20 November 2012

   [5] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  Quine
Allora, come ripetuto altre volte su questo blog, dopo Quine non abbiamo più un criterio di demarcazione semplice à la Popper: né experimentum crucis, né una metodologia universale. L'esempio paradigmatico della fisica quale hard science rappresenta solo il caso in cui le cose sono più facili.
L'astronomia e persino la cosmologia, pur senza esperimenti ripetibili e dunque senza una reale possibilità di falsificazione popperianamente intesa, non hanno alcun complesso di inferiorità rispetto alla fisica di laboratorio e godono invece spesso di un grado di affidabilità e scientificità molto maggiore di altri ambiti più fenomenologici della fisica, nonostante in questi ultimi sia possibile applicare metodologie sperimentali più squisitamente galileiane.
L'evoluzionismo darwiniano, nella sua accezione più ampia in contrapposizione a framework completamente diversi (uno per tutti, il disegno intelligente), gode di assoluta scientificità non certo per un singolo esperimento cruciale o per l'uso di una metodologia assimilabile, fosse anche in senso molto lato, a quella del fisico: i motivi per cui, indiscutibilmente, rappresenta un pilastro della nostra immagine scientifica del mondo vanno ricercati, contemporaneamente ed inestricabilmente, nella sua aderenza al dato empirico su un fronte vastissimo (fisico, chimico, biologico, ecologico, paleontologico, etc...) e nella sua potenza esplicativa, ovvero nella sua capacità di riunire in un unico schema concettuale quella immensamente variegata fenomenologia.
Queste solide ragioni — nessuna, da sola, cruciale, nessuna puramente empirica e nessuna puramente teorica — rappresentano quello che Quine chiama il tribunale dell'esperienza, a cui le nostre teorie si sottopongono non per singole affermazioni ma come un tutt'uno (olismo epistemologico). E la forza di quelle ragioni sta precisamente nel loro perfetto inserirsi nel quadro complessivo della nostra immagine del mondo; la loro forza risiede nel fatto che una loro revisione ci costringerebbe a modificare profondamente e/o ampiamente il resto della nostra immagine del mondo.
(continua...)

17 November 2012

   [4] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  Le critiche degli austriaci: da Hayek alla prasseologia di Mises
Prendiamo, ad esempio, le critiche di Hayek, probabilmente le meno radicali e più circoscritte, e per questo forse le più facilmente condivisibili, ma non per questo meno incisive.
Un bel compendio (con beneficio di inventario: in realtà ho letto poco Hayek) lo si può trovare nel suo discorso di accettazione del Nobel (The Pretense of Knowledge). Le sue critiche non cercano di alzarsi sui massimi sistemi, tentando di definire un criterio di demarcazione per una conoscenza scientifica e bocciando il positivismo economico sulla semplice base della violazione di tali criteri. No, lui accetta di buon grado la possibilità, in linea del tutto teorica, di elaborare modelli quantitativi di sistemi socio-economici da cui trarre significativi insegnamenti e concrete ricette per modificare o stabilizzare l'evoluzione di tali sistemi in direzioni desiderate. Solo che poi arriva a negare la bontà di praticamente tutti i modelli usualmente proposti, sulla base di considerazioni nel merito di tali modelli, senza ovviamente contestare la bontà dello svolgimento matematico della modellizzazione, ma negando i presupposti di validità delle assunzioni che dovrebbero giustificare tali modelli come adeguate rappresentazioni della realtà. Le sue non sono argomentazioni "esterne", ma parlano la stessa lingua del positivismo economico; e tuttavia sono di natura così generale da avere come risultato pratico un rifiuto virtualmente sistematico dell'applicazione di metodi quantitativi nel tentativo di capire e governare l'economia.
Per poter giudicare la bontà e la forza delle argomentazioni di Hayek, dunque, bisogna in qualche modo entrare nel merito dell'economia e dell'econometria, bisogna adottare, cioè, lo stesso approccio positivista che si ritroverà alla fine enormemente depauperato.
 
In alternativa è possibile arrivare alle medesime tesi per vie ortogonali, criticando il positivismo economico su basi puramente epistemologiche, fornendo la propria visione di "giusto sapere" in campo socio-economico, cercando di mostrare che il "solito" metodo scientifico può andar bene per la fisica ma non per l'economia, e dando persino un nome, la prasseologia, al corretto approccio, sedicente aprioristico-deduttivo, per lo studio di dinamiche sociali.
Ebbene, è evidente che un tale approccio risulta estremamente delicato: cosa mai potranno, questi austriaci, su un problema, quello della demarcazione, su cui scienziati e filosofi della scienza a legioni si sono accaniti da prima ancora di Galileo, e a tutti, nei casi migliori, è sempre mancato qualcosa?
 
Meno che a Quine, ovviamente.
 
Ecco, le vaste pretese di questo post di cui parlavo in apertura stanno tutte, precisamente, nella spiegazione delle vere ragioni della bontà dell'approccio austriaco, perché mi toccherà riassumere l'epistemologia quineiana.
(continua...)

16 November 2012

   [3] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  ...e al positivismo sociologico
Detto questo sul neopositivismo, veniamo finalmente al positivismo sociologico e alle critiche (austriache) ad esso.
Ebbene, le scienze sociali — senza nemmeno prendere in considerazione critiche del primo tipo, à la Hegel — comunque faticano, in generale, a sostenere anche il solo sguardo delle critiche à la Popper. Il loro appello al metodo scientifico e al confronto empirico, per giustificarsi e darsi un tono, sprizza ingenuità da tutti i pori: le usuali crtiche al positivismo fanno le pulci a concetti come experimentum crucis, ripetibilità dell'esperimento, verificabilità/falsificabilità, et cetera, mentre la sociologia pretende la sua aiuola privata nel giardino delle scienze per il mero fatto di usare un linguaggio che può ammantarsi di matematica solo per il riferimento a tecniche di inferenza statistica (spesso, poi, usate in modo troppo semplificato, quando non addirittura errato). Non è nemmeno il caso di addentrarsi in sofisticate argomentazioni epistemologiche per rendersi conto che i caratteri di solidità e rigore solitamente associati all'attributo scientifico non possono essere comprati con semplici correlazioni statistiche, soprattutto se queste sono estratte da una modellizzazione iper-semplificata di un fenomeno complesso in cui le variabili lasciate fuori dal modello hanno altrettanta se non più rilevanza per la fenomenologia reale di quelle incluse.
Orbene, gli austriaci condividono questa diffidenza verso i metodi e i risultati delle scienze sociali, e dell'economia in particolare, arrivando spesso a rifiutare del tutto, a priori, l'utilizzo di metodi quantitativi.
Ma il punto è: con quali argomentazioni?
Qui il panorama si complica, perché le critiche austriache alle analisi quantitative in economia si declinano in modi molto diversi, spesso nemmeno complementari ma apparentemente in reciproca contraddizione.
(continua...)

14 November 2012

   [2] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  Critiche al neopositivismo...
Ma cominciamo ad entrare nel merito della questione, perché è chiaro che nessuno, io per primo, sarebbe disposto a fare propria una prospettiva programmatica come quella positivista, nella sua beata ingenuità, neppure in campo strettamente epistemologico, in cui le ingenuità sono meno pacchiane.
Il punto cruciale, però, che andrà a distinguere posizioni potenzialmente distantissime, sono le ragioni in base alle quali si considera ingenuo l'approccio positivista.
Semplificando, e prendendo come riferimento il dibattito epistemologico, ci sono grossomodo tre diversi modi per farlo.
Il peggiore è quello a cui appiccicherò il nome di Hegel, sia maledetto per sempre: il rifiuto del positivismo per il suo rifiuto della metafisica, nel senso più abominevole del termine di fuffa senza senso.
Poi c'è l'approccio a cui appiccicherò il nome di Popper, che consiste nel fare le pulci a tesi specifiche del positivismo ("falsificazionismo, diamine, non verificazionismo!"), senza tuttavia proporre un reale cambio di prospettiva: quasi tutte le ingenuità del positivismo restano lì e i principali problemi aperti, uno per tutti quello della demarcazione, restano tali.
E infine c'è Quine: il positivismo è letteralmente raso al suolo, nelle tesi specifiche, ma sopravvive nello spirito che l'aveva animato: sopravvive, cioè, il primato della scienza, anche se, per caratterizzarla, non abbiamo più criteri di demarcazione semplici e cruciali, e dobbiamo invece ricorrere a valutazioni generali che, anche per casi specifici, coinvolgono potenzialmente tutta la nostra conoscenza, riferendosi contemporaneamente, e inestricabilmente, tanto al dato empirico quanto al linguaggio teorico, nel loro insieme.
(continua...)

12 November 2012

Le teorie di calibro di Weyl

Post per Delio, questo, chissà se mi legge ancora,
dopo tutta questa serie di post su Quine, prima, e sugli austriaci, poi,
che hanno fatto evaporare quasi completamente la fisica
da questo, un tempo rispettabile, bel blog di fisica (bontà sua…).
Questo recente post di Peppe Liberti su Focus.it, Il circolo di Weyl, mi ha ricordato la storia dell'origine del termine gauge usato oggi per indicare le teorie di campo con simmetria (interna e) locale. Non ricordo più dove la lessi, forse sul Gravitation di Wheeler. Non pare sia una cosa molto nota, fra i fisici, e tutto sommato giustamente, visto che si tratta di una curiosità storica. Ma era una storia che mi aveva colpito, per l'idea molto suggestiva di un'estensione della simmetria della relatività dalla sola rotazione della tetrade alla sua "scala", e così provo a riportarla qui per i miei strenui lettori. Non che sia chissà quale segreto, la pagina di wikipedia sulle teorie di gauge, sia in italiano che in inglese, riporta tutto e più di quel che ricordi io stesso.
 
Avevo già avuto modo di parlarne quasi cinque anni fa — vi ricordate, quando ancora esistevano i blog? — in calce a questo post di Lap(l)aciano, Simmetrie di gauge (II). Si disquisiva di quale fosse, storicamente, la prima teoria di guage in assoluto. La domanda non fa distinzione fra questioni semantiche e questioni nominali, e la risposta è costretta a dover distinguere.
Fra le teorie che oggi chiamiamo "di gauge", quella che fu formulata storicamente per prima fu la teoria di Maxwell per l'elettrodinamica classica, ma, quando fu formulata, il termine "simmetria di gauge" non esisteva ancora e la simmetria delle equazioni di Maxwell era espressa in termini di una funzione di trasformazione per i potenziali scalare e vettore che lasciavano inalterati i campi elettrici e magnetici (cfr. Gauge fixing).
La prima teoria formulata esplicitamente come teoria di campo con una simmetria "locale" è stata la relatività generale, ma anche in quel caso, nella formulazione originale di Einstein, la simmetria di gauge era in realtà espressa come principio di covarianza generale, ovvero come simmetria rispetto ad un'arbitraria trasformazione (differenziale) di coordinate. Fu appunto Weyl ad elaborare un formalismo alternativo ma equivalente, quello delle tetradi, in cui il principio di covarianza poteva essere interpretato come una simmetria rispetto ad un'arbitraria rotazione, locale, della base del fibrato tangente. Ma nemmeno in questa formulazione, ancora, si usa il termine gauge. Il termine gauge viene introdotto però in quello stesso momento, dallo stesso Weyl appunto, nel tentativo di estendere tale formalismo per spiegare anche l'elettromagnetismo di Maxwell in termini geometrici, come la relatività di Einstein spiegava la gravità. L'idea suggestiva di Weyl era quella di estendere la simmetria della teoria di campo non solo alla rotazione della tetrade ma anche alla sua "dimensione", alla lunghezza dei vettori della base. Ecco il motivo del termine gauge, calibro, a richiamare l'idea di una misura di lunghezza.
Purtroppo il tentativo, in questo preciso approccio, non funzionò. Ma l'idea fu feconda: l'elettromagnetismo poteva davvero essere interpretato come una teoria di campo con simmetria locale, solo che bisognava restare attaccati al concetto di simmetria per rotazioni, come quella delle tetradi, ed abbandonare invece il concetto che la simmetria dovesse riguardare lo spaziotempo o il suo fibrato "naturale". Il quadripotenziale di Maxwell andava infatti interpretato come il generatore di Lie di una simmetria rispetto alla rotazione della base di un ulteriore fibrato "astratto". A dispetto del cambio di contesto, il nome restò, e da allora per le teorie di campo si parla di simmetria di gauge tutte le volte che c'è invarianza rispetto ad una trasformazione locale di un generico gruppo, generalizzando il caso del gruppo delle rotazioni. Tutte le interazioni fondamentali, in particolare, sono interpretate come l'effetto di una simmetria di questo tipo rispetto a gruppi di simmetria associati alle cariche dell'interazione (elettrodebole e di colore).
 
Ma la morale di questa storia non è solo di carattere storico ed etimologico.
Nei corsi di teoria dei campi il concetto di simmetria di gauge viene presentato come "promozione" a simmetria locale di una simmetria globale. L'esempio classico è proprio quello della fase e della funzione d'onda a cui si assegna una dipendenza dalle coordinate spaziali: eiφ(x). La "potenza" di tale estensione è evidente, visto che è sufficiente questa sola richiesta di "località" della simmetria per dedurre, via accoppiamento minimale, le equazioni di Maxwell per l'interazione elettromagnetica. Ma la cosa sembra un po' piovere dal cielo: perché mai dovremmo inventarci questa dipendenza puntuale della simmetria? Oltretutto tale estensione viene interpretata come una richiesta "più forte" di simmetria, visto che la classe di trasformazioni rispetto alla quale la teoria deve restare invariata è più ampia. Ebbene, le motivazioni di Weyl che portarono alla formulazione delle teorie di "gauge" mettono in luce la vera natura della richiesta di "località" della simmetria, da ricondurre, in fondo, al principio di covarianza generale.
Quando Einstein richiede che le equazioni della fisica siano invarianti rispetto ad una qualsiasi trasformazione di coordinate, sta effettivamente richiedendo una simmetria più forte di quella che fossero invarianti solo per trasformazioni inerziali. Ma il senso di tale richiesta è l'esatto opposto di quello di imporre una condizione più stringente, ed è quello, appunto, di rilasciare un vincolo, arbitrario, per il quale una classe particolare di sistemi di riferimento avrebbero avuto un fiocco rosso. Allo stesso modo la richiesta che la teoria di gauge abbia una simmetria locale va interpretata come la rinuncia al vincolo per cui la base dell'algebra del gruppo sia orientata rigidamente dappertutto.
Così, come il campo gravitazionale è un effetto inerziale dovuto alla necessità di dover "connettere" (nel senso tecnico di geometria differenziale del termine) due punti distinti non necessariamente reciprocamente inerziali, allo stesso modo l'elettromagnetismo è un effetto che potremmo dire "U(1)-inerziale" dovuto alla necessità di dover "connettere" due punti distinti che non necessariamente hanno la base dell'algebra (la fase) "orientata" allo stesso modo.

10 November 2012

   [1] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  Positivismi
Uno dei motivi per fare il salto da un positivismo all'altro, in realtà, è piuttosto personale e deriva dal fatto che per me, prima d'ora (quando d'economia non capivo nulla e, essenzialmente a causa di ciò, nemmeno mi piaceva, lei e le scienze sociali sue cugine), il termine positivismo costituiva un automatic redirect al termine neopositivismo.
La pagina di disambiguazione di wikipedia per il termine positivismo, invece:
  • riporta l'ambito delle scienze sociali come il principale riferimento del termine;
  • considera il neopositivismo come "positivismo in filosofia";
  • annovera il positivismo giuridico (in contrapposizione al giusnaturalismo);
  • cita il positivismo come corrente letteraria;
  • *non* disambìgua alcuna caratterizzazione del termine in ambito specificatamente economico, da far rientrare dunque nell'ambito delle scienze sociali.
Ho fatto riferimento ad it.wikipedia perché la versione inglese ha l'aria molto meno affidabile, visto che mette la conoscenza scientifica in contrapposizione(?) all'empirismo puro(?!?) e cita un certo positivismo politico che sembra banale pubblicità a questo tal Ljubiša Bojić...
Il miglior punto di partenza potrebbe essere invece en.wiktionary, che prova a delineare il denominatore comune all'applicazione dello stesso termine in ambiti diversi: il rigetto per la metafisica e l'appello (eventualmente velleitario) al metodo scientifico come strumento principe di conoscenza. Ed è proprio descrivendo il positivismo in questi termini che si possono intravedere, pur nella loro ingenuità, i tratti che suscitano la mia simpatia.
Tuttavia la diversità degli ambiti di applicazione del termine e le contingenze storiche fanno sì che lo stesso termine venga usato, nei diversi ambiti, per caratterizzare punti di vista spesso difficilmente conciliabili fra di loro. A cominciare dal positivismo giuridico, che prende in prestito il termine solo per questioni etimologiche, ad indicare che la legge sarebbe posta dal legislatore, e non trovata in natura, com'è invece la tesi del punto di vista opposto, il giusnaturalismo, il quale potrebbe invece esso stesso pretendere a buon diritto di collocarsi più vicino allo spirito naturalista, appunto, del positivismo in ambito epistemologico.
(continua...)

08 November 2012

   [0] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  Dichiarazione del tema
Post di vaste pretese, questo.
Tutto nascerebbe da una questione apparentemente marginale, ovvero il rapporto degli austriaci col positivismo. I primi da intendersi, ovviamente, non come popolazione di lingua tedesca localizzata in Austria, ma come metonimia per una tradizione di pensiero in campo economico; il secondo da intendersi, inizialmente, come approccio metodologico ai temi economici. Ho detto "inizialmente" perché il passo dal positivismo economico al positivismo scientifico è breve, soprattutto per chi come me ha un tenero rapporto d'affetto con quest'ultimo.
Il fatto è che questi economisti di scuola austriaca hanno invece un pessimo rapporto col positivismo, e per me le critiche al positivismo rappresentano, in genere, il primo campanello di allarme per sospetto idealismo tedesco (latente). E poiché la gente pensa già che col libertarismo io abbia abbracciato una sorta di setta satanica à la Scientology, se si fanno anche l'idea che abbia sdoganato pure i continentali, penseranno le peggiori cose di me — il libertarismo ti rivolta come un calzino... ma Hegel resta Hegel!
E' urgente più che mai, dunque, fare chiarezza sulla questione.
 
Siccome però questo post cominciava a diventare più lungo del solito (il che è tutto dire), e poiché pare che sul web pubblicare cose lunghe non sia cortesia verso il lettore, ho pensato di spezzarlo in più parti.
E così per ora mi fermo qui, lasciandovi a crogiolare nell'attesa della prossima puntata.

04 November 2012

Android App of the Day: Palmary Weather

Rieccoci ad una nuova puntata della nostra richiestissima rubrica AAoD, capace di scuotere le nostre anime dalle fondamenta! (cit.)
Questa volta, per alleggerire i soliti temi seriosi e filosofici di questa rubrica, e di questo blog in generale, parleremo di un tema frivolo, il tempo, proponendovi un'app apparentemente comune e banale come un'app meteo: Palmary Weather, su previsioni Foreca.
Le caratteristiche di quest'app che l'hanno promossa ad AAoD, però, non sono così comuni e banali, visto che, fra tutte quelle che ho provato sul mio cellulare, è l'unica meteo-app ad averle. Sto pensando innanzitutto alla possibilità di visualizzare dei grafici temporali dei principali parametri meteorologici (temperatura, pressione, vento, umidità e precipitazioni), come potete vedere nello screenshot qui a sinistra. Personalmente mal sopporto le previsioni presentate "a simbolini" per la loro grossolanità (nel senso che non distinguono che tra sole, pioggia e neve) ed anche quando sono accompagnate da descrizioni più precise, l'uso delle parole non le rende di impatto immediato.
Un grafico invece ti da a colpo d'occhio, al di là dei numeri, l'idea della situazione meteorologica e della sua evoluzione. Inoltre, per quanto riguarda la pioggia, a differenza di altre applicazioni meteo, non si limita ad indicare una inutile probabilità di pioggia, ma fornisce un'indicazione dei millimetri di pioggia previsti: ché puoi anche avere il 100% di probabilità di pioggia, ma se al 100% pioveranno 0.1 millimetri, puoi tranquillamente uscire di casa senza ombrello.
Il meglio, da questo punto di vista, sarebbero le mappe di previsione delle precipitazioni che offre il sito ilMeteo.it (vedi screenshot a destra), che forniscono un colpo d'occhio, oltre che sull'intensità delle precipitazioni, anche sull'estensione geografica della perturbazione. Però, da questo punto di vista, la loro app mobile per Android, in netto contrasto con quanto offerto sul sito, è estremamente povera.

10 October 2012

Troll

Devo ripromettermi di cambiare completamente i toni dei commenti, altrimenti farò sempre la fine del troll, come in calce a questo post, "Why, Ahimè, the Usual Economics Cannot Explain the Industrial Revolution".
 
La situazione sembrava favorevole, il post simpatizzava con la McCloskey, che non solo si colloca fuori dal mainstream, ma, in un certo senso, potrebbe condividere con la scuola austriaca tutta una classe di critiche all'economia "ufficiale", quelle, almeno, che riguardano l'uso disinvolto dei modelli matematici. Ma, evidentemente, le cose si rompono proprio quando scoprono che sei un simpatizzante della scuola austriaca: come parlare di disegno intelligente in casa di un paleontologo.
 
Un paragone appropriato, secondo me, me lo ripropongo spesso: come faccio ad essere così sicuro che in questo caso, quello economico, sia proprio l'eresia ad essere nel giusto, e non il mainstream, come nel caso delle scienze?
Le ragioni, ovviamente, ci sono, e risiedono proprio nell'approfondimento delle tematiche economiche, che è sempre rimasto, l'approfondimento, in moto browniano, finché non è sbucata la scuola austriaca, che ha messo improvvisamente ogni cosa al suo posto. Questa cosa del moto browniano, però, non è solo mia: l'economia stessa, che progressi ha fatto, in tutti questi decenni? E' facile dire mainstream, ma qual è il core di conoscenze comune a tutti i dipartimenti di economia? Nonostante l'ostentata matematica, si ha molto la sensazione di essere come in filosofia: c'è tanta gente, ci sono tante cose interessanti (assieme ad una maggior pletora di fumo), ma non c'è un "modello standard". Anzi, la scuola austriaca è l'unica, che io sappia, ad avere un impianto teorico coerente, capace di fungere proprio da nucleo di aggregazione a mo' di "modello standard" di teoria economica.
Il paleontologo di fronte al disegno intelligente ha nientepopodimenoché Darwin, da mostrare. Contro gli austriaci, cosa c'è?
Ma il punto è: perché il mainstream non si accorge della scuola austriaca come di Darwin e di Einstein?
 
Oh, si prova a discuterne, eh? Ma giudicate anche voi e ditemi dove sbaglio.
 
Allora, il tema è questa teoria austriaca del ciclo economico, che è una sorta di applicazione pratica particolare, rispetto all'impianto del tutto generale della sua visione dell'economia (che forse non è un buon punto di partenza per un confronto proprio perché, invece di partire dalle fondamenta, si rivolge a situazioni concrete e reali; che però, ancora proprio per questo, diventa un frequente oggetto di confronto fra la scuola austriaca e il resto del mondo).
Gli argomenti che giustificano la teoria austriaca dei cicli economici risiedono, si diceva, nell'impianto teorico che ne sta alla base: il ruolo dei prezzi dei beni nel coordinamento per l'allocazione delle risorse, il tasso di interesse come "prezzo" di quel particolare bene che è la moneta, misura, il tasso di interesse, della propensione al risparmio e della preferenza temporale rispetto ai beni di consumo finali (ovvero della quantità di guadagno sottratta al consumo immediato e accantonata per consumi differiti nel tempo); su queste basi, la manipolazione arbitraria dei tassi di interesse e della massa monetaria da parte delle banche centrali costituisce una distorsione dei segnali dei prezzi, capace in particolare di frodare il naturale bilanciamento fra risparmio e consumo, e quindi di falsare le esigenze del mercato verso una maggiore o minore profittabilità di investimenti in progetti a lungo termine o meno.
Non c'è un meccanismo di causa-effetto quantitativamente semplice e diretto, ma una sintesi piuttosto comune della teoria austriaca del ciclo economico suona più o meno così: la tendenza a ridurre artificialmente il costo del denaro genera un eccesso di investimenti (fase di boom) su progetti che si riveleranno poi non sostenibili (bust).
E' una semplificazione e va presa per quello che è: se hai delle critiche, vanno dirette alla teoria austriaca, non alla sua semplificazione. Dire che la teoria non è convincente perché sì, ci sono stati gli interessi bassi che avrebbero causato il boom, ma poi quei tassi non si sono rialzati per generare la crisi che invece c'è stata, significa aver introiettato una propria idea della teoria austriaca, verosimilmente basata sulla diffusa semplificazione.
Ma, oh, può succedere: non siamo obbligati tutti ad essere esperti mondiali di scuola austriaca! Però se a questa critica si risponde uscendo (e sottolineando il fraintendimento generato) dalla semplificazione della sintesi, e si entra nei dettagli, poi a questa risposta bisogna controbattere su quei dettagli, non chiudersi a riccio.
 
E badate che non è questione di pochi casi isolati, di un blogger "sfigato" (che non è certamente il caso de La teiera, ché nientemeno che di un ricercatore e docente universitario di economia alla Bocconi si tratta), perché questa dinamica dialettica si trova pressoché ovunque si parli, in ambiti più o meno istituzionali, di scuola austriaca.
Prendete questa serie di video di Tyler Cowen, Business Cycles Explained, peraltro abbastanza carini (ma non sono ancora riuscito a vedere tutte le puntate) sui differenti approcci al problema dei cicli economici. La scuola austriaca, più o meno comprensibilmente, considerando anche le ragioni di sintesi, viene presentata attraverso l'usuale semplificazione appena descritta. Qui (siamo nel quarto video), quando si arriva a descrivere le (presunte) debolezze della teoria austriaca, si gioca la carta dell'altra obiezione citata da La teiera: l'intelligenza degli imprenditori che, diamine, non sono degli ingenui, e se intuiscono che i tassi sono artificialmente bassi, non si lasceranno ingannare e dirigeranno bene i loro investimenti in maniera da compensare i falsi segnali inviati dalla FED (c'è questa buffa scenetta in cui si ride pensando ad imprenditori che, ah ah ah, non leggono il FT o il WSJ o addirittura Fox News per controllare le previsioni del tem… ehm, dell'inflazione). Anche qui, la teoria austriaca risponde uscendo dalla semplificazione e spiegando come sia l'obiezione ad essere ingenua: se, a differenza della teiera, non vi lasciate spaventare dalla lunghezza — che nondimeno è realmente eccessiva, al mises sono sempre verbosissimi (senti chi parla, ndl) — potete trovare una versione più o meno approfondita della risposta su questo vecchio Mises Daily di Brian J. Stanley: Why Don't Entrepreneurs Outsmart the Business Cycle?
Badate che la risposta di Stanley non esaurisce le ragioni della teoria austriaca contro le manipolazioni centrali della massa monetaria e le ragioni profonde dei cicli economici, essa si limita a rispondere alla critica sull'ingannabilità o meno degli imprenditori: in breve, per citare due punti soltanto fra molti, è ingenuo pensare che l'imprenditore sappia discernere la componente artificiale da quella naturale dei tassi, ed è ingenuo ignorare che i tassi artificialmente bassi rappresentano comunque un'opportunità economica che sarebbe stupido per l'imprenditore non sfruttare.
 
L'obiezione, nella sua ingenuità, è facilmente smontata. Forse che, così come viene formulata, così come viene intesa dagli austriaci che la contestano nel merito, l'obiezione ha una sostanza meno ingenua dietro quella che sarebbe dunque, analogamente, una semplificazione?
E quale sarebbe, di grazia, questa sostanza?

08 October 2012

28 September 2012

Android App of the Day: Battery Fuel Gauge Bar Status

Rieccoci, dopo una lunga pausa, ad una nuova puntata della nostra fantastica rubrica AAoD capace di scuotere le nostre anime dalle fondamenta!
Anche in questa puntata, per la terza volta di fila, presenteremo un'app stupidissima eppur intelligentissima: Battery Fuel Gauge Bar Status.
Non lasciatevi ingannare dall'orribile icona (a sinistra) e gli screenshot orrendi (a destra), né dall'esiguo numero di download: quest'app fa magnificamente il poco che pretende di fare e, nonostante le apparenze, lo fa in maniera molto elegante (a patto che scegliate voi una size e dei colori eleganti). Cosa fa? E' presto detto: mostra in sovraimpressione (in qualsiasi vista, in qualsiasi applicazione, proprio come Display brightness) un indicatore lineare dello stato di caricamento della batteria del cellulare. Io ho messo l'indicatore in alto (a sinistra ho già Display brightness), ho impostato uno spessore minimo di un solo pixel e ho disabilitato sia l'icona nella barra di notifiche che l'indicatore numerico della percentuale di carica della batteria: in questo modo l'app fa il suo lavoro, mostrare a colpo d'occhio in qualsiasi momento lo stato di caricamento della batteria, nella maniera più discreta possibile. Potete anche impostare una serie di colori diversi per diversi livelli di carica, cosa volete di più?
Sì, certo, basterebbe poco per un'icona appena appena decente...

05 September 2012

Earth overshoot day

Provo a riprendere con un post dall'ultimo commento del Mau (che avrà di meglio a cui pensare in questi giorni, ma tanto i tempi di questo blog sono sempre stati molto pazienti), col pretesto dell'Earth overshoot day, lo scorso 22 agosto, nella speranza che qualcuno degli ormai rari lettori che ancora passano per questo blog possano aiutarmi a capire qualcosa.
 
Ne avevo letto prima su Linkiesta, Dal 22 agosto esaurite le risorse naturali 2012. Inizia la decrescita infelice?, ma poi ne ha parlato anche OggiScienza, In debito con la Terra, e sono anche andato a spulciarmi il sito ufficiale, Global Footprint Network, ma non riesco proprio a venirne a capo. 
L'idea, sembrerebbe di capire, è che l'uomo consuma più risorse di quante la Terra gliene possa mettere a disposizione, ma tale concetto, prima ancora di qualsiasi conto, mi sfugge completamente. 
Non abbiamo altre "Terre" cui attingere, come riusciremmo a soddisfarli, dunque, quei consumi "extra"? Il conto verrebbe fatto anno per anno, ed è già da un po' di anni che "sforiamo". Il Montesi de Linkiesta sembra concepire una simile domanda, a cui prova a fornire (io credo con una propria certa autonomia d'interpretazione) la risposta più plausibile in questo contesto: le uniche risorse rimaste sono le nostre riserve: riserve alimentari ed energetiche. Ma una tale prospettiva rende l'idea ancora più incomprensibile. 
Davvero, aiutatemi a capire: di quali risorse stiamo parlando? 
Risorse alimentari? Davvero ci sono da qualche parte dei grandi magazzini di, chessò, riso, patate, o altro cibo (evidentemente non deperibile, o liofilizzato...), messo da parte fino agli anni '70 e da cui ormai da un po' di anni abbiamo cominciato ad attingere per tirare a fine anno? La gente muore di fame, in Africa e non solo, certo, ma questo significa che non ce ne sono abbastanza, di risorse alimentari, non significa che ne stiamo consumando più di quante ne produciamo. Si vuol forse dire che il regime di alimentazione di una parte del mondo (quello occidentale) non potrebbe essere offerto parimenti a tutto il mondo? Ma allora si tratterebbe di un problema di distribuzione, di quelle risorse, non di sovracconsumo. 
O stiamo forse parlando di risorse energetiche? Ma a parte quelle rinnovabili (solare, eolico, marino, etc...), tutte le altre fonti energetiche sono per definizione sovracconsumate: la Terra non ha alcuna quota di "produzione" annua di petrolio, carbone, etc: la totalità, il 100% del loro consumo è "sovracconsumato" e non verrà mai più rigenerato dalla Terra il prossimo anno. Al massimo, se volessimo parlare di quota annuale, questa riguarderebbe la loro estrazione, peraltro estremamente variabile, ma anche in quel caso è inverosimile che si sia "stipato" carbone e petrolio estratto fino agli anni settanta e poi cominciato a svuotare le riserve. Forse si vuol considerare un qualche forma di "capacità di smaltimento" dei prodotti di scarto dello sfruttamento di quelle risorse: ma allora stiamo parlando di inquinamento, o di effetto serra (riassorbimento di CO2), concetti molto lontani da quelli di "produzione di una risorsa" e di "suo consumo". 
 
E non pensate che il punto sia il mio fare le pulci ad un articolo di un quotidiano generalista e non scientifico come Linkiesta: anche OggiScienza si limita a rigirare le parole sulla metafora del budget annuale esauritosi già a due terzi dell'anno, e possiamo quasi capirla, in fondo, perché persino sul sito ufficiale del Footprint ci sono pagine e pagine di parole vuote: la sezione Footprint Science si limita a girare in tondo: dicono solo che calcolano l'ecological resource use and resource capacity of nations over time, che pubblicano dati da un po' di anni, suddivisi per oltre 230 nazioni, usando più di 6000 punti dati (?!?) per ogni nazione, esprimendo tutti i valori in ettaro equivalente, etc, etc... Va forse un po' meglio nella sezione Footprint basics in cui si spiega che l'Ecological Footprint misurerebbe di quanta superficie, di terra e di acqua, l'umanità ha bisogno per produrre le risorse che consuma, lo spazio necessario per gli edifici e le strade, e l'ecosistema necessario per assorbire i rifiuti prodotti, come la CO2 (lo spazio per edifici e strade? sì, sì, dice proprio the space for accommodating its buildings and roads!): qui si capisce che effettivamente vorrebbero tener conto dell'effetto serra, ma quali sarebbero le risorse che terra e acqua produrrebbero e che staremmo consumando ad un ritmo maggiore di quello di produzione? Le FAQ e il glossario non migliorano la situazione, rifilandoci per l'ennesima volta sempre le stesse vuote e circolari parole, per cui la biocapacity sarebbe la capacità di produrre useful biologica materials e di assorbire waste materials generated by humans, dove per “Useful biological materials” si intendono quelli richiesti dall'economia (?!?), e le terre e le acque biologically productive sono quelle che supportano una significativa attività di fotosintesi e di accumulo di biomassa usata poi dall’uomo (biomassa alimentare? voglio vedere questi container degli anni '60! Biomassa da combustione? di nuovo, come facciamo a consumarne più di quanta ne produciamo?). 
 
Insomma, se queste sono le argomentazioni sulla decrescita, qualcuno mi aiuti a capire. 
Dal canto mio vi suggerisco, in alternativa, questo video: Are We Running Out of Resources? 
 

17 July 2012

La comodissima verità sui prestiti

Ci sono verità scomode e verità comode. [...] Le verità comode [...] sono quelle che un po’ tutti già sanno, ma siccome sono comode la gente pensa che ci sia sotto una fregatura (“troppo comodo!”), così si comporta come se non fossero vere e alla fine, dopo qualche secolo, se le dimentica. [...] Poi c’è una terza categoria di verità: le verità comodissime. Vere e proprie pantofole per le orecchie.
Smeriglia, Tre verità comodissime
Un'altra di queste verità comodissime è la questione di come funzionano i debiti: ho qualche bisogno (o progetto) per cui mi servirebbero soldi subito e mi impegno, pian piano, a ripagare il prestito con gli interessi pattuiti (o scommetto che il progetto avrà successo e mi permetterà di ripagare debito ed interessi).
Sembra semplice, non pare ci sia bisogno di un corso di economia per capire la faccenda.
Almeno finché non si parla, appunto, di economia.
Prendete questo post, Positive feedback, di Giuseppe Lipari, persona intelligente ancorché non esperto di economia.
Nel descrivere la situazione stazionaria del "sistema dinamico" bilancio statale, scrive placidamente che fra le entrate di uno Stato, oltre alle tasse, possiamo annoverare anche la vendita di titoli, come se si trattasse di vendita di un patrimonio e non della contrazione di un debito. Scacciamennule è intelligente, si diceva, è non dimentica quindi di riportare, fra le uscite, anche la restituzione del debito, oltre alle spese correnti e al pagamento degli interessi. Ma si tratta di un errore (s'era detto che non è un esperto di economia), perché nessun economista vero si sognerebbe mai di pensare alla restituzione del debito: ad ogni scadenza di un blocco di titoli, lo Stato scende sui mercati obbligazionari per acquistarne altrettanti e più. Le due equazioni che scrive peccano del suo background scientifico, perché un vero economista semplificherebbe il debito da entrambi i lati dell'equazione entrate = uscite e scriverebbe:
 
uscite = spesa + interessi sul debito
 
entrate = tasse + ricavato vendita di ulteriori titoli (ulteriori rispetto al rinnovo automatico dei titoli in scadenza)
 
da cui si vede che il debito è semplicemente sparito (sì, compare come dipendenza degli interessi nelle uscite, ma si tratta di un tecnicismo matematico).
Fuor d'ironia, ammettiamo pure, per amor di discussione, che si sia di scuola keynesiana: ma non si deve forse prevedere un certo debito (per il fantomatico stimolo all'economia) solo per un limitato periodo di tempo, giusto appunto per superare una crisi e poter poi, col boom, ripagare quel debito contratto?
Quale logica perversa si cela dietro l'assunzione che uno Stato possa contrarre debito perenne... ma cosa dico: contrarre debito in maniera perennemente crescente?
Attenzione: la risposta non deve contenere la parola "inflazione".