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28 July 2007

La dimensione trasversa di un fotone
ovvero
Domande sbagliate


Ma uno specchio semitrasparente e' davvero omogeneamente semiriflettente, oppure il suo comportamento e' il risultato macroscopico di una struttura microscopica composta da parti riflettenti e parti trasparenti? In questo secondo caso, qual e' la dimensione di queste micro-regioni riflettenti/trasparenti? Soprattutto rispetto ai fotoni incidenti: e' piu' grande, piu' piccola o del suo stesso ordine di grandezza? A proposito: ma quant e' grosso un fotone? qual e' la sua tipica dimensione trasversa? Sarebbe possibile "puntare" ogni fotone su una singola zona riflettente/trasparente, cambiando il comportamente macroscopico dello specchio semiriflettente?
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Allora: quanto e' largo un fotone? Quanto e' lungo lo sappiamo, o almeno crediamo di saperlo, visto che ci insegnano presto la dualita' di Fourier k↔x, da cui verrebbe fuori che un fotone di frequenza fissata dev'essere "infinitamente lungo". Ma trasversalmente, quanto occupa?
Un primo elemento di confusione e' dato dall'idea che esista il fotone. No, no, certo, non voglio dire che non esistono fotoni, voglio dire che non esiste il fotone. L'equazione E=hv non significa che se voi specificate una frequenza v avete descritto un fotone di quella frequenza. La quantizzazione sta nell'interazione (con la materia), nell'energia (E, appunto pari ad hv) scambiata. Finche' non abbiamo interazione, non esiste alcun fotone, e abbiamo solo normalissime onde elettromagnetiche. Un laser a frequenza v impostato con un'intensita' cosi' bassa da emettere un'energia E=hv nell'arco di 24 ore, genererebbe un'onda piana per tutto il tempo per cui viene lasciato acceso, solo che avremmo una probabilita' di "vedere" il fotone sullo (l'interazione di quell'onda piana con lo) schermo, solamente, in media, una volta al giorno. Una sorgente puntiforme a simmetria sferica genererebbe un'onda sferica che si propaga in tutti e quattro i pigrechi di angolo solido, anche se poi magari l'interazione avviene in un punto particolare (col quale, siamo soliti dire, la sorgente ha scambiato un fotone...).
Chiarito questo, possiamo dimenticarci completamente la parola fotone e pensare direttamente in termini di onde: quanto posso "stringere" un'onda, nella sua dimensione trasversa? Il modo piu' semplice e naturale per generare un'onda "stretta" e' quello di usare una fenditura con cui "filtrare" un'onda piana piu' estesa. Ma... Esatto: nonappena avremo ridotto le dimensioni della fenditura all'ordine di grandezza della lunghezza d'onda dell'onda, i fenomeni di diffrazione allargherebbero l'onda uscente essenzialmente ad onda sferica!
In pratica possiamo parlare di fascio solo se la sua dimensione trasversa e' molto maggiore della lunghezza d'onda. Di fatto, anche il fascio sara' "sbrodolato" (diffratto) ai bordi, per il principio di Huygens e dunque potremo continuare a parlare di fascio proprio nella misura in cui: 1) la sua dimensione trasversa e' tanto maggiore della lunghezza d'onda (e quindi dell'entita' dei fenomeni di diffrazione); 2) siamo interessati a fenomeni che accadono "lontano dai bordi". Ovunque abbia senso parlare di "fascio", l'onda e' da considerarsi onda piana. Quindi, a voler insistere con la domanda "quanto e' larga un'onda", la risposta meno inappropriata sarebbe infinitamente larga.
Ma a ben pensarci, tutto si tiene: qualsiasi meccanismo di riflessione/trasmissione richiede proprio l'interazione di fronti d'onda piani (infinitamente "larghi") con la superficie di separazione di due mezzi di trasmissione dell'onda. E la superficie deve proprio essere del tutto omogenea e infinitamente estesa perche' le fasi dell'onda non si incasinino e possa effettivamente riemergere un'onda, riflessa o trasmessa. Se non lo fosse, se presentasse disomogeneita' grandi fino all'ordine della lunghezza d'onda incidente, le fasi si scombinerebbero e non avremmo piu' un'onda piana (diffusione) o, se le disomogeneita' sono "regolari", la loro regolarita' resterebbe impressa nel ricombinamento delle fasi dell'onda, e avremmo, ad esempio, un reticolo di diffrazione. Il fatto che, concretamente, non siano infiniti ne' i fronti d'onda ne' le superfici di separazione, significa semplicemente che il fenomeno di riflessione/trasmissione avverra' nei limiti in cui siamo lontani dai bordi, tanto dei fronti d'onda quanto delle superfici.
La domanda iniziale, dunque, sull'omogeneita' della composizione di uno specchio semiriflettente, non puo' che avere risposta positiva. Qualsiasi sia il meccanismo di semiriflessione, si trattera' essenzialmente di un gioco di superfici piane di separazione fra, ad esempio, l'aria e il vetro, capaci di generare, a partire da un fronte d'onda incidente, due fronti d'onda, uno in riflessione e uno in trasmissione.
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Come avrete probabilmente intuito sin dall'inizio, la domanda (molto stupida, a posteriori) con cui sono partito nasceva dall'ennesimo ripensamento agli esperimenti "pazzi" della meccanica quantistica, in cui si mettono in evidenza i comportamenti di entangling o di autointerferenza di fotoni o addirittura di elettroni. L'esperimento consiste tipicamente nell'evidenziare fenomeni di interferenza di un fascio (di fotoni o particelle come elettroni o neutroni) che passa per due fenditure ravvicinate o viene diviso da, appunto, uno specchio semitrasparente. Il dubbio sullo specchio nasceva dal solito irresistibile tentantivo di immaginare nei dettagli (e spesso in termini particellari) quello che succede, e dall'ingenuo dubbio che, chissa', forse il fotone non si "divideva" davvero nello specchio, ma veniva riflesso o trasmesso solo "statisticamente", a meta', ma di volta in volta "interamente". Ovviamente, invece, la cosa essenziale e' proprio che le onde emergenti (dalle due fenditure o sui due percorsi a seguire dello specchio semitrasparente) siano perfettamente in fase, figlie dirette dell'unica onda incidente. E, di nuovo, finche' si parla di onde tutto puo' avere il suo senso: le fasi che si ricombinano, da una parte c'e' interferenza distruttiva, dall'altra costruttiva, et cetera et cetera. Il problema e' che poi le "interazioni", le "misure" sono quantizzate, avvengono "puntualmente". E si ricade nel tentativo frustrante di immaginare quegli stessi quanti lungo tutto il percorso che ha portato all'interazione: l'elettrone da che fenditura e' passato? il fotone ha "interferito con se stesso"?
Da questo punto di vista, l'interpretazione transazionale della meccanica quantistica, proposta da Cramer nel 1986, offre una soluzione apparentemente soddisfacente. Tirando in ballo le onde anticipate e la loro propagazione "indietro nel tempo", trova una giustificazione al fatto che, ad esempio, il fotone di un'onda sferica si sia diretto proprio verso il punto in cui, a posteriori, c'e' stata l'interazione. Purtroppo pero' anche questa interpretazione fallisce dove inesorabilmente falliscono tutte: nella descrizione del collasso della funzione d'onda. Come mi aveva fatto notare Gigi (facendo collassare tutto il mio ingenuo entusiasmo sull'interpretazione di Cramer), la domanda cruciale e' quando avviene il collasso? In qualsiasi esperimento possiamo sempre spostare a piacimento il confine fra cio' che e' quantistico (il sistema, in cui tutto e' questione di funzioni d'onda, evoluzione deterministica e continua, senza salti ne' collassi) e cosa no (l'apparato di misura, che invece restituisce risultati discreti, stocastici e irrispettosi dei limiti di Bell). E a questa domanda, su dove avvenga il collasso, se avvenga davvero... neanche l'interpretazione di Cramer da una risposta.
Forse perche' continuamo a farci, da ottant'anni a questa parte, la domanda sbagliata.
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Oltre al gia' citato Gigi, questo post deve in qualche modo la sua esistenza anche a Federico. Le domande sbagliate sono infatte quelle a cui abbiamo cercato di rispondere in una piacevole discussione avvenuta ormai tanto tempo fa in uno dei mille viaggi Ginevra-Milano. Tutta la prima parte del post, in qualche modo, ne e' una trascrizione o, meglio, una riduzione.