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25 February 2009

Quine - 1+2i

Immagine di Dallo stimolo alla scienza
In attesa di un reale post su Quine, faccio seguito al thread su una sua ipotetica sottoscrizione "letterale" dell'affermazione di Arnold secondo cui anche la matematica sarebbe, in fondo, una scienza "empirica".
Non ho tempo ma soprattutto capacità di difendere, qui e ora, nessuna delle due tesi — quella sulla matematica, e il fatto che Quine la sottoscriverebbe. Mi limito, forse più per giustificare la seconda che per convincervi della prima, a citare Quine stesso, da un passo di uno dei suoi ultimi libri. Includo una premessa, per contestualizzare:
[Definendo questa formalizzazione di somma e prodotto] mediante '∈', in uno qualsiasi dei modi conosciuti possiamo immergere questo linguaggio chiuso in un altro linguaggio formalizzato che ha come unico predicato la stessa '∈', e che comprende l'intera matematica classica. Naturalmente, esistono innumerevoli linguaggi formalizzati estranei alla matematica classica; un esempio banale è quello di parentela, i cui predicati sono 'F' (femmina), a un posto, e 'G' (genitore), a due posti. [...] Tipiche verità espresse in questo linguaggio sono: che le relazioni di fratello, coniuge e cugino sono simmetriche, che quella di genitore è asimmetrica, che quello di fratello germano è transitiva. Pur essendo estranea alla matematica, la teoria della parentela, nel suo modo banale, ne conserva chiaramente il sapore, e io non esito a farvela rientrare.
Tuttavia non si può dire che la nozione di "linguaggio formalizzato" catturi, per sè sola, l'essenza della matematica. Le cose che ci fanno sentire (forse) un sapore di matematica sono il numero limitato di predicati primitivi e la valorizzazione della costruzione logica che ne consegue; forse la matematicità è una questione di grado. In ogni caso, io non ho un criterio di demarcazione da proporre: il fatto che le variabili della matematica classica prendano come valori oggetti astratti, mentre quelli della teoria della parentela prendono esseri umani o altri animali non costituisce una differenza significativa; dopotutto la stessa '∈' ha alla sua base, come argomenti primi, oggetti concreti.
ma il passo più succoso è quello che segue immediatamente:
Se liberiamo la geometria dal letto di Procuste della teoria astratta delle relazioni e la reintegriamo nella sua condizione originaria, quella dei tempi di Euclide, essa non rientrerà più nel linguaggio formalizzato basato su '∈', e diverrà un linguaggio formalizzato a se stante, nonchè un analogo (sostanzioso e venerabile) della mia banale teoria della parentela: i suoi predicati torneranno a denotare superfici, curve e punti dello spazio reale. La geometria, come la teoria della parentela, è una matematica con un oggetto marcatamente empirico. Ciò che ha finito per esiliarla nel limbo delle matematiche non interpretate è l'anomalia logica del postulato euclideo delle parallele, la sua resistenza alla deduzione dagli altri postulati, più semplici. Questa circostanza ha stimolato l'esplorazione di postulati alternativi, quelli delle geometrie non euclidee, e a lungo andare anche l'esplorazione dello sterminato dominio dei sistemi non interpretati, o algebre astratte.
Se ancora conserva il suo vecchio statuto di teoria matematica dotata di un oggetto, la geometria euclidea lo ha perduto nel momento in cui Albert Einstein ha stabilito che lo spazio stesso, definito dai percorsi dei raggi luminosi, non è euclideo. Si deve inoltre ricordare che, al di là del caso della geometria, la de-interpretazione già svolgeva un ruolo indispensabile nella teoria della dimostrazione, e forse ciò ha avuto l'effetto di esagerare la frattura, grande o piccola, che si avvertiva tra la matematica e il resto della scienza.
Ovviamente, la matematica non interpretata è non solo priva di contenuto empirico, ma anche estranea a ogni problema di verità e falsità. La disciplina che tratta questi sistemi non interpretati, e quindi le algebre astratte, fa invece parte della teoria delle relazioni; quindi è matematica interpretata, e rientra nella teoria degli insiemi.
Dallostimolo alla scienza, capitolo 5 Logica e Matematica.

18 February 2009

Quine - 1+i

Grazie a ToMaTe (new-entry nel mio google-reader) scopro una bellissima "sentenza" di Vladimir Arnold (sì, proprio quell'Arnold della meccanica razionale di Galgani e Giorgilli):
Mathematics is a part of physics. Physics is an experimental science, a part of natural science. Mathematics is the part of physics where experiments are cheap.
e indovinate un po' chi mi è venuto in mente? Esatto, Quine! (be', la prossima volta che farò queste domande cercherò un titolo un po' più criptico per il post...)
Il pezzo dell'Arnold linkato, On teaching mathematics, chiarisce meglio il senso dell'incipit che ho citato, e continuare a leggervi Quine è forse oggettivamente una forzatura.
Ma vale comunque, moltissimo, una lettura.
 
E sì, sì, questo non vale come post su Quine (e infatti, nella numerazione dei post, non siamo avanzati dal numero uno...)
 
Comunicazione di servizio per Marco Ferrari: qui ritornavo sulla questione evoluzione con una domanda per te...
 
UPDATE: segue qui.

16 February 2009

Molte nature - 2

Molte nature
In questo libro espongo una rete di collegamenti tra discipline diverse e suggerisco un punto di vista sullo sviluppo della cultura. Discipline diverse, certo: dagli studi sull'origine della scrittura all'esplorazione di ciò che accade nei nostri cervelli e nei nostri organi di senso, dagi sviluppi dell'evoluzionismo all'approccio naturalistico alla filosofia, dalle ricerche sul comportamento degli animali e dei vegetali all'analisi dei generi letterai.
 
Lo sapevo, Bellone non delude.
Se già lo conosci, in questo suo ultimo Molte nature trovi quello che ti aspetti: prosa asciutta ma densissima, quasi borgesiana. I temi trattati questa volta spaziano davvero molto, come avete potuto leggere sopra. La chiave di lettura è sempre quella dell'approccio naturalistico alla conoscenza (leggi: Quine) e il filo conduttore è sempre la storia della scienza. Quella vera, ricostruita con precisione e con un meticoloso riferimento alle fonti originali, capace di rivoltare quasi tutti i luoghi comuni più diffusi e di smontare tutte le facili "teorie sulla scienza" che su di essi si basano.
 
Per salvare Copernico divenne necessario distruggere parti ampie del suo lascito: demolire il principio secondo cui l'universo è formato da sfere corporee, abbandonare la congerie di cicli che permettono di calcolare le posizioni dei pianeti attorno al Sole, costruire una nuova fisica in grado di abbattere i paradossi relativi al moto orbitale della Terra attorno al Sole e al moto rotatorio del nostro pianeta attorno a un asse. Per vie tra loro diverse, il salvataggio si ebbe con Galilei e con Keplero: ma il salvataggio stava trasformando il modello di Copernico in modo radicale, e la trasformazione coinvolgeva sia l'ontologia copernicana, sia i rapporti fra scienza e filosofia, sie le credenze di senso comune. Il cielo diventa un contenitore vuoto dei corpi celesti che si muovono all'interno della sua struttura non corporea ma geometrica, e le orbite dei pianeti devono essere allora governate da forze ancora inesplorate. La metafisica dominante va in frantumi, poichè crollano i pilastri di una filosofia prima i cui seguaci sostengono che nulla di nuovo può apparire nelle scienze poichè la natura stessa ha già parlato con la bocca di Aristotele: e ciò che da quella bocca è uscito ha il plauso della teologia e della politica, nonchè il conforto di molti accademici. E poi, com'è possibile credere nella veridicità del modello di Copernico, quando tutte le esperienze rese possibili dai sensi sono contrarie ai moti di rotazione e di rivoluzione della Terra? Ma il telescopio mostra angoli sperduti del mondo che nessuno aveva mai visto e che sono popolati da numeri immensi di stelle invisibili ad occhio nudo. E attorno a Giove ruotano quattro satelliti, e Saturno ha una forma enigmatica, e Venere ha le fasi come la Luna, e il Sole non è incorruttibile ma è ricoperto da macchie informi e scure. E ancor prima del telescopio, a occhio nudo s'era vista in cielo una nuova stella, e la nuova stella s'era lentamente spenta con il passare dei mesi.

26 January 2009

Quine - 1

Uno dei motivi per cui cito spesso ma non spiego mai Quine è che non è facile condensarlo in poche righe.
In epistemologia, ad esempio, è molto più facile divulgare Kuhn e Lakatos (fai l'esempio della rivoluzione della meccanica quantistica e della relatività, di rottura con la meccanica classica, e il messaggio, in fondo, è passato) o Popper (fai l'esempio dei corvi neri, del singolo corvo bianco, ed è chiaro cosa si intende per "falsificare" e della differenza col "verificare").
Ma prova a riassumere in poche parole e in modo altrettanto icastico come mai è impossibile distinguere le proposizioni analitiche da quelle sintetiche, quali sono le conseguenze dell'indeterminatezza della traduzione, la relatività ontologica...
Esistono, sì, delle immagini vivide del pensiero di Quine, come questa:
La cultura dei nostri padri è una stoffa di enunciati. Nelle nostre mani essa si evolve e muta [...]. È una cultura grigia, nera di fatti e bianca di convenzioni. Ma non ho trovato alcuna ragione sostanziale per concludere che vi siano in essa fili del tutto neri e altri del tutto bianchi.
ma restano parole quasi vuote di significato per chi già non conosce le sue tesi.
Forse la cosa più facile da spiegare è l'olismo della conferma, tant'è che ne esiste una versione "semplificata" che va sotto il nome di Tesi di Duhem-Quine. Chissà, magari partirò proprio da quella.
Purtroppo questa difficoltà a sintetizzare e semplificare Quine ha una conseguenza ben più grave di quella di non poterla spiegare facilmente nelle mie discussioni, ed è che tutti o quasi conoscono le idee di Kuhn e Lakatos e ancor più quelle di Popper, e nessuno o quasi ha mai sentito parlare di Quine. Eppure, dopo aver letto qualcosa di Quine, viene da sorridere a pensare di nuovo a Popper. Non nel senso, sia chiaro, che si sorride pensando a Popper come a uno stupido e al suo falsificazionismo come ad una gran cantonata. Ma certo si sorride pensando allo spessore dell'analisi di Quine in confronto all'ingenuità e alla superficialità del falsificazionismo di Popper, e ancor più ai paradigmi e alle rivoluzioni scientifiche di Kuhn e Lakatos.
Esattamente la stessa sensazione che si prova dopo aver letto Enrico Bellone: si scopre la differenza fra storia e favola della scienza. Da una parte una disciplina affascinante quanto impegnativa, fatta di laboriosa lettura delle fonti originali, tanto delle pubblicazioni ufficiali quanto delle corrispondenze private, della loro contestualizzazione in un quadro concettuale quasi sempre profondamente diverso da quello con cui, oggi, tendiamo a rileggere quelle stesse equazioni e quelle stesse teorie che, al contrario, la favola della scienza ci presenta come una costruzione lineare, magnifica e progressiva, frutto di una serie di colpi di genio (che a posteriori, poi, sembrano sempre delle banali ovvietà) e di experimentum crucis univoci e definitivi.
Sì, dovevo parlare di Quine, non di Bellone. Ma il fatto è che devo proprio a Bellone la scoperta di Quine. E del resto quello della favola della scienza non è solo un paragone distante, visto che, al contrario, molte delle idee alla base delle tesi di Popper, Kuhn e Lakatos sembrano discendere precisamente da questa visione semplificata del modo di procedere della scienza. Gli experimentum crucis capaci di falsificare una teoria in senso popperiano, infatti, sbiadiscono e sfumano di fronte ad un'analisi storica precisa e prendono forma solo a posteriori, in una reinterpretazione semplificata della vicenda, fatta con gli anacronistici occhi di poi.
Credo, per tornare a Quine, che le difficoltà che si trovano a divulgarlo sono davvero quasi tutte dovute a questa sua irriducibile complessità. Una complessità che si evidenzia nel fatto che nelle sue tesi non si può separare l'epistemologia dall'ontologia, dalla gnoseologia, dalla logica, dalla linguistica... La sua è intrinsecamente una "teoria del tutto" e non potrebbe essere che così, visto che "le nostre proposizioni sul mondo esterno si sottopongono al tribunale dell’esperienza sensibile non individualmente ma solo come insieme solidale".
Insomma, Franco, questo lungo post solo per mettere le mani avanti e dire che no, non sarà affatto facile provare a spiegarvi Quine.

23 January 2009

Ateismo, agnosticismo e laicismo: panegirico sui massimi sistemi

Ormai è notizia vecchia: dopo Stati Uniti, Australia e Spagna, anche l'Italia fa avrebbe voluto far seguito all'iniziativa degli autobus a Londra della British Humanist Association: l'UAAR aveva fatto un'offerta per uno spazio pubblicitario sugli autobus di Genova in cui sarebbe campeggiato lo slogan che vedete qui di fianco. Sollevare il dibattito sulla questione religiosa era certamente uno degli obiettivi dell'iniziativa e altrettanto certamente sembra che questo obiettivo sia stato raggiunto, almeno a guardare la blogosfera.
A parte queste considerazioni molto interessanti di Morgan, il dibattito fra i blog mi è sembrato girare principalmente intorno all'assenza di un avverbio dubitativo sull'esistenza di Dio, che era invece presente (l'avverbio, non Dio) a Londra e a Madrid (in Australia, come da noi, la campagna è stata vietata, e in California non hanno citato direttamente Dio ma hanno fatto riferimento solo alle religioni, "Imagine No Religion"); ad esempio da Marco o da Leonardo (apro una piccola parentesi: questa volta Leonardo mi ha davvero deluso, il suo post è soltanto un esempio di benaltrismo da manuale: ha pontificato in non si sa bene che direzione — in difesa delle religioni? in difesa del comunismo? ma solo quello agnostico? contro la scienza? semplicemente contro l'UAAR? — inanellando una serie di considerazioni storico-sociali escatologiche così enormi che l'autobus di Genova non si riesce più nemmeno a vedere: l'esistenza di un pianeta extrasolare trattata come l'esistenza della teiera di Russell, le ragioni "economiche" per l'esistenza delle religioni, l'importanza del ruolo consolatorio delle religioni, l'importanza dell'azione caritatevole delle religioni, il pessimismo storico e il pessimismo cosmico leopardiano, uno sciocco slogan "sei ateo solo perchè te lo puoi permettere"... Tutto questo sproposito solo per criticare uno slogan sciocco? Vabbe', chiusa parentesi).
Le critiche, nei post e nei relativi commenti, si sono articolate essenzialmente in due tempi (concettuali, non cronologici). Dapprima si è criticata la forma, il tono che quell'assenza dava all'iniziativa: lasciava intendere, dicono quasi tutti, la stessa identica sicumera delle religioni, che pretendono di essere le uniche depositarie dell'unica Verità su(ll'unico) Dio. Quindi, in un secondo tempo, si scatenava il dibattito sul contenuto: ma è davvero così certa la non esistenza di Dio?
Sul primo tempo del dibattito non vorrei dilungarmi: una discussione sulla modalità dell'iniziativa dovrebbe essere portata avanti dai promotori stessi, perchè non può che andare di pari passo con una discussione sulle motivazioni dell'iniziativa. Quali sono gli obiettivi? Convincere? Rappresentare? Provocare? Stimolare? La risposta alla critica "dovevate lasciare quel probabilmente" può essere molto diversa in ciascuno dei casi.
Vorrei invece commentare il secondo tempo della discussione, perchè entra più squisitamente nel merito della questione.
   —   ∴   —   
La maggior parte dei critici critica perchè non si sentirebbe di sottoscrivere un'affermazione così forte. Come dicevo, non voglio discutere del fatto che un'affermazione dubitativa sarebbe stata sottoscritta anche dagli agnostici, perchè questo sarebbe tornare a discutere degli scopi dell'iniziativa e quindi delle sue modalità. Voglio invece entrare proprio nel merito della questione "ateismo", e in particolare vorrei rispondere a due domande specifiche: primo, che "sicurezza" abbiamo dell'esistenza di Dio; secondo, se è vero che una posizione scettica forte, atea appunto, sarebbe del tutto simile a una posizione dogmatica e dunque soggetta a tutte le critiche che vengono avanzate verso le religioni.
Le due domande in qualche modo sono legate e credo che tutto il problema sia riconducibile, in fondo, ad una disputa su una parola: "teoria". Un esempio concreto di una simile discussione potete trovarla in calce a un post quasi apparentemente "ingenuo" di Progetto Galileo. Una discussione emblematica, nonostante a un certo punto possa sembrare un accapigliarsi per un dettaglio: quella di Darwin è solo una teoria?
C'è una situazione di fatto nota a tutti e su cui concorderebbero entrambi i contendenti di questa disputa, ed è che la scienza non ha certezze, che si limita a proporre modelli, che questi modelli possono essere corroborati da una mole impressionante di verifiche sperimentali e nonostante ciò possono essere mandati in frantumi anche da una singola falsificazione.
Cio che li tiene distanti mille miglia è il valore di questa incertezza. Stefano insiste sulla mancanza di certezze come un'entità indissolubile e assoluta: o ce l'hai, o è come non avere niente. Sul fronte opposto invece si tengono in conto anche le sfumature: non essere certi di niente non significa che qualsiasi cosa è equivalente a un'altra.
E allora quella di Darwin è solo una teoria, se si va alla ricerca di certezze assolute, di quelle certezze che dopo Berkeley non sappiamo più dove trovare. Che teoria, invece, è quella di Darwin, se si cerca di capire il mondo che ci circonda per come meglio ci riesce!
Per Dio — e non è un'imprecazione — il modo di porsi è lo stesso. Esiste davvero, Dio? E come fai, qualsiasi sia la tua risposta, ad esserne davvero così sicuro?
Lasciamo da parte i credenti: loro su questo, probabilmente, non avrebbero dubbi, in senso assoluto. E, per un attimo, lasciamo da parte anche gli agnostici, che vorrebbero poter non rispondere. Prendiamo gli atei, che rispondono di no, Dio non esiste. Come fanno ad esserne sicuri? Be', la risposta è la stessa del caso di Darwin: non ne sono affatto assolutamente sicuri! Ma sanno che non si può essere sicuri di niente, a quel modo, e che nonostante ciò si può cercare di capire il mondo che ci circonda in modo comunque accettabile, anzi, di cui si può ben andare orgogliosi. Ed evidentemente rispondono di no perchè gli sembra proprio che Dio non esista, e di ciò credono di avere ottime ragioni, le migliori che si possono avere in un mondo in cui non esistono certezze assolute. Che ci volete fare, dicono anche che non esistono UFO di origine extraterrestre, ma, se mettete loro il coltello alla gola dell'aggettivo assoluta, crolleranno e ammetteranno che no, non ne hanno certezza.
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L'obiezione del credente, e probabilmente anche dell'agnostico, è che con Dio non si ha a che fare con una "cosa del mondo", che il trascendente esula completamente dall'indagine scientifica e dunque dalla sua scala di certezze. E di fronte ad un'obiezione del genere, effettivamente, la discussione si deve fermare. Cioè, si potrebbe anche continuare, si potrebbe ribattere che è ingenuo pensare che scienza e fede riguardino due mondi diversi e separati (il famoso NOMA), si potrebbe argomentare, seguendo Quine, sull'unità della nostra conoscenza del reale, ma sarebbe una cosa lunga e noi si era partiti con due domande specifiche.
E torniamo a quelle domande, dunque.
Primo: che sicurezza hanno gli atei della non esistenza di Dio? Be', ognuno potrà specificare la percentuale che preferisce, ma il senso di tutto questo post vorrebbe chiarire che non ha senso ribatter loro "ma come puoi? ne hai forse la prova incontrovertibile?" perchè non è questo che intendono quando si dicono certi della non esistenza di Dio.
Secondo: ma l'ateismo è dunque dogmatico e fondamentalista come una qualsiasi religione? La domanda ovviamente va spezzata: è dogmatico? è fondamentalista? Strettamente parlando non è dogmatico, perchè non pretende di avere la verità rivelata (e da chi, se non c'è un Dio?). Certo che, quanto a "sicurezza" della propria tesi, qualche ateo potrebbe non sentirsi meno certo e irremovibile di un credente. E se questo può bastare a qualcuno per etichettarmi come dogmatico, che etichetti pure.
E sul fondamentalismo?
Be', prima di rispondere sul fondamentalismo dell'ateo, vorrei dar voce subito all'obiezione dei credenti: ma non è vero che siamo tutti fondamentalisti!
La risposta, cioè, è che il fondamentalismo non è legato al carattere di certezza di una convinzione, ma al contenuto specifico della convinzione. Credere che non ci sia niente di trascendente non è necessariamente un credo fondamentalista. Credere che esista un Dio che ci ama, altrettanto. Il problema sorge quando questo Dio che ci ama pretende che tutti "assecondino le sue leggi".
E allora è inutile paragonare il dogmatismo di fede del credente con la spavalda certezza dell'ateo per dedurre che il fondamentalismo delle religioni è nascosto anche dietro chi nega l'esistenza di Dio. Per rispondere davvero alla domanda sul fondamentalismo ateo bisogna rispondere a ben altre domande: gli atei cercano di impedire ai credenti di professare la propria fede? Di praticarla?
Rispondere di no a queste domande non significa dichiararsi agnostico perchè non si sta discutendo nel merito delle convinzioni religiose, ma si sta discutendo di libertà religiosa. E questa cosa, che non sta nè dalla parte dell'ateo, nè dalla parte del credente nè tantomeno dalla parte dell'agnostico, si chiama laicismo.

26 December 2008

Molte nature


Enrico Bellone
(foto: liberliber)
Certo che Enrico Bellone scrive proprio a densità nucleare. Nella prefazione al suo ultimo Molte nature, Giulio Giorello cita, di Bellone stesso, questa frase, tratta da Il mondo di carta:
L'oggettività non sta in un determinato metodo, ma nel processo storico per cui i vari metodi e le diverse forme della spiegazione secondo regole sono costretti a variare in funzione delle risposte che la natura offre alle sensate domande.
Chiaro, no?
Be', se avete difficoltà a coglierne il senso, sappiate che lì dentro c'è di tutto: è un densissimo compendio di Quine e del suo olismo della conferma e relatività ontologica; è una risposta definitiva a Popper e al suo problema della demarcazione; e ci sono dentro anche, seppur polverizzati e fatti poltiglia, Kuhn, Lakatos & Co.
Certo, è una frase estrapolata dal contesto. Del resto tutta la prefazione di Giorello è un'accozzaglia di citazioni di Bellone il cui senso è quasi incomprensibile.
Spero — ci conto — che il libro abbia tutt'altro stile.
 
UPDATE: e infatti...