08 November 2012

   [0] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  Dichiarazione del tema
Post di vaste pretese, questo.
Tutto nascerebbe da una questione apparentemente marginale, ovvero il rapporto degli austriaci col positivismo. I primi da intendersi, ovviamente, non come popolazione di lingua tedesca localizzata in Austria, ma come metonimia per una tradizione di pensiero in campo economico; il secondo da intendersi, inizialmente, come approccio metodologico ai temi economici. Ho detto "inizialmente" perché il passo dal positivismo economico al positivismo scientifico è breve, soprattutto per chi come me ha un tenero rapporto d'affetto con quest'ultimo.
Il fatto è che questi economisti di scuola austriaca hanno invece un pessimo rapporto col positivismo, e per me le critiche al positivismo rappresentano, in genere, il primo campanello di allarme per sospetto idealismo tedesco (latente). E poiché la gente pensa già che col libertarismo io abbia abbracciato una sorta di setta satanica à la Scientology, se si fanno anche l'idea che abbia sdoganato pure i continentali, penseranno le peggiori cose di me — il libertarismo ti rivolta come un calzino... ma Hegel resta Hegel!
E' urgente più che mai, dunque, fare chiarezza sulla questione.
 
Siccome però questo post cominciava a diventare più lungo del solito (il che è tutto dire), e poiché pare che sul web pubblicare cose lunghe non sia cortesia verso il lettore, ho pensato di spezzarlo in più parti.
E così per ora mi fermo qui, lasciandovi a crogiolare nell'attesa della prossima puntata.

04 November 2012

Android App of the Day: Palmary Weather

Rieccoci ad una nuova puntata della nostra richiestissima rubrica AAoD, capace di scuotere le nostre anime dalle fondamenta! (cit.)
Questa volta, per alleggerire i soliti temi seriosi e filosofici di questa rubrica, e di questo blog in generale, parleremo di un tema frivolo, il tempo, proponendovi un'app apparentemente comune e banale come un'app meteo: Palmary Weather, su previsioni Foreca.
Le caratteristiche di quest'app che l'hanno promossa ad AAoD, però, non sono così comuni e banali, visto che, fra tutte quelle che ho provato sul mio cellulare, è l'unica meteo-app ad averle. Sto pensando innanzitutto alla possibilità di visualizzare dei grafici temporali dei principali parametri meteorologici (temperatura, pressione, vento, umidità e precipitazioni), come potete vedere nello screenshot qui a sinistra. Personalmente mal sopporto le previsioni presentate "a simbolini" per la loro grossolanità (nel senso che non distinguono che tra sole, pioggia e neve) ed anche quando sono accompagnate da descrizioni più precise, l'uso delle parole non le rende di impatto immediato.
Un grafico invece ti da a colpo d'occhio, al di là dei numeri, l'idea della situazione meteorologica e della sua evoluzione. Inoltre, per quanto riguarda la pioggia, a differenza di altre applicazioni meteo, non si limita ad indicare una inutile probabilità di pioggia, ma fornisce un'indicazione dei millimetri di pioggia previsti: ché puoi anche avere il 100% di probabilità di pioggia, ma se al 100% pioveranno 0.1 millimetri, puoi tranquillamente uscire di casa senza ombrello.
Il meglio, da questo punto di vista, sarebbero le mappe di previsione delle precipitazioni che offre il sito ilMeteo.it (vedi screenshot a destra), che forniscono un colpo d'occhio, oltre che sull'intensità delle precipitazioni, anche sull'estensione geografica della perturbazione. Però, da questo punto di vista, la loro app mobile per Android, in netto contrasto con quanto offerto sul sito, è estremamente povera.

10 October 2012

Troll

Devo ripromettermi di cambiare completamente i toni dei commenti, altrimenti farò sempre la fine del troll, come in calce a questo post, "Why, Ahimè, the Usual Economics Cannot Explain the Industrial Revolution".
 
La situazione sembrava favorevole, il post simpatizzava con la McCloskey, che non solo si colloca fuori dal mainstream, ma, in un certo senso, potrebbe condividere con la scuola austriaca tutta una classe di critiche all'economia "ufficiale", quelle, almeno, che riguardano l'uso disinvolto dei modelli matematici. Ma, evidentemente, le cose si rompono proprio quando scoprono che sei un simpatizzante della scuola austriaca: come parlare di disegno intelligente in casa di un paleontologo.
 
Un paragone appropriato, secondo me, me lo ripropongo spesso: come faccio ad essere così sicuro che in questo caso, quello economico, sia proprio l'eresia ad essere nel giusto, e non il mainstream, come nel caso delle scienze?
Le ragioni, ovviamente, ci sono, e risiedono proprio nell'approfondimento delle tematiche economiche, che è sempre rimasto, l'approfondimento, in moto browniano, finché non è sbucata la scuola austriaca, che ha messo improvvisamente ogni cosa al suo posto. Questa cosa del moto browniano, però, non è solo mia: l'economia stessa, che progressi ha fatto, in tutti questi decenni? E' facile dire mainstream, ma qual è il core di conoscenze comune a tutti i dipartimenti di economia? Nonostante l'ostentata matematica, si ha molto la sensazione di essere come in filosofia: c'è tanta gente, ci sono tante cose interessanti (assieme ad una maggior pletora di fumo), ma non c'è un "modello standard". Anzi, la scuola austriaca è l'unica, che io sappia, ad avere un impianto teorico coerente, capace di fungere proprio da nucleo di aggregazione a mo' di "modello standard" di teoria economica.
Il paleontologo di fronte al disegno intelligente ha nientepopodimenoché Darwin, da mostrare. Contro gli austriaci, cosa c'è?
Ma il punto è: perché il mainstream non si accorge della scuola austriaca come di Darwin e di Einstein?
 
Oh, si prova a discuterne, eh? Ma giudicate anche voi e ditemi dove sbaglio.
 
Allora, il tema è questa teoria austriaca del ciclo economico, che è una sorta di applicazione pratica particolare, rispetto all'impianto del tutto generale della sua visione dell'economia (che forse non è un buon punto di partenza per un confronto proprio perché, invece di partire dalle fondamenta, si rivolge a situazioni concrete e reali; che però, ancora proprio per questo, diventa un frequente oggetto di confronto fra la scuola austriaca e il resto del mondo).
Gli argomenti che giustificano la teoria austriaca dei cicli economici risiedono, si diceva, nell'impianto teorico che ne sta alla base: il ruolo dei prezzi dei beni nel coordinamento per l'allocazione delle risorse, il tasso di interesse come "prezzo" di quel particolare bene che è la moneta, misura, il tasso di interesse, della propensione al risparmio e della preferenza temporale rispetto ai beni di consumo finali (ovvero della quantità di guadagno sottratta al consumo immediato e accantonata per consumi differiti nel tempo); su queste basi, la manipolazione arbitraria dei tassi di interesse e della massa monetaria da parte delle banche centrali costituisce una distorsione dei segnali dei prezzi, capace in particolare di frodare il naturale bilanciamento fra risparmio e consumo, e quindi di falsare le esigenze del mercato verso una maggiore o minore profittabilità di investimenti in progetti a lungo termine o meno.
Non c'è un meccanismo di causa-effetto quantitativamente semplice e diretto, ma una sintesi piuttosto comune della teoria austriaca del ciclo economico suona più o meno così: la tendenza a ridurre artificialmente il costo del denaro genera un eccesso di investimenti (fase di boom) su progetti che si riveleranno poi non sostenibili (bust).
E' una semplificazione e va presa per quello che è: se hai delle critiche, vanno dirette alla teoria austriaca, non alla sua semplificazione. Dire che la teoria non è convincente perché sì, ci sono stati gli interessi bassi che avrebbero causato il boom, ma poi quei tassi non si sono rialzati per generare la crisi che invece c'è stata, significa aver introiettato una propria idea della teoria austriaca, verosimilmente basata sulla diffusa semplificazione.
Ma, oh, può succedere: non siamo obbligati tutti ad essere esperti mondiali di scuola austriaca! Però se a questa critica si risponde uscendo (e sottolineando il fraintendimento generato) dalla semplificazione della sintesi, e si entra nei dettagli, poi a questa risposta bisogna controbattere su quei dettagli, non chiudersi a riccio.
 
E badate che non è questione di pochi casi isolati, di un blogger "sfigato" (che non è certamente il caso de La teiera, ché nientemeno che di un ricercatore e docente universitario di economia alla Bocconi si tratta), perché questa dinamica dialettica si trova pressoché ovunque si parli, in ambiti più o meno istituzionali, di scuola austriaca.
Prendete questa serie di video di Tyler Cowen, Business Cycles Explained, peraltro abbastanza carini (ma non sono ancora riuscito a vedere tutte le puntate) sui differenti approcci al problema dei cicli economici. La scuola austriaca, più o meno comprensibilmente, considerando anche le ragioni di sintesi, viene presentata attraverso l'usuale semplificazione appena descritta. Qui (siamo nel quarto video), quando si arriva a descrivere le (presunte) debolezze della teoria austriaca, si gioca la carta dell'altra obiezione citata da La teiera: l'intelligenza degli imprenditori che, diamine, non sono degli ingenui, e se intuiscono che i tassi sono artificialmente bassi, non si lasceranno ingannare e dirigeranno bene i loro investimenti in maniera da compensare i falsi segnali inviati dalla FED (c'è questa buffa scenetta in cui si ride pensando ad imprenditori che, ah ah ah, non leggono il FT o il WSJ o addirittura Fox News per controllare le previsioni del tem… ehm, dell'inflazione). Anche qui, la teoria austriaca risponde uscendo dalla semplificazione e spiegando come sia l'obiezione ad essere ingenua: se, a differenza della teiera, non vi lasciate spaventare dalla lunghezza — che nondimeno è realmente eccessiva, al mises sono sempre verbosissimi (senti chi parla, ndl) — potete trovare una versione più o meno approfondita della risposta su questo vecchio Mises Daily di Brian J. Stanley: Why Don't Entrepreneurs Outsmart the Business Cycle?
Badate che la risposta di Stanley non esaurisce le ragioni della teoria austriaca contro le manipolazioni centrali della massa monetaria e le ragioni profonde dei cicli economici, essa si limita a rispondere alla critica sull'ingannabilità o meno degli imprenditori: in breve, per citare due punti soltanto fra molti, è ingenuo pensare che l'imprenditore sappia discernere la componente artificiale da quella naturale dei tassi, ed è ingenuo ignorare che i tassi artificialmente bassi rappresentano comunque un'opportunità economica che sarebbe stupido per l'imprenditore non sfruttare.
 
L'obiezione, nella sua ingenuità, è facilmente smontata. Forse che, così come viene formulata, così come viene intesa dagli austriaci che la contestano nel merito, l'obiezione ha una sostanza meno ingenua dietro quella che sarebbe dunque, analogamente, una semplificazione?
E quale sarebbe, di grazia, questa sostanza?

08 October 2012

28 September 2012

Android App of the Day: Battery Fuel Gauge Bar Status

Rieccoci, dopo una lunga pausa, ad una nuova puntata della nostra fantastica rubrica AAoD capace di scuotere le nostre anime dalle fondamenta!
Anche in questa puntata, per la terza volta di fila, presenteremo un'app stupidissima eppur intelligentissima: Battery Fuel Gauge Bar Status.
Non lasciatevi ingannare dall'orribile icona (a sinistra) e gli screenshot orrendi (a destra), né dall'esiguo numero di download: quest'app fa magnificamente il poco che pretende di fare e, nonostante le apparenze, lo fa in maniera molto elegante (a patto che scegliate voi una size e dei colori eleganti). Cosa fa? E' presto detto: mostra in sovraimpressione (in qualsiasi vista, in qualsiasi applicazione, proprio come Display brightness) un indicatore lineare dello stato di caricamento della batteria del cellulare. Io ho messo l'indicatore in alto (a sinistra ho già Display brightness), ho impostato uno spessore minimo di un solo pixel e ho disabilitato sia l'icona nella barra di notifiche che l'indicatore numerico della percentuale di carica della batteria: in questo modo l'app fa il suo lavoro, mostrare a colpo d'occhio in qualsiasi momento lo stato di caricamento della batteria, nella maniera più discreta possibile. Potete anche impostare una serie di colori diversi per diversi livelli di carica, cosa volete di più?
Sì, certo, basterebbe poco per un'icona appena appena decente...

05 September 2012

Earth overshoot day

Provo a riprendere con un post dall'ultimo commento del Mau (che avrà di meglio a cui pensare in questi giorni, ma tanto i tempi di questo blog sono sempre stati molto pazienti), col pretesto dell'Earth overshoot day, lo scorso 22 agosto, nella speranza che qualcuno degli ormai rari lettori che ancora passano per questo blog possano aiutarmi a capire qualcosa.
 
Ne avevo letto prima su Linkiesta, Dal 22 agosto esaurite le risorse naturali 2012. Inizia la decrescita infelice?, ma poi ne ha parlato anche OggiScienza, In debito con la Terra, e sono anche andato a spulciarmi il sito ufficiale, Global Footprint Network, ma non riesco proprio a venirne a capo. 
L'idea, sembrerebbe di capire, è che l'uomo consuma più risorse di quante la Terra gliene possa mettere a disposizione, ma tale concetto, prima ancora di qualsiasi conto, mi sfugge completamente. 
Non abbiamo altre "Terre" cui attingere, come riusciremmo a soddisfarli, dunque, quei consumi "extra"? Il conto verrebbe fatto anno per anno, ed è già da un po' di anni che "sforiamo". Il Montesi de Linkiesta sembra concepire una simile domanda, a cui prova a fornire (io credo con una propria certa autonomia d'interpretazione) la risposta più plausibile in questo contesto: le uniche risorse rimaste sono le nostre riserve: riserve alimentari ed energetiche. Ma una tale prospettiva rende l'idea ancora più incomprensibile. 
Davvero, aiutatemi a capire: di quali risorse stiamo parlando? 
Risorse alimentari? Davvero ci sono da qualche parte dei grandi magazzini di, chessò, riso, patate, o altro cibo (evidentemente non deperibile, o liofilizzato...), messo da parte fino agli anni '70 e da cui ormai da un po' di anni abbiamo cominciato ad attingere per tirare a fine anno? La gente muore di fame, in Africa e non solo, certo, ma questo significa che non ce ne sono abbastanza, di risorse alimentari, non significa che ne stiamo consumando più di quante ne produciamo. Si vuol forse dire che il regime di alimentazione di una parte del mondo (quello occidentale) non potrebbe essere offerto parimenti a tutto il mondo? Ma allora si tratterebbe di un problema di distribuzione, di quelle risorse, non di sovracconsumo. 
O stiamo forse parlando di risorse energetiche? Ma a parte quelle rinnovabili (solare, eolico, marino, etc...), tutte le altre fonti energetiche sono per definizione sovracconsumate: la Terra non ha alcuna quota di "produzione" annua di petrolio, carbone, etc: la totalità, il 100% del loro consumo è "sovracconsumato" e non verrà mai più rigenerato dalla Terra il prossimo anno. Al massimo, se volessimo parlare di quota annuale, questa riguarderebbe la loro estrazione, peraltro estremamente variabile, ma anche in quel caso è inverosimile che si sia "stipato" carbone e petrolio estratto fino agli anni settanta e poi cominciato a svuotare le riserve. Forse si vuol considerare un qualche forma di "capacità di smaltimento" dei prodotti di scarto dello sfruttamento di quelle risorse: ma allora stiamo parlando di inquinamento, o di effetto serra (riassorbimento di CO2), concetti molto lontani da quelli di "produzione di una risorsa" e di "suo consumo". 
 
E non pensate che il punto sia il mio fare le pulci ad un articolo di un quotidiano generalista e non scientifico come Linkiesta: anche OggiScienza si limita a rigirare le parole sulla metafora del budget annuale esauritosi già a due terzi dell'anno, e possiamo quasi capirla, in fondo, perché persino sul sito ufficiale del Footprint ci sono pagine e pagine di parole vuote: la sezione Footprint Science si limita a girare in tondo: dicono solo che calcolano l'ecological resource use and resource capacity of nations over time, che pubblicano dati da un po' di anni, suddivisi per oltre 230 nazioni, usando più di 6000 punti dati (?!?) per ogni nazione, esprimendo tutti i valori in ettaro equivalente, etc, etc... Va forse un po' meglio nella sezione Footprint basics in cui si spiega che l'Ecological Footprint misurerebbe di quanta superficie, di terra e di acqua, l'umanità ha bisogno per produrre le risorse che consuma, lo spazio necessario per gli edifici e le strade, e l'ecosistema necessario per assorbire i rifiuti prodotti, come la CO2 (lo spazio per edifici e strade? sì, sì, dice proprio the space for accommodating its buildings and roads!): qui si capisce che effettivamente vorrebbero tener conto dell'effetto serra, ma quali sarebbero le risorse che terra e acqua produrrebbero e che staremmo consumando ad un ritmo maggiore di quello di produzione? Le FAQ e il glossario non migliorano la situazione, rifilandoci per l'ennesima volta sempre le stesse vuote e circolari parole, per cui la biocapacity sarebbe la capacità di produrre useful biologica materials e di assorbire waste materials generated by humans, dove per “Useful biological materials” si intendono quelli richiesti dall'economia (?!?), e le terre e le acque biologically productive sono quelle che supportano una significativa attività di fotosintesi e di accumulo di biomassa usata poi dall’uomo (biomassa alimentare? voglio vedere questi container degli anni '60! Biomassa da combustione? di nuovo, come facciamo a consumarne più di quanta ne produciamo?). 
 
Insomma, se queste sono le argomentazioni sulla decrescita, qualcuno mi aiuti a capire. 
Dal canto mio vi suggerisco, in alternativa, questo video: Are We Running Out of Resources? 
 

17 July 2012

La comodissima verità sui prestiti

Ci sono verità scomode e verità comode. [...] Le verità comode [...] sono quelle che un po’ tutti già sanno, ma siccome sono comode la gente pensa che ci sia sotto una fregatura (“troppo comodo!”), così si comporta come se non fossero vere e alla fine, dopo qualche secolo, se le dimentica. [...] Poi c’è una terza categoria di verità: le verità comodissime. Vere e proprie pantofole per le orecchie.
Smeriglia, Tre verità comodissime
Un'altra di queste verità comodissime è la questione di come funzionano i debiti: ho qualche bisogno (o progetto) per cui mi servirebbero soldi subito e mi impegno, pian piano, a ripagare il prestito con gli interessi pattuiti (o scommetto che il progetto avrà successo e mi permetterà di ripagare debito ed interessi).
Sembra semplice, non pare ci sia bisogno di un corso di economia per capire la faccenda.
Almeno finché non si parla, appunto, di economia.
Prendete questo post, Positive feedback, di Giuseppe Lipari, persona intelligente ancorché non esperto di economia.
Nel descrivere la situazione stazionaria del "sistema dinamico" bilancio statale, scrive placidamente che fra le entrate di uno Stato, oltre alle tasse, possiamo annoverare anche la vendita di titoli, come se si trattasse di vendita di un patrimonio e non della contrazione di un debito. Scacciamennule è intelligente, si diceva, è non dimentica quindi di riportare, fra le uscite, anche la restituzione del debito, oltre alle spese correnti e al pagamento degli interessi. Ma si tratta di un errore (s'era detto che non è un esperto di economia), perché nessun economista vero si sognerebbe mai di pensare alla restituzione del debito: ad ogni scadenza di un blocco di titoli, lo Stato scende sui mercati obbligazionari per acquistarne altrettanti e più. Le due equazioni che scrive peccano del suo background scientifico, perché un vero economista semplificherebbe il debito da entrambi i lati dell'equazione entrate = uscite e scriverebbe:
 
uscite = spesa + interessi sul debito
 
entrate = tasse + ricavato vendita di ulteriori titoli (ulteriori rispetto al rinnovo automatico dei titoli in scadenza)
 
da cui si vede che il debito è semplicemente sparito (sì, compare come dipendenza degli interessi nelle uscite, ma si tratta di un tecnicismo matematico).
Fuor d'ironia, ammettiamo pure, per amor di discussione, che si sia di scuola keynesiana: ma non si deve forse prevedere un certo debito (per il fantomatico stimolo all'economia) solo per un limitato periodo di tempo, giusto appunto per superare una crisi e poter poi, col boom, ripagare quel debito contratto?
Quale logica perversa si cela dietro l'assunzione che uno Stato possa contrarre debito perenne... ma cosa dico: contrarre debito in maniera perennemente crescente?
Attenzione: la risposta non deve contenere la parola "inflazione".

02 July 2012

Android App of the Day: Display brightness


Display brightness
Ecco un'altra applicazione stupidissima eppur intelligentissima: Display brightness. Stupidissima perché fa una sola cosa, intelligentissima perché è una cosa utile e la fa bene.
La cosa che fa è permettere di regolare l'intensità di illuminazione del display. Il punto è che non si tratta di un widget, che vi costringerebbe ad uscire dall'app che state usando per tornare al(la schermata del) desktop (in cui avreste piazzato il widget), né tantomeno di un'app stand-alone: si tratta di un overlay screen che resta sempre in primo piano rispetto a qualsiasi app stiate utilizzando. Ovviamente è completamente trasparente, se non quando state cambiando il livello di luminosità scorrendo sul margine dello schermo che avete scelto, nel qual caso vi mostra per un breve momento un indicatore di livello lineare completamente personalizzabile in colore e trasparenza.
La grande utilità di una simile app è evidente, visto che tutti i meccanismi di controllo automatico della luminosità sono estremamente inefficaci, mi dicono anche in device più recenti e ben carrozzati in termini di sensori e core per interpretarne le letture, sia nell'indovinare il livello ottimale (che dipende non solo dalla luminosità ambientale, ma anche dalla luminosità di quel che viene visualizzato sullo schermo), sia nel farlo al momento giusto. Con quest'app invece, senza interrompere qualsiasi cosa stiate facendo, potete in attimo regolare al meglio la luminosità del display, risparmiando batteria e toccando con mano (...con dito?) l'andamento logaritmico della sensibilità dell'occhio all'intensità luminosa.

24 June 2012

Variazioni [era: Serendipity]

 
Provo con un altro post "musicale", che riprende in qualche modo il discorso sulle cover iniziato qualche post fa, serendipicamente, con Tom Waits.
C'è una cosa, in musica, che amo molto, e sono le variazioni. Forse perché entrano in gioco meccanismi atavici e infantili legati alla ripetizione di un elemento familiare, che ricorsivamente rinforzano la stessa familiarità; forse per il gioco intellettuale, ma giocato a livelli molto prossimi all'elaborazione inconscia del dato percettivo, quindi molto fisico, del riconoscimento di un pattern noto in un contesto sempre diverso: cercare il tema, scoprirne il tratto messo in rilievo da quella particolare variazione, sovrapporlo inconsciamente a quello di un'altra, ricreare ogni volta un ascolto diverso sulla base del peso relativo delle diverse variazioni che mentalmente vengono richiamate da quella che sta suonando in quel momento particolare...
Ovviamente avrete pensato subito che avessi in mente, per antonomasia, le Variazioni Goldbach... ehm, scusate, volevo dire le Variazioni Goldberg di Bach. Forse non sapete, però, che sì, pensavo proprio a Bach, ma anche, contemporaneamente, per antonomasia, a Uri Caine. Alle sue Variazioni Goldberg, ma anche al suo Mahler (che a sua volta, tanto per dire, nella sua Sinfonia n. 1 citava, variando in minore, nientepopodimenoché Fra Martino...).
Il jazz, da questo punto di vista, è un po' il nirvana delle variazioni, con i suoi standard declinati miriadi di volte.
 
Non propriamente una variazione, un'esecuzione rappresenta comunque un'istanza concreta e particolare di un ipotetico ideale astratto di composizione musicale: diverse esecuzioni di uno stesso brano sono l'occasione per cogliere l'ingrediente "personale" dell'esecutore, e giudicarne la bravura. Ora, qui io metterò in mostra tutta la mia ignoranza musicale, perché sono assolutamente incapace di giudicare la bontà di un'esecuzione, e mi limito a cogliere l'affinità, del tutto soggettiva, fra l'opera (in astratto) e il mio personalissimo gusto musicale. Credevo che la principale ragione di ciò fosse da cercare nel fatto che rarissimamente mi capita di ascoltare esecuzioni diverse di una stessa opera. Credevo che la ragione andasse ricercata lì perché credevo risiedesse lì il concetto stesso di "competenza di giudizio": nell'abitudine ad usufruire con una certa frequenza di certe esperienze, nell'ambito del loro più o meno naturale ambito di variabilità, nel saper cogliere le differenze e quindi, quasi automaticamente, nel saper riconoscere le varianti migliori.
Perché mai non sono in grado di riconoscere la bontà di una bottiglia di vino? Sì, ok, per tutta una serie di ragioni, ma prima di quelle viene il fatto di non essere un bevitore abituale.
Messi per la prima volta di fronte a, tanto per dire, un balletto di danza classica, sapreste giudicare la qualità della performance?
Allo stesso modo, per quel che mi riguarda, è già tanto saper dire che preferisco la musica rinascimentale e barocca a quella sinfonica ottocentesca, perché è già tanto se ho avuto modo di ascoltare diversi brani di quei diversi generi, ma non addirittura diverse esecuzioni di medesime composizioni.
 
Poi arrivò YouTube.
 
Certo, soprattutto per la musica classica, quel che si trova su YouTube non può certo considerarsi un campione rappresentativo del "naturale ambito di variabilità". Però, con tutte le cautele del caso, un minimo di esplorazione la consente.
Così, non ricordo più come, diciamo pure, ancora, serendipicamente, scopro il Si dolce è 'l tormento di Monteverdi nell'esecuzione di Marco Beasley e Guido Morini (Accordone). Mi piace molto, ma mi accorgo subito che c'è qualcosa di insolito: il modo di cantare di Beasley non è quello tipico delle esecuzioni di musica rinascimentale (non chiedetemi dettagli tecnici che non saprei come chiamare: forse l'espressione giusta è voce impostata, che mancherebbe a Beasley, ma un musicista potrebbe storcere il naso). In effetti poi scopro che questo Beasley è presente su YouTube con un repertorio piuttosto variegato, che spazia, pur restando in qualche modo nell'orbita delle sonorità barocco-rinascimentali, dalla tarantella pugliese (La Carpinese, Marco Beasley e L'Arpeggiata) alla musica tradizionale napoletana (badate alla differenza notevole fra questa sublime versione di Beasley de La canzone del Guarracino, così barocca e rinascimentale, e quest'altra versione in concerto con Pino De Vittorio, in cui canta ancora lo stesso Beasley ma che è chiaramente dominata dallo stile dell'altro, nel suo essere, come commenta Beasley stesso a un certo punto verso il finale (minuto 5:45), proprio Napoli esagerata, da intendere in un senso che, personalissimamente, non è proprio un complimento).
 
Bazzicando ancora su YouTube attorno a Beasley, concedetemi quest'altra parentesi, ho scoperto anche queste variazioni (Se l'aura spira) di Frescobaldi, che sono davvero bellissime, io non le conoscevo, non solo in questa particolare esecuzione del Beasley con un anacronistico ma icastico clarinetto in vece di flauto, e infatti ho poi scoperto che il loro tema, che Frescobaldi stesso chiamava la follia, altri non è che una sorta di precursore (lo chiamano the early folia) del più famoso tema omonimo (the late folia), che tanto mi fa impazzire, ogni volta, a onorare il suo nome, e che proprio in questa occasione ho scoperto potrebbe dare la polvere, di gran lunga, a qualsiasi standard jazz, quanto a popolarità come oggetto di variazioni (Which composers have written variations upon La Folia (in chronological order)?), e io che pensavo solo a Corelli.
Chiusa parentesi.
 
Dicevo, delle interpretazioni di Beasley: a conferma dei miei sospetti trovo in coda ai suoi video di musica antica dei commenti (vedi qui a lato) che si indovinano essere di musicisti che giudicano pessimamente l'esito di questi suoi esperimenti musicali. Lo ripeto ancora una volta, il mio gusto musicale è estremamente naif e con poca esperienza, io sono uno di quelli che non si accorge delle oggettivamente, a detta di alcuni miei amici musicisti, pessime qualità come tenore di Andrea Bocelli (pur non amandolo a mia volta, ma, come dicevo, semplicemente sulla base del mio gusto musicale rispetto al genere che usualmente canta).
Forse, dicevo, non basta frequentare certi generi, per maturare un gusto competente, e chissà cos'altro mi manca, perché rispetto a tutte le altre versioni "più classiche" che trovo su YouTube, il Si dolce è 'l tormento di Beasley è di gran lunga quella che preferisco.
 
 

14 June 2012

Android App of the Day: Sound Boost


Sound Boost:
davvero bruttina l'icona, vero?
Con questo post inauguro una nuova rubrica di questo blog (non ridete, non sto scherzando!) che chiameremo Android App of the Day (sì, sì, qui invece sto scherzando: è ovvio che non ci sarà una puntata al giorno!).
Da qualche tempo ormai sono un felice possessore di un HTC desire Z che, pur fermo ad Gingerbread e con un hardware ormai sorpassato (800MHz di single-core CPU e 512MB di RAM), resta un gioiellino ormai raro: sapete che HTC non farà più di telefoni Android con tastiera fisica QWERTY a scomparsa? E secondo voi con cosa li scrivo, pian piano, giorno dopo giorno (quei giorni che in treno non siamo sardine, ovviamente), tutti i post che stanno cominciando a ripopolare questo blog?
In questa rubrica, dunque, segnalerò le app più interessanti che uso sul mio droidino.
Ottenere i permessi di root su questo device è risultato essere una procedura estremamente lunga e difficile (se avete notizie diverse segnalatemelo nei commenti per favore!) e per mancanza di tempo ci ho rinunciato, per cui tutte le app che descriverò saranno perfettamente installabili e funzionanti anche senza permessi di root.
Tenderò poi a privilegiare le app inspiegabilmente meno note seppur utilissime.
 
E cominciamo appunto, nella puntata di oggi, con un'app stupidissima eppur intelligentissima: Sound Boost. Stupidissima perché fa una cosa soltanto: aumenta l'estensione massima del volume per l'uscita audio multimediale se sono inserite le cuffie. Intelligentissima perché, a differenza di altre app simili in circolazione, non agisce via software sul segnale digitale, ché andrebbe incontro a ovvi problemi di distorsione da clipping per saturazione, ma ottiene l'effetto voluto deviando il segnale audio, quando vengono inserite le cuffie, dal canale "multimediale" a quello "vocale" (non chiedetemi dettagli tecnici: immagino c'entri il DSP, ma, appunto, lo immagino soltanto).
Per questo preciso motivo, in realtà, l'effetto boost non è garantito, e dipende dalle specifiche hardware del telefono.
In ogni caso non si tratta di una modifica irreversibile (disabilitando o disinstallando l'app, tutto torna come prima), e soprattutto... a me funziona!

12 June 2012

La solitudine del pensiero

Non c’è nulla di più difficile in letteratura che descrivere un uomo che pensa. A chi gli chiedeva come facesse a inventare tante cose nuove, un grande scrittore rispose: pensandoci continuamente. E in verità si può ben dire che le idee inaspettate si presentano appunto per il fatto che le si aspetta. Sono in non piccola parte un risultato del carattere, di tendenze costanti, di ambizione tenace e di assiduo lavoro. Come deve essere noiosa questa perseveranza! Sott’altro riguardo, poi la soluzione di un problema spirituale si svolge all’incirca come quando un cane con un bastone in bocca vuol passare per una porta stretta: egli volta il capo a destra e a sinistra finché il bastone scivola dentro; e noi facciamo altrettanto, con l’unica differenza che noi non tentiamo così a casaccio, ma per esperienza sappiamo già pressappoco come si deve fare. E anche se un uomo intelligente pone nelle sue rotazioni maggior destrezza ed esperienza di un cane, lo scivolar dentro avviene di colpo e anche per lui giunge inatteso; ed egli percepisce chiaramente in sé un leggero senso di stupore stizzoso che i pensieri si sian fatti da soli invece di aspettare il loro artefice. Molta gente oggigiorno dà a quello stizzoso stupore il nome di intuizione, dopo che per molto tempo lo si è chiamato ispirazione, e credono di dovervi vedere qualcosa di superpersonale; invece è esclusivamente impersonale, cioè l’affinità e l’omogeneità stessa delle cose che si incontrano in un cervello. Quanto più il cervello è acuto, tanto meno la si nota. Perciò la meditazione, finché non è condotta a termine, è in fondo uno stato pietosissimo, una specie di colica di tutte le circonvoluzioni del cervello, e quando è finita non ha più la forma del pensiero in cui la si compie, ma già quella di ciò che si è pensato; ed è purtroppo una forma impersonale, perché il pensiero è allora volto verso l’esterno e preparato per esser comunicato al mondo. Per così dire, insomma, quando un individuo pensa, è impossibile cogliere il momento tra il personale e l’impersonale, quindi la meditazione è un tal guaio per gli scrittori, che essi preferiscono evitarla.
L’uomo senza qualità ad ogni modo stava pensando. Bisogna concluderne che, almeno in parte, ciò non era un fatto personale. E che cos’è, allora? Mondo che va e che viene; aspetti del mondo che si configurano in un cervello.
Robert Musil, L'uomo senza qualità, capitolo 28
 
Mi è tornato in mente leggendo The loneliness of making sense su BackReAction.

29 May 2012

Ciotole Gouldiane [era: Tom Waits [era: Serendipity]]

Continua la serie di post in risposta ad un commento del post precedente (si era già off-topic e la mia risposta si allungava...)
Ciò che evolve deve avere tre caratteristiche. Primo, deve esistere, secondo deve mantenere un’identità attraverso il tempo, terzo deve cambiare. Entità come specie, genere, famiglia e così via non esistono nella realtà, ma sono definibili solo arbitrariamente, perciò (e per altri motivi) le escluderei. L’individuo, o il gene, non hanno una continuità individuale nel tempo. L’individuo muore, il gene scompare oppure diventa un altro gene e non è più se stesso. Perciò li escluderei. (E’ da notare che ciò che evolve è ente diverso da ciò che viene selezionato, in quanto la selezione è sempre negativa, taglia e basta. Quindi l’individuo o il gene possono essere ciò che viene selezionato, ma non ciò che evolve). Direi che l’unico che può ambire al titolo è la popolazione, intesa come insieme di individui fra cui c’è scambio genico. Ancora meglio, il pool allelico della popolazione. Esiste, attraversa il tempo mantenendo una propria individualità, ma cambia mano a mano.
Non vorrei aprire un dibattito ontologico (quando scopri Quine, frasi come "per prima cosa qualcosa deve esistere", "sono definibili solo arbitrariamente, quindi non esistono", lasciano il tempo che trovano...), però, però...
Intendiamoci: a naso il tuo discorso mi piace e direi che mi trova perfettamente d'accordo.
Ma anche la vita, nel suo complesso, esiste, attraversa il tempo mantenendo una propria individualità, e cambia mano a mano.
Sì, questa mia è una provocazione, però la tua precisazione secondo cui ciò che viene selezionato è qualcosa di diverso da ciò che evolve mi insinua il dubbio se si stia discutendo di nomi o di cose.
Il dibattito Gould-Dawkins su quale sia il soggetto fondamentale dell'evoluzione non è un dibattito aristotelico sull'essenza e gli accidenti, ma cerca invece proprio di stabilire quale sia, se ci sia, un piano principale su cui agisce la selezione naturale. Volendo semplificare, per Dawkins la selezione non avviene a livello di specie, di gruppo né di individuo, ma a livello di gene (opportunamente definito in maniera intensiva come una qualsiasi porzione di DNA che sia abbastanza piccola da durare per un gran numero di generazioni e da essere distribuita in un gran numero di copie). Certamente se questa tesi, come si legge in giro, si traducesse semplicemente nel fatto che oggetto dell'evoluzione è solo la distribuzione di frequenza allelica di una popolazione, tu e Dawkins andreste felicemente a braccetto. Se poi si facesse notare che, nei casi più semplici, la tua definizione di popolazione come insieme di individui fra cui c’è scambio genico è ampiamente sovrapponibile all'usuale definizione di specie, anche Gould non ti riserverebbe sguardi troppo torvi.
Da una parte, la scoperta di DNA non-codificante, e più in generale la possibilità di analisi statistiche a livello di sequenze nucleotidiche, ha aperto le porte a tutto un modo, spesso fenotipicamente cieco, che si presta magnificamente all'approccio di Dawkins. Dall'altra (io cito sempre l'articolo con Lewontin I pennacchi di San Marco) è evidente che esistano spinte evolutive su piani così diversi (coadattamento, pleiotropia, flusso genico, simbiosi, deriva genetica, allometria...) che sarebbe ingenuo limitarsi ad un singolo approccio.
E allora certo, se consideriamo l'andamento temporale del pool allelico di una popolazione fra cui c'è scambio genico, potremo osservare precisamente, e magnificamente, un andamento evolutivo squisitamente darwiniano. Questo approccio, però, privilegiando il concetto di allele, ignora di principio tutte quelle dinamiche non-alleliche, su cui pure, seguendo Dawkins, si possono innestare meccanismi darwiniani di selezione.
Allo stesso modo, poi, è possibile montare un grandangolo sulla nostra prospettiva e considerare l'evoluzione di popolazioni, di specie, da un punto di vista che sì, potremmo dire ecologico e che sì, si presta bene ad un'analisi "banalmente" Malthusiana à la Lotka-Volterra, ma su cui potremmo ugualmente identificare, sul lungo periodo, dinamiche adattive di tipo darwiniano.
Sono d'accordo, puoi benissimo dire che per una gazzella il ghepardo è semplicemente un fattore ambientale e che i veri competitor della gazzella sono le gazzelle sue simili. Ma questa io la considero (semplicemente) una prospettiva in più (feconda e illuminante), non la prospettiva a cui ricondurre tutte le altre, a quel punto irrilevanti.
Per esempio, prendiamo la tua metafora delle ciotole adattive: è bellissima perché mette in evidenza l'esistenza di vincoli "genetici" (la compatibilità o la competizione fra alcuni caratteri funzionali espressi da certi geni che "compongono" lo stesso organismo) che possono essere altrettanto o addirittura più forti di vincoli più "visibili" come certe caratteristiche ambientali o l'esistenza di determinati predatori o competitori ecologici — a questo proposito mi vengono sempre in mente gli esempi di Diamond sul fatto che zebre, rinoceronti e leoni della savana, potenzialmente utili come animali da macello o da forza lavoro, non sono stati domesticati perché, a differenza delle specie della mezzaluna fertile, non esiste una mutazione capace di renderli mansueti, di farli accoppiare in cattività e di farli convivere in branchi ad alta densità abitativa (le stalle negli insediamenti umani).
Però questo non toglie che, accanto a questi vincoli genetici, gli altri vincoli restino, ed ha poco senso zoomare sempre a livello allelico per descrivere forzanti ecologiche, fisiche, geometriche, che si esplicano a livello di singolo individuo, di popolazione o di specie.

16 May 2012

Tom Waits [era: Serendipity]

Si' si' Vinicio lo so...(ti piace Singapore? fa molto Vinicio per me).
E I'll be gone?
Bello, bello, mi piace che il discorso prosegua.
No, non conoscevo entrambe le tue ultime segnalazioni: le aggiungo di buon grado alla mia playlist degli originali di Tom Waits: sinceramente non le avrei dette molto Capossela, ma mi piacciono (ormai sto imparando ad apprezzare Tom Waits anche al primo ascolto...).
Permettimi però di cogliere l'occasione per ritornare sulle mie tesi, ché continuo a restare della mia opinione.
Prendiamo proprio la Singapore che citi: ci sono diverse linee strumentali più o meno melodiche che si parlano, ma nessuna di esse costituisce l'ossatura portante del pezzo, il suo "basso continuo" (o almeno io faccio una fatica enorme a sentirla, solo qua e là, a sprazzi...). Anche perché spesso il loro gioco è quasi di dissonanza, di tensioni sospese... c'è solo un momento, quando entra una voce di tromba — mi pare sia una tromba — in primo piano, che un briciolo di armonia sembra rischiarare le tenebre del pezzo, ma, appunto, dura poco.
La voce di Tom Waits, poi, in questo pezzo, è davvero completamente neutra dal punto di vista musicale: non traccia nessuna linea, ogni tanto si appoggia su una nota e si tiene lì fino a al momento di risolvere su un'altra, ma il più delle volte si limita ad esprimere la sonorità della metrica delle parole e il ritmo della loro recitazione: sapresti "canticchiare" questa canzone? No, non è possibile, non esiste alcuna canzone in un senso proprio del termine.
Adesso concedimi un po' della tua pazienza e prendi questa cover di tali Blue Flags and Black Grass. Qui ci hanno messo, belli chiari chiari, gli accordi: come la base MIDI di un corso di chitarra per corrispondenza (elettronica) in cui devono rendere in maniera didascalica la struttura armonica del pezzo.
Oppure — pazienta ancora — prendi quest'altra cover di tali Asheville Waits Band: qui, oltre agli accordi, si sente, bella chiara e protagonista, una possibile linea di basso del pezzo.
Infine — e lasciamelo dire subito: questa cover proprio non mi piace e sono stato combattuto a lungo nel citarla per non irritarti, ma mi serve per chiarire il senso del mio discorso — prendi la cover di tal Anna Madorsky: qui invece abbiamo una (mediocre) linea melodica principale.
Ora, ti prego di non fraintendermi: la grandezza (va bene, va bene: uno degli elementi di grandezza) di Tom Waits è proprio il suo lasciare che tutte queste cose (la struttura armonica, l'ossatura di basso, una linea principale del pezzo...) restino in sospeso, siano solo suggerite, debbano essere "immaginate", come l'infinito dietro l'ermo colle, dall'orecchio dell'ascoltatore. Come un piacevole ricordo: vago e indefinito.
Il mio punto, come dicevo sin dall'inizio, è che tale grandezza può essere difficile da cogliere, o almeno che lo è stato per me tempo fa. Nel mio percorso è stato propedeutico l'ascolto di alcune cover che hanno provato a giocare, a mio modestissimo parere con un certo successo, con l'input originale di Tom Waits. Perché chiaramente la linea melodica la Madorsky se l'è letteralmente inventata, pagandone tutto il prezzo. Così come la linea di basso degli Asheville rappresenta anch'essa una loro personalissima interpretazione, con un esito questa volta decisamente più gradevole.