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16 May 2014

Fluttuazioni quantistiche in cosmologia

E dopo il quantum computing (vi ricordate, no, la storia dell'epistemologia quantitativa di Aaronson, no? "Computer science" is a bit of a misnomer; maybe it should be called "quantitative epistemology") scopro che anche la moderna cosmologia — Sean Carroll, Squelching Boltzmann Brains (And Maybe Eternal Inflation) — può avere qualcosa da dire (addirittura con evidenze sperimentali? vedi le recenti misure di BICEP2) sulla natura delle fluttuazioni quantistiche e sulle diverse "interpretazioni" della meccanica quantistica.

17 March 2009

Quine + |Zurek>

Sto cominciando a giocare troppo coi titoli, eh? Effettivamente l'unico riferimento a Quine questa volta riguarda la giustificazione sul perchè questo post non parla di Quine. E la giustificazione è che Clodovendro mi ha distratto dalla mia priorità di conquistare il mondo di divulgare Quine, tentandomi con le sirene delle interpretazioni della meccanica quantistica. Già lo so che sarà la solita bella senz'anima, come tutte, ma, come tutte, l'idea è stuzzichevole e vien voglia di approfondire un po'.
Questa volta è il turno di Zurek e del suo darwinismo quantistico (esatto: si cita Charles nel nome, se ne poteva non parlare anche per Prgetto Darwin su Progetto Galileo?). Dalla breve review segnalatami da Clodovendro non ci ho capito molto, ma del resto il terreno mi franava sotto i piedi a sentir parlare di decoherence e profondi abissi mi si spalancavano davanti ad einselection ed envariance (termini per me fino a quel momento sconosciuti...).
Così, invece di lavorare per voi su Quine, mi sono spulciato la bibliografia, mi sono scaricato una review un po' più corposa e nel week-end mi sono dato alla lettura, nella speranza di capirci qualcosina in più.
Il risultato (ma non ho ancora finito di leggere quest'ultimo articolo) non è che ora ho le idee più chiare, ma è che ora voi vi beccate due belle domandine in bottiglia che lancio nell'etere digitale.

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La prima domanda è forse la più tecnica delle due, per cui la lascio per seconda, altrimenti quasi tutti si fermeranno subito e non proseguiranno a leggere la seconda, che pertanto esporrò per prima.
 
La seconda domanda, dunque, rappresenta, o almeno così mi par di capire, il punto centrale dell'idea di Zurek. Uno dei tanti modi di raccontare il problema della meccanica quantistica di cui, da quasi un secolo ormai, si cerca di venire a capo, è sottolineare l'irriducibile stridore fra i suoi postulati "matematici" da una parte (stati come raggi di vettori in spazi di Hilbert ed evoluzione unitaria, lineare e deterministica) e dall'altra quelli "di misura" (la legge di Born sulla probabilità e il fantomatico collasso della funzione d'onda). Ebbene, l'approccio di Zurek è quello di provare a partire dai primi e dedurre come loro "ovvia" conseguenza i secondi. L'approccio, sempre per quel che capisco, non è "fondazionale": non pretende di fornire esplicitamente un'espressione puramente quantistica per l'interazione sistema-apparato da cui dedurre "matematicamente" (nel senso di sopra) il collasso della ψ dall'equazione di Schroedinger. Piuttosto Zurek parte dall'assunzione che un'interazione di questo tipo esista, e prova a studiarne alcune sue caratterische.
Zurek parte dunque mettendo sullo stesso piano "quantistico" tanto il sistema, descritto dallo stato , quanto l'apparato di misura, l'ambiente con cui il sistema interagisce, descritto anch'esso da uno stato quantistico . Ebbene, l'assunzione fondamentale di Zurek è che l'interazione () che ha luogo durante una misura sia di questo tipo: (M)
0 = k skk0    k skkk
Zurek assume, cioè, che esistano degli stati k del sistema che restano invariati durante la misura e che, di più, lasciano un loro "imprinting" nell'ambiente, il quale a seguito dell'interazione modifica il suo stato da 0 a una sovrapposizione di k ciascuno dei quali "si porta dietro l'informazione" sulla componente k dello stato .
Tale assunzione di Zurek, se è davvero nei termini che ho esposto, sembra chiaramente molto forte. Non so abbastanza di decoherence, magari esistono degli esempi di decoerenza che possono essere modellizzati in questo modo (magari proverò a chiedere al mio amico Dragon Ball...), ma è certo che deve trattarsi di una qualche modellizzazione efficace (nel senso tecnico di effective) perchè la linearità dell'evoluzione unitaria mi pare che proibisca un'evoluzione come quella scritta sopra (può benissimo essere che mi sia arrugginito molto a non far più fisica, in tal caso fatemelo notare nei commenti!).
L'obiezione a questa mia obiezione è che l'intento di Zurek è proprio quello di spiegare il collasso della funzione d'onda, ed è quindi ovvio che da qualche parte debba forzare la meccanica quantistica "classica". Se posso fare un appunto, però, mi sembra che nei suoi articoli non si evidenzi abbastanza che dietro questa assunzione si celi la presunta "spiegazione" del collasso e che si tratta di un'assunzione "non standard" (ed è per questo che ho il forte sospetto che sia io a non aver capito qualcosa...)
Il resto delle argomentazioni di Zurek, fatto questo passo, diventano concettualmente semplici, o almeno è possibile riassumerle brevemente e "senza formule". Quel che Zurek dimostrerebbe è che gli stati k che soddisfano la condizione (M) devono necessariamente costituire una base ortonormale, ovvero devono essere autostati di un operatore autoaggiunto. La cosa, cioè, sarebbe la spiegazione del fatto che i risultati di una misura possono essere solo autostati di un simile operatore (ci tengo a dire che non sono riuscito affatto a seguire nei dettagli tali ulteriori passaggi e che il riassunto di sopra rappresenta quasi sicuramente una semplificazione eccessiva).
 
E la regola di Born sulle probabilità? Per quello è sufficiente invocare l'envariance, altrimenti nota come environment assisted invariance — e non potendo linkare wikipedia, mi tocca linkare da arxiv... — e il gioco è fatto. O così almeno crede Zurek. Perchè io, proprio a questo proposito, avrei giusto la mia prima domandina in bottiglia che attende.
 
Come dicevo, questa domanda è ancora più tecnica della precedente (mi perdonino i lettori a digiuno di fisica). Detto in parole semplici (e così l'anima pia vagante che vorrà provare a rispondermi potrà puntare il dito sul punto preciso in cui non ho capito... JB sei in ascolto?) si tratterebbe della possibilità di poter cambiare arbitrariamente le relazioni di fase φ(k) fra le ampiezze sk nel generico stato  = k skk di un sistema:
 → k eιφ(k)skk
forti del fatto di poterle poi "annullare" nel sistema "ambiente" con cui il sistema è accoppiato:
 → k e-ιφ(k)k 
Ora sicuramente c'è qualcosa di banale che non ho capito, perchè uno degli insegnamenti basilari che mi sono rimasti della meccanica quantistica è prorpio quello che la fase irrilevante è solo quella overall, mentre le fasi relative non solo sono rilevabili, ma sono anche rilevanti, com'è proprio il caso paradigmatico della particella libera a una dimensione: lì le fasi relative fra le ampiezze nelle |x rappresentano proprio il momento della particella: cambiare quelle fasi significa cambiare la distribuzione dei momenti della particella. Di più: non è possibile scegliere arbitrariamente quelle fasi e preparare, ad esempio, uno stato gaussiano strettamente reale nelle |x (ossia  = x sx|x con tutti i coefficienti sx con parte immaginaria nulla), perchè violerebbe il principio di indeterminazione! Pensare di effettuare una trasformazione del genere non una (solo sulla ) ma addirittura due volte (anche sull'ambiente ) senza che questo modifichi la fisica dei due sistemi, non mi sembra possibile: cos'ha in mente, dunque, Zurek?!?
 
Insomma, questa volta, prima di potermi abbandonare alla delusione dell'ennesimo vano tentativo di interpretazione per la meccanica quantistica... vorrei almeno prima capirlo! :)

21 January 2009

essere o trovare

Meccanica statistica classica: probabilità di essere.
Meccanica (statistica) quantistica: probabilità di trovare.
Il problema, lo sappiamo, non è il fatto che Dio giochi a dadi. Il problema è l'abisso senza fondo che separa osservatore e osservato. E l'abisso è tutto (e soltanto?) lì dentro, in quel trovare, che la meccanica quantistica non riesce a scrollarsi di dosso. Che non può scrollarsi di dosso, perchè è il significato stesso, della meccanica quantistica, così come la conosciamo, da quasi cent'anni, ormai.

28 July 2007

La dimensione trasversa di un fotone
ovvero
Domande sbagliate


Ma uno specchio semitrasparente e' davvero omogeneamente semiriflettente, oppure il suo comportamento e' il risultato macroscopico di una struttura microscopica composta da parti riflettenti e parti trasparenti? In questo secondo caso, qual e' la dimensione di queste micro-regioni riflettenti/trasparenti? Soprattutto rispetto ai fotoni incidenti: e' piu' grande, piu' piccola o del suo stesso ordine di grandezza? A proposito: ma quant e' grosso un fotone? qual e' la sua tipica dimensione trasversa? Sarebbe possibile "puntare" ogni fotone su una singola zona riflettente/trasparente, cambiando il comportamente macroscopico dello specchio semiriflettente?
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Allora: quanto e' largo un fotone? Quanto e' lungo lo sappiamo, o almeno crediamo di saperlo, visto che ci insegnano presto la dualita' di Fourier k↔x, da cui verrebbe fuori che un fotone di frequenza fissata dev'essere "infinitamente lungo". Ma trasversalmente, quanto occupa?
Un primo elemento di confusione e' dato dall'idea che esista il fotone. No, no, certo, non voglio dire che non esistono fotoni, voglio dire che non esiste il fotone. L'equazione E=hv non significa che se voi specificate una frequenza v avete descritto un fotone di quella frequenza. La quantizzazione sta nell'interazione (con la materia), nell'energia (E, appunto pari ad hv) scambiata. Finche' non abbiamo interazione, non esiste alcun fotone, e abbiamo solo normalissime onde elettromagnetiche. Un laser a frequenza v impostato con un'intensita' cosi' bassa da emettere un'energia E=hv nell'arco di 24 ore, genererebbe un'onda piana per tutto il tempo per cui viene lasciato acceso, solo che avremmo una probabilita' di "vedere" il fotone sullo (l'interazione di quell'onda piana con lo) schermo, solamente, in media, una volta al giorno. Una sorgente puntiforme a simmetria sferica genererebbe un'onda sferica che si propaga in tutti e quattro i pigrechi di angolo solido, anche se poi magari l'interazione avviene in un punto particolare (col quale, siamo soliti dire, la sorgente ha scambiato un fotone...).
Chiarito questo, possiamo dimenticarci completamente la parola fotone e pensare direttamente in termini di onde: quanto posso "stringere" un'onda, nella sua dimensione trasversa? Il modo piu' semplice e naturale per generare un'onda "stretta" e' quello di usare una fenditura con cui "filtrare" un'onda piana piu' estesa. Ma... Esatto: nonappena avremo ridotto le dimensioni della fenditura all'ordine di grandezza della lunghezza d'onda dell'onda, i fenomeni di diffrazione allargherebbero l'onda uscente essenzialmente ad onda sferica!
In pratica possiamo parlare di fascio solo se la sua dimensione trasversa e' molto maggiore della lunghezza d'onda. Di fatto, anche il fascio sara' "sbrodolato" (diffratto) ai bordi, per il principio di Huygens e dunque potremo continuare a parlare di fascio proprio nella misura in cui: 1) la sua dimensione trasversa e' tanto maggiore della lunghezza d'onda (e quindi dell'entita' dei fenomeni di diffrazione); 2) siamo interessati a fenomeni che accadono "lontano dai bordi". Ovunque abbia senso parlare di "fascio", l'onda e' da considerarsi onda piana. Quindi, a voler insistere con la domanda "quanto e' larga un'onda", la risposta meno inappropriata sarebbe infinitamente larga.
Ma a ben pensarci, tutto si tiene: qualsiasi meccanismo di riflessione/trasmissione richiede proprio l'interazione di fronti d'onda piani (infinitamente "larghi") con la superficie di separazione di due mezzi di trasmissione dell'onda. E la superficie deve proprio essere del tutto omogenea e infinitamente estesa perche' le fasi dell'onda non si incasinino e possa effettivamente riemergere un'onda, riflessa o trasmessa. Se non lo fosse, se presentasse disomogeneita' grandi fino all'ordine della lunghezza d'onda incidente, le fasi si scombinerebbero e non avremmo piu' un'onda piana (diffusione) o, se le disomogeneita' sono "regolari", la loro regolarita' resterebbe impressa nel ricombinamento delle fasi dell'onda, e avremmo, ad esempio, un reticolo di diffrazione. Il fatto che, concretamente, non siano infiniti ne' i fronti d'onda ne' le superfici di separazione, significa semplicemente che il fenomeno di riflessione/trasmissione avverra' nei limiti in cui siamo lontani dai bordi, tanto dei fronti d'onda quanto delle superfici.
La domanda iniziale, dunque, sull'omogeneita' della composizione di uno specchio semiriflettente, non puo' che avere risposta positiva. Qualsiasi sia il meccanismo di semiriflessione, si trattera' essenzialmente di un gioco di superfici piane di separazione fra, ad esempio, l'aria e il vetro, capaci di generare, a partire da un fronte d'onda incidente, due fronti d'onda, uno in riflessione e uno in trasmissione.
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Come avrete probabilmente intuito sin dall'inizio, la domanda (molto stupida, a posteriori) con cui sono partito nasceva dall'ennesimo ripensamento agli esperimenti "pazzi" della meccanica quantistica, in cui si mettono in evidenza i comportamenti di entangling o di autointerferenza di fotoni o addirittura di elettroni. L'esperimento consiste tipicamente nell'evidenziare fenomeni di interferenza di un fascio (di fotoni o particelle come elettroni o neutroni) che passa per due fenditure ravvicinate o viene diviso da, appunto, uno specchio semitrasparente. Il dubbio sullo specchio nasceva dal solito irresistibile tentantivo di immaginare nei dettagli (e spesso in termini particellari) quello che succede, e dall'ingenuo dubbio che, chissa', forse il fotone non si "divideva" davvero nello specchio, ma veniva riflesso o trasmesso solo "statisticamente", a meta', ma di volta in volta "interamente". Ovviamente, invece, la cosa essenziale e' proprio che le onde emergenti (dalle due fenditure o sui due percorsi a seguire dello specchio semitrasparente) siano perfettamente in fase, figlie dirette dell'unica onda incidente. E, di nuovo, finche' si parla di onde tutto puo' avere il suo senso: le fasi che si ricombinano, da una parte c'e' interferenza distruttiva, dall'altra costruttiva, et cetera et cetera. Il problema e' che poi le "interazioni", le "misure" sono quantizzate, avvengono "puntualmente". E si ricade nel tentativo frustrante di immaginare quegli stessi quanti lungo tutto il percorso che ha portato all'interazione: l'elettrone da che fenditura e' passato? il fotone ha "interferito con se stesso"?
Da questo punto di vista, l'interpretazione transazionale della meccanica quantistica, proposta da Cramer nel 1986, offre una soluzione apparentemente soddisfacente. Tirando in ballo le onde anticipate e la loro propagazione "indietro nel tempo", trova una giustificazione al fatto che, ad esempio, il fotone di un'onda sferica si sia diretto proprio verso il punto in cui, a posteriori, c'e' stata l'interazione. Purtroppo pero' anche questa interpretazione fallisce dove inesorabilmente falliscono tutte: nella descrizione del collasso della funzione d'onda. Come mi aveva fatto notare Gigi (facendo collassare tutto il mio ingenuo entusiasmo sull'interpretazione di Cramer), la domanda cruciale e' quando avviene il collasso? In qualsiasi esperimento possiamo sempre spostare a piacimento il confine fra cio' che e' quantistico (il sistema, in cui tutto e' questione di funzioni d'onda, evoluzione deterministica e continua, senza salti ne' collassi) e cosa no (l'apparato di misura, che invece restituisce risultati discreti, stocastici e irrispettosi dei limiti di Bell). E a questa domanda, su dove avvenga il collasso, se avvenga davvero... neanche l'interpretazione di Cramer da una risposta.
Forse perche' continuamo a farci, da ottant'anni a questa parte, la domanda sbagliata.
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Oltre al gia' citato Gigi, questo post deve in qualche modo la sua esistenza anche a Federico. Le domande sbagliate sono infatte quelle a cui abbiamo cercato di rispondere in una piacevole discussione avvenuta ormai tanto tempo fa in uno dei mille viaggi Ginevra-Milano. Tutta la prima parte del post, in qualche modo, ne e' una trascrizione o, meglio, una riduzione.

25 April 2007

l'importanza di essere bayesiani (in un mondo quantistico)

Finalmente (?!?) mi e' capitato di fare qualche viaggio in treno 1) lungo 2) da solo 3) a distanza ravvicinata. Il risultato e' stato che sono riuscito a macinare un po' di letture delle mille scaturite dall'incontro con le lezioni di Scott Aaronson di cui vi avevo parlato.
Aaronson e le sue lezioni sono davvero fantastici. Ma di lui e loro parlero' in un secondo momento. Ora voglio solo provare a riassumere quel che ricordo di quel che ho capito dell'approccio "bayesiano" alla meccanica quantistica, ovvero quel che ricordo di quel che ho capito di quello che ho letto di tali Fuchs e Hardy.
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Questo approccio tenta di risolvere i problemi interpretativi della meccanica quantistica provando a ridurrla a nient'altro che una teoria statistico-probabilistica.
Dico subito che non la considero una soluzione soddisfaciente. E il motivo e' abbastanza fondamentale: secondo questo approccio la meccanica quantistica non sarebbe altro che una teoria dell'informazione probabilistica "sui possibili risultati dei nostri interventi sperimentali sulla natura". E' chiaro, cioe', che resta vittima della dipendenza da una descrizione classica del mondo, rinunciando subito ad una qualche descrizione della natura.
Non si puo' negare, pero', che questo approccio evidenzia delle proprieta' sottili della meccanica quantistica, e dunque offre spunti per una cmprensione piu' profonda. E' interessante innanzitutto
l'approccio di tipo formale ad una teoria della probabilita', evidenziando a quali assiomi (essenzialmente uno) e' possibile ricondurre le differenze fra una teoria della probabilita' classica e una che, volendo non chiamare "quantistica", potremmo dire complessa, (nel senso dei numeri complessi), o "per ampiezze di probabilita'". In particolare sembra molto convincente l'interpretazione in termini di pura teoria probabilistica dell'informazine che viene data ai fenomeni di entanglement, essenzialmente ridotti a naturali applicazioni del teorema di Bayes sulla probabilita' condizionata.
Insomma: letture consigliate solo per chi e' davvero interessato alle problematiche dell'interpretazione della meccanica quantistica.