezioni, à la public choice, attaccano proprio quel genere di difese della democrazia che si rifugiano nella distinzione fra sistemi democratici, in concreto, e la democrazia ideale, in astratto.
Ma c'è un livello ancora più profondo su cui si possono muovere critiche ad una tale prospettiva: un livello che si lascia alle spalle quello pragmatico in cui ci si chiede se la democrazia sia efficace o meno per raggiungere il bene comune, ed è quello in cui si mette in discussione il concetto stesso di bene comune.
Ebbene, la mia tesi, la tesi dei libertari, è che non sia possibile, non dico definire, ma nemmeno delineare, un concetto di bene comune che non sia, in realtà, espressione di parte. Le preferenze, le scale di valori, sono inevitabilmente soggettive — di più, la stessa persona può, e molto spesso lo fa, cambiare preferenze nel corso del tempo; di più ancora, la stessa persona, nello stesso momento, assegna valori diversi a beni identici (cfr. rivoluzione marginalista). Ma anche senza scomodare i fondamenti della teoria del valore, l'idea che si possa, a tavolino, stabilire cosa è meglio per tutti, anche in un senso debole, paretiano, del termine, è un presupposto ingenuo, non solo in astratto, in contesti filosofici di ricerca delle fondamenta, o analogamente in contesti economico-matematico (e.g. di teoria dei giochi) di definizioni assiomatiche, ma anche e soprattutto in contesti concreti di scelte politiche reali.
La mia tesi, la tesi dei libertari, è che bisognerebbe spogliarsi della pretesa di poter decidere, noi presunti sapienti, cosa è bene per tutti, ed imporlo; è che bisognerebbe lasciare ad ognuno la libertà di fare le proprie scelte, con l'unico limite della stessa medesima libertà altrui, ovvero con l'unico limite del diritto.