17 March 2013

Democrazia /5 [era: La democrazia per la scienza]

Scopro più o meno per caso Infinite forme bellissime e meravigliose, blog fresco di nascita, su cui mi capita subito di leggere, in maniera del tutto scorrelata ma perfettamente in scia con gli ultimi miei post, che ci sarebbe una evidente e profonda differenza fra democrazia e dittatura della maggioranza. Ma forse il caso è solo apparente, perché il pretesto di quel post è lo stesso da cui era partito questo mio thread, ovvero il ruolo della democrazia per la scienza; fatto sta che mi s'offre, senza nemmeno chiederla, una risposta alternativa a chi invece si richiamava alle costituzioni per scongiurare le prevaricazioni della maggioranza e poter continuare a difendere la democrazia.
Tale risposta alternativa, però, è completamente sott'intesa e, almeno per me, tutta da chiarire: quale sarebbe la differenza, per non confonderle, fra democrazia e dittatura della maggioranza?
Per scongiurare il più possibile il rischio di passare per troll mi impegno in tutta la diplomazia di cui sono capace e mi arrischio ad un commento in calce al post. La diplomazia funziona, il rischio troll sembra scongiurato e segue nei commenti un interessante confronto. Provo a tracciarne un riepilogo qui, in modo da tenerne traccia nel filone democrazia.
 
Dunque la difesa della democrazia, in questo caso, prenderebbe la via della condivisione (chissà cosa sarebbe venuto fuori ad approfondire il tema della consapevolezza...). Obscura per obscuriora, per quanto mi riguardava, nonostante tale differenza venisse giudicata lampante da chi scriveva. Chiarito che il senso non era, banalmente, quello di maggioranza allargata, il più ampia possibile, emerge il concetto di "bene comune" come linea guida: le scelte veramente democratiche sarebbero quelle condivise nel senso di orientate al bene comune e non di una sola parte, fosse anche la maggioranza.
 
Tesi estremamente interessante, se non altro perché potrebbe essere il senso implicito di molte difese della democrazia, più di quello della costituzione di cui dicevo nell'altro post.
 
Esisterebbe dunque un criterio indipendente, rispetto a quello del voto, per giudicare la bontà (democraticità?) di una scelta politica: il bene comune.
Noto subito che, anche in questo caso, la difesa della democrazia passa attraverso il forte ridimensionamento del meccanismo di voto come elemento caratterizzante. Nel caso dei "costituzionalisti" — lasciatemi chiamare così, in questo discorso, coloro che sottolineano l'importanza della costituzione per giudicare "difendibile" una democrazia — il ridimensionamento potrebbe essere considerato parziale, sottolineando che il voto resterebbe l'unico meccanismo decisionale legittimo, pur nei limiti costituzionali. Nel caso della democrazia "per il bene comune", invece, il meccanismo di voto viene spogliato anche della sua circoscritta autonomia e su ogni sua decisione pende il giudizio di dittatorialità qualora non sia perseguito il bene comune.
L'unico modo che mi viene in mente per salvare la caratterizzazione della democrazia, in questo caso, è quello di sostenere che il voto sia un meccanismo privilegiato per l'individuazione del bene comune: quello di sostenere, cioè, che il voto rappresenterebbe il miglior meccanismo decisionale capace di far procedere la società verso scelte "per il bene comune".
Non conosco argomenti a favore di una simile tesi che vadano al di là di una concezione ingenua del consorzio umano; al contrario, è stata elaborata un'intera branca dell'economia, che va sotto il nome di public choice theory (che ha dato il Nobel a diversi economisti, fra cui il recentemente scomparso James M. Buchanan), la quale mette in evidenza precisamente gli innumerevoli incentivi, inerentemente connaturati al processo decisionale democratico, che portano inevitabilmente a scelte di parte, che favoriscono minoranze ben organizzate a danno di maggiornze capaci di diluire il danno a tal punto da rendere sconveniente l'attività di lobbying per rimediare a quel danno. Niente di più lontano, cioè, da un meccanismo di avvicinamento al bene comune.
 
Questo ordine di obiezioni, à la public choice, attaccano proprio quel genere di difese della democrazia che si rifugiano nella distinzione fra sistemi democratici, in concreto, e la democrazia ideale, in astratto.
Ma c'è un livello ancora più profondo su cui si possono muovere critiche ad una tale prospettiva: un livello che si lascia alle spalle quello pragmatico in cui ci si chiede se la democrazia sia efficace o meno per raggiungere il bene comune, ed è quello in cui si mette in discussione il concetto stesso di bene comune.
Ebbene, la mia tesi, la tesi dei libertari, è che non sia possibile, non dico definire, ma nemmeno delineare, un concetto di bene comune che non sia, in realtà, espressione di parte. Le preferenze, le scale di valori, sono inevitabilmente soggettive — di più, la stessa persona può, e molto spesso lo fa, cambiare preferenze nel corso del tempo; di più ancora, la stessa persona, nello stesso momento, assegna valori diversi a beni identici (cfr. rivoluzione marginalista). Ma anche senza scomodare i fondamenti della teoria del valore, l'idea che si possa, a tavolino, stabilire cosa è meglio per tutti, anche in un senso debole, paretiano, del termine, è un presupposto ingenuo, non solo in astratto, in contesti filosofici di ricerca delle fondamenta, o analogamente in contesti economico-matematico (e.g. di teoria dei giochi) di definizioni assiomatiche, ma anche e soprattutto in contesti concreti di scelte politiche reali.
La mia tesi, la tesi dei libertari, è che bisognerebbe spogliarsi della pretesa di poter decidere, noi presunti sapienti, cosa è bene per tutti, ed imporlo; è che bisognerebbe lasciare ad ognuno la libertà di fare le proprie scelte, con l'unico limite della stessa medesima libertà altrui, ovvero con l'unico limite del diritto.

21 February 2013

Democrazia /4

Il tweet dello Smeriglia che vedete qui di lato mi offre la sponda per ribadire che la democrazia, se dobbiamo difenderla, dev'essere qualcosa di diverso dalla mera legge della maggioranza (ma ancora nessuno è riuscito a spiegarmi cosa sarebbe).
 
Ma non è di questo che volevo parlarvi in questo post.
Il vero spunto per tornare a parlare di democrazie mi viene da questo articolo (su uno dei blog) del Post, Come vincere le elezioni con la tv, che recensisce NO, un film candidato all'Oscar che racconta del referendum del 1988 in Cile contro Pinochet. Io non so niente di storia, prendo per buono quel che si racconta in quel pezzo. E la storia che si racconta è una storia strana. Si intuisce che dovrebbe avere una morale, o almeno vorrebbe, ma non si riesce a capire quale. Tifiamo, ovviamente, per l'opposizione al regime dittatoriale, ma restiamo spiazzati dalla strategia adottata. La TV, il suo ruolo di strumento di evasione, ancor più in circostanze in cui evadere sembra avere il sapore dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, ancor più per noi italiani, reduci da un ventennio che non è nemmeno chiaro se sia finito o meno... la TV come circo del duo panem et circenses, dicevamo, è un po' l'emblema del male.
E infatti ci sono critiche alla tesi del film, dicono che non sia stata la TV a decretare il successo del referendum, anche se molti oppositori di Pinochet, allora, si spesero contro la partecipazione al voto, quale implicita legittimazione al dittatore.
Insomma, alla fine c'è il lieto fine, nel senso del risultato del referendum, ma è un lieto fine anche per la televisione? è un lieto fine per la democrazia?
 
Eppure dal mio punto di vista, direi dal punto di vista del libertario, è piuttosto evidente che tutte queste contraddizioni nascono semplicemente dall'ostinazione a voler difendere la democrazia, il voto, come qualcosa di sacro e salvifico, capace, da sola, di garantire pace e giustizia. Se ci si rende conto, invece, che si tratta di un meccanismo perverso di prevaricazione, che quel po' di giustizia e libertà che le società occidentali hanno raggiunto, rispetto ad altre epoche e ad altri luoghi, non sono il mero frutto della democrazia, ma sopravvivono nonostante essa, allora tutte quelle contraddizioni evaporano. Una campagna televisiva in stile pubblicitario può davvero spostare enormi masse di voti indipendentemente dalla direzione in cui le muove: la perpetrazione di Berlusconi da una parte, l'esautorazione di Pinochet dall'altra; le persone votano per mille ragioni diverse, ma quasi mai le ragioni principali sono la giustizia e l'equità sociale.
 
Non vi è nulla di magico, di nuovo, nel meccanismo di voto popolare, capace, da solo, di condurre ad una società migliore.

12 February 2013

Darwin Day

Quasi fuori tempo massimo, provo ad insistere nel tenere in vita la tradizione del Darwin Day, del tutto simbolicamente, limitandomi a qualche link.
E ho gioco facile, perché mi basta prendere come riferimento l'ottava edizione del carnevale della Fiera della biodiversità (secondo me in questi contesti il termine carnival non andava tradotto con carnevale...), questa volta ospitato dal Leucophaea di Marco Ferrari. Il quale, per l'occasione, firma anche un pezzo su Query Online, Ci stiamo evolvendo? che riprende proprio il tema di uno dei miei peraltro pochissimi post per il vecchio e ormai defunto progetto galileo, L’evoluzione dell’uomo si è fermata. Ma perchè, dove stava andando?.
In realtà di quest'ultima fiera della biodiversità non ho ancora fatto in tempo a leggere quasi niente, se non il contributo di Danilo Avi C’è più di un modo di essere su un’isola e i primi paragrafi del contributo di tupaia, Orribile insetto gigante risuscitato cerca casa accogliente (Dryococelus australis); ma potete precedermi sulla fiducia.

03 February 2013

Democrazia /3

Riprendo con questo post la discussione nei commenti al post precedente, riportando in particolare il mio personale percorso di lettura come risposta alla richiesta di Cristian di una possibile bibliografia d'attacco alle tematiche libertarie.
 
Essenzialmente ci sono due fronti su cui ci si può affacciare al tema: quello economico, da una parte, e dall'altra quello più propriamente etico e politico.
 
Sul fronte economico io sono partito con l'Economics for Real People di Callahan (se hai un ebook-reader, c'è anche una versione in PDF messa a disposizione dal Mises Institute), ed è stato in discesa sin dall'inizio. L'economia, secondo me, non è un fronte "caldo", non ci sono grossi pregiudizi da abbattere, c'è solo il grande vuoto di uno schema interpretativo coerente, capace di inquadrare quelli che altrimenti restano tanti modellini matematici più o meno scorrelati. La scuola austriaca provvede precisamente a questo, e il libro di Callahan ne costituisce una semplice introduzione, estremamente didattica. Proprio poco prima di Callahan avevo letto L'economista mascherato di Tim Harford — su suggerimento di Bressanini — e l'avevo trovato molto bello, esattamente come dice Dario. Ma dopo aver letto Callahan ti accorgi della differenza siderale: da una parte L'economista mascherato non ti lascia niente se non una serie di aneddoti e di spiegazioni di qualche meccanismo peraltro molto interessante (uno per tutti, il self pricing); dall'altra Callahan ti lascia uno schema interpretativo: la stessa differenza che c'è fra il donare pesci e l'insegnare a pescare.
 
L'altro fronte è senza dubbio il più delicato, e intraprenderlo sarà certamente un'esperienza tormentata (per questo il mio consiglio è comunque quello di partire con Callahan). Il problema, per quel che mi riguarda, è duplice: sia in astratto (la prospettiva è profondamente stravolta, i luoghi comuni da abbattere sono tanti e così radicati da non riuscire spesso nemmeno a riconoscerli come tali) che in concreto (non ho da suggerirti testi cristallini, con tesi condivisibili al 100% esposte con argomentazioni semplici e lineari).
I libri che hanno fatto seguito a Callahan sono quelli di Rothbard, L'etica della libertà e Per una nuova libertà, e quello di David Friedman L'ingranaggio della libertà (li ho tutti letti in prestito, ma di quest'ultimo di Friedman ne ho una copia che posso prestarti molto volentieri).
L'atteggiamento da mantenere è un po' quello di prepararsi ad assistere ad un attacco di sfondamento, mettendo in conto tutta la sua rozzezza. In particolare non dovrai pensare di trovarti davanti a dei trattati scientifici (né tantomeno al credo di una religione) con l'idea che si debba necessariamente accettare tutto in blocco e che dunque sia sufficiente il primo disaccordo per poter buttare all'aria tutto quanto.
Non lo ripeterò mai abbastanza: sono libri da costringersi con la forza a proseguire nella lettura; a partire dallo stile: sono opere scritte più di 30-40 anni fa, e certamente è un aspetto che si fa sentire. Ma anche nel merito delle questioni, spesso avrei da ridire — ancora adesso — sia sui metodi che sulle tesi. Tanto per dire: tutta la prima parte sul diritto naturale nelL'etica della libertà è piena, secondo me, di molte ingenuità a livello filosofico nella difesa del giusnaturalismo: anche qui, come in economia, partivo come una tabula rasa e ho dovuto integrare quei capitoli con le pagine di wikipedia sul positivismo giuridico (e lunghissime chiacchierate col mio amico-mentore) per inquadrare meglio il dibattito sul diritto e scoprire (molto, molto dopo) che sì, la posizione giusnaturalista, in fondo, è la mia, anche se certamente non per le ragioni descritte da Rothbard.
Ancora, non ricordo bene dove, Rothbard mantiene una posizione a difesa del diritto d'autore che non mi convince affatto.
E insomma, come dicevo, al di là delle varie tesi che si incontrano nel percorso, l'importanza di questi saggi è nell'usarli come arieti rispetto ai pregiudizi della "religione-stato" di cui non siamo nemmeno consapevoli di essere adepti. La loro importanza risiede soprattutto nel fatto che in essi vengono delineati degli scenari sociali che non devono necessariamente essere presi come l'unica alternativa ad una società democratica, ma che vanno considerati come la semplice dimostrazione che lo Stato non è l'unica possibilità: mi riferisco a tutte quelle cose — polizia, tribunali, giustizia, leggi — che non siamo nemmeno in grado di concepire senza uno Stato (o un dittatore). E l'effetto dirompente di queste letture non è tanto nel presentarci, in astratto, un concetto di diritto svincolato dall'istituzione statale, quanto proprio quello di mostrarci, concretamente, come potrebbe configurarsi, in maniera del tutto plausibile e consistente, una società in cui convivono diversi tribunali, diverse corti di giustizia, diversi copri di polizia, o agenzie di sicurezza, capaci non solo di catalizzare una convivenza sociale pacifica e una pacifica risoluzione dei conflitti, ma addirittura di offrire una di gran lunga maggiore (rispetto al caso democratico) garanzia per quei "deboli" di cui tanto spesso lo Stato si presenta, con grande illusione, come unico possibile difensore.

06 January 2013

Democrazia /2 [era: La democrazia per la scienza]

A volte commentare per iscritto in calce ad un post richiede più iniziativa, oltre che tempo e pazienza, che farlo a voce, en passant.
Sulla questione della democrazia, in particolare, ho avuto uno scambio di battute veloce (davanti ad una macchinetta del caffé, non davanti ad una birra).
Provo ad estrarne gli elementi più interessanti, senza pretendere di restare fedele alle posizioni, ché del resto non v'erano, chiare, delle posizioni.
In sintesi, si sollevava l'obiezione che la concezione di democrazia che attaccavo nel mio post fosse un po' un fantoccio argomentativo, perché — diamine! — era ovvio che non si potessero chiamare democrazia delle semplici decisioni prese a maggioranza, chessò (esempio tipico libertario, ma giuro che non l'ho tirato fuori io...!), di uccidere tutti gli appartenenti ad un'arbitraria minoranza.
E per fortuna!
Per fortuna delle minoranze, ovviamente, ma per fortuna anche della conversazione, perché con quell'osservazione aveva messo il dito precisamente nella piaga del concetto di democrazia: se non è la volontà della maggioranza a caratterizzare (e dare fondamento morale) alla democrazia... cosa lo è?
Il discorso, un po' confuso anche perché necessariamente breve per le contingenze dell'occasione, ha visto nominare il termine "costituzione" (che evidentemente fluttuava già nell'aria per via di recenti palinsesti della TV di stato), ma senza i lineamenti di un'argomentazione.
Personalmente, a voler difendere la "causa" della democrazia, avrei pronte delle riflessioni, i cui princìpî di base potrebbero essere racchiusi nella sfera semantica del termine "giusnaturalismo", ma — ovviamente col senno di poi — portano dritte dritte ad una società libertaria, non certamente "democratica".
Mi piacerebbe tanto, perciò, sentire voi, se avrete la pazienza, il tempo e l'iniziativa di commentare per iscritto: come vi muovereste da qui? riuscireste a tornare saldi sul concetto di democrazia? prendereste un'altra direzione? quale?

04 January 2013

back OLD YouTube!

Da un po' di tempo, non saprei dire bene da quando precisamente, YouTube ha cambiato interfaccia, peggiorando in maniera evidente la fruizione dei video di una playlist: prima la sequenza di video compariva in una banda orizzontale nella parte inferiore della pagina, permettendo di tenere sotto controllo la sequenza dei video della playlist; ora per poter accedere all'elenco dei video della playlist durante la riproduzione è necessario interagire all'interno della finestra del video in maniera estremamente poco pratica.
E poiché il mio uso principale di youtube è come player musicale di sottonfondo, capirete la seccatura.
Insperabilmente, attraverso un procedimento molto poco chiaro (perché mai hanno lasciato che un cookie fosse in grado di ripristinare la vecchia interfaccia? per quanto ancora questo trucco funzionerà? forse se molta gente metterà in pratica questo stratagemma, torneranno sui loro passi?) è possibile "tornare indietro" (quasi).
Una spiegazione passo-passo la si può trovare in questo video: How to Revert to the Old User Interface on Youtube (se non amo i podcast, non avete idea di quanto odî i vocast: perché mai dovrei perdere minuti e minuti davanti ad un video che cerca di spiegarmi qualcosa che impiegherei poche decine di secondi a leggere?), il succo è spiegato nella descrizione in calce a quello stesso video e consiste nell'impostare un particolare cookie.
Ho detto "quasi" perché ci sono alcuni glitch grafici non poco fastidiosi ma tutto sommato accettabili, di fronte all'alternativa della nuova interfaccia.
C'è anche uno userscript, I Want My Old YouTube Back ! (sic) che automatizza il tutto.
Se per caso vi pentiste del ritorno al passato e voleste tornare all'interfaccia corrente, mi sono preso la briga di creare uno script per ripristinare il valore di quel cookie: forth NEW YouTube!: in pratica è sufficiente scaricare quest'ultimo script e il suo speculare, back OLD YouTube!, ed abilitarne uno solo alla volta (altrimenti caricando una pagina di youtube si rischia di entrare in un loop di reload...) per poter decidere al volo quale interfaccia utilizzare.
Enjoy!

22 December 2012

La democrazia per la scienza

(Un altro post verosimilmente rubato a fabristol)
Questo recente post di Amedeo Balbi, Geek di tutto il mondo, unitevi! rappresenta una straordinaria cartina tornasole capace di mettere in evidenza quanto sia cambiata la mia prospettiva col libertarismo.
 
Qualche anno fa avrei condiviso ogni singola virgola di quel post, avrei partecipato totalmente al suo sentimento di indignazione e di sconforto e di impotenza nel rendersi conto una volta di più di quale accozzaglia di ignoranza e incompetenza fosse composta la nostra classe dirigente.
Qualche anno fa sarei entrato nel merito della discussione. Oggi mi rendo conto — non riesco a capacitarmi di come si possa non rendersi conto — che è il gioco stesso ad essere perverso.
Per restare nell'ambito del post di Balbi sulle politiche per la ricerca scientifica, anche assumendo un'indiscutibile competenza della classe politica, è davvero così ovvio che esistano risposte oggettive a tali questioni? Chessò, se sia meglio Marte o Titano?? Se sia il caso o meno di finanziare ancora per altri 40 anni la ricerca in teoria delle stringhe? E mi sono volutamente tenuto alla larga da temi "scottanti" come l'evoluzione, i cambiamenti climatici o le medicine alternative.
 
Qualche anno fa mi sarei schierato senza tema di errore a fianco di quelli come Balbi. Oggi mi rendo conto — non riesco a capacitarmi di come si possa non rendersi conto — di quale sia la contraddizione insita in una tale posizione.
Da una parte, infatti, siamo nel bel mezzo di un tipico processo di discussione democratica, da parte dell'elettore, delle politiche che i suoi rappresentanti eletti saranno chiamati a realizzare; dall'altra, quello stesso processo di discussione democratica viene implicitamente disdegnato, difendendo elitariamente un proprio punto di vista come migliore: l'argomento a favore di determinate politiche (per la ricerca scientifica), infatti, non si basa su un presunto principio democratico — "ah, questi politici, che non fanno quello che vuole la gente!" — ma su una presunta oggettività della tesi, che purtuttavia si caratterizza come paradossale, nel senso etimologico del termine di contro l'opinione comune: "ah, questi politici, che se saranno votati dalla maggioranza non faranno quello che è giusto fare".
Parlar male della sinistra non significa voler difendere posizioni di destra (lungi da me, i libertari sono in alto), però questa contraddizione profonda pervade tutto il pensiero di sinistra, dando ragione del termine radical chic: da una parte la pretesa di avere la ricetta giusta, di sapere come si devono fare le cose, e dall'altra l'aver accettato il processo democratico del governo della maggioranza. Se credi che le cose debbano essere fatte in un certo modo e non in altri, l'aver accettato il metodo democratico dovrebbe essere vissuto come una limitazione, soprattutto in un ambito, come quello della ricerca scientifica, in cui stai esplicitamente dichiarando che la maggior parte delle persone non sa cosa sarebbe meglio fare (giusto per ribadire che non voglio difendere posizioni di destra, questi ultimi non vivono questa contraddizione… semplicemente perché tipicamente ammettono senza troppe remore la propria indole assolutista e la predilezione per metodi autoritari).
Del resto si tratta di una contraddizione intrinseca di qualsiasi "dibattito" democratico: non puoi pensare che la politica giusta sia quella scelta dalla maggioranza e, contemporaneamente, che tale maggioranza non sappia quale sia la politica giusta — e tu debba istruirla a tal proposito.
 
E l'ambito scientifico da cui sono partito è solo il caso particolare di una condizione del tutto generale. E' precisamente la stessa contraddizione che si sta palesando, in maniera più stridente che "nei periodi normali", in questi tempi di grillismo e antipolitica. Quel sentimento radical chic di Balbi per le competenze scientifiche dei politici (ma sia chiaro, il libertarismo non ha cambiato la mia immagine scientifica del mondo, e ovviamente sono d'accordissimo con lui nel giudicare come rozze le competenze scientifiche dei politici, ma non è di questo che stiamo parlando) è lo stesso di coloro che criticano Grillo e il suo populismo (e, ugualmente, sia chiaro che non voglio qui minimamente difendere le più che variegate posizioni di Grillo). La democrazia è questo: governo della maggioranza (che sarebbe meglio chiamare minoranza meglio organizzata), che con la scusa dell'aver avuto il più dei voti si auto-giustifica nella prevaricazione sulle varie minoranze (che insieme sono la maggioranza meno organizzata).
Nei giorni scorsi di primarie del PD e parlamentarie di Grillo, la contraddizione era stridente e perforante, ovunque si leggesse. Riporto un solo link fra mille, un po' a caso, a mo' di casalinga di Voghera del web: il suo discorso gira completamente a vuoto, criticando le scelte dei candidati "dall'alto", "di partito", che sarebbero appunto per questo "non democratiche", ma allo stesso tempo criticando i modi di Grillo, cercando qualche ragione per poter dichiarare anch'essi "non democratici": perché non ci sarebbe un programma su cui l'elettore dovrebbe basare la sua scelta (l'elettore, questa figura mitologica del saggio che tutto pondera e tutto considera prima di consacrare il proprio voto), perché non ci sarebbe garanzia sulle procedure (e se invece questa garanzia ci fosse stata, sarebbe bastato questo a garantire un esito diverso? più saggio? più competente?). Alla fine il dubbio gli viene ("davvero non vedo molte ragioni per dargli torto"), insieme alla convinzione che non ci siano vie di scampo.
Ma il dramma di tutto questo è che nessuno si rende conto che è proprio la democrazia, a non offrire scampo; che è il gioco stesso che porta al baratro.
Perché? Perché io stesso non me ne rendevo conto, fino a pochi anni fa?
Forse perché non si riescono ad immaginare alternative. Forse perché l'unica alternativa alla democrazia che si riesce ad immaginare è una dittatura: la democrazia non è perfetta, ma è il meno peggio che abbiamo, si sente dire con rassegnazione vestita di saggezza.
Come l'adepto di una religione, che non vede nient'altro che il proprio credo. La religione di stato.

20 December 2012

Lo spreco dell'acqua

Visto che nessuno mi ha (ancora) risposto sulla questione del sovracconsumo delle risorse della Terra, spinto da un analogo post sempre su oggiscienza, Il libro blu dello spreco in Italia: l’acqua, vi propongo un'altra domanda, su analoga questione, ma più specifica: il consumo, ma soprattutto il risparmio, d'acqua dolce.
Nel caso dell'acqua siamo di fronte ad una risorsa che non viene stoccata in quantità significative, e la sua "produzione" è determinata, stazionariamente, dal famoso ciclo dell'acqua. I "volumi di produzione" di tale ciclo sono certamente variabili e posso dunque capire le preoccupazioni di chi biasima pratiche che potrebbero alterarne, al ribasso, i ritmi di produzione. Non mi vengono in mente esempi concreti di tali pratiche, ma le variabili da cui dipende il ciclo dell'acqua (in una determinata regione geografica) direi che ricadono in ambito atmosferico, climatico, orografico persino, ma certamente non nell'ambito del ritmo di consumo dell'acqua stessa. A meno, certo, del caso estremo in cui i livelli di consumo siano tali da esaurire l'intero volume di produzione locale: sto pensando a condizioni di siccità.
Ecco, le condizioni di siccità mettono in luce le contraddizioni che vedevo nel concetto di sovracconsumo: nel caso dell'acqua è evidente che non è possibile consumarne più di quanta ne venga prodotta, al massimo si può esaurirne la disponibilità ed eventualmente ci si può preoccupare della sua distribuzione. In caso di siccità del Po, in un esempio ipotetico, avrebbe senso preoccuparsi che se a Piacenza il consumo d'acqua dovesse essere troppo elevato, a Cremona potrebbero rimanerne senza.
Ma, e vengo finalmente al punto di questo post, se non ci troviamo in condizioni di siccità, il ritmo di utilizzo dell'acqua non mi pare possa incidere sul suo ritmo di produzione. Alla fine, per restare nell'esempio stilizzato di prima, tutta l'acqua del Po va finire in Adriatico, compresa quella che "risparmiamo" quando chiudiamo il rubinetto mentre ci insaponiamo o ci spazzoliamo i denti. L'invito che viene ripetuto a contenere il consumo dell'acqua, anche nelle stagioni umide, mi sembra del tutto analogo a quella storiella per bambini inappetenti che vengono esortati a finire la pappa... perché ci sono bambini poveri che non hanno niente da mangiare: tutto quello che "risparmiamo" sul cibo, che non "sprechiamo", non viene affatto, per il fatto stesso di non essere consumato, convogliato verso l'Africa subsahariana! Allo stesso modo, se non siamo in periodo di siccità, tutta l'acqua che non consumiamo... va semplicemente a finire in mare!
O no? Questa volta è forse più facile smascherare l'errore del mio ragionamento?

15 December 2012

E perché allora il cielo non è viola?

Ah! Io, io, io! Questa la so!
La risposta è: perché non esistono frequenze viola!
 
Per amor di precisione provo a ripescare le fonti che avevo letto ormai molto tempo fa, ai tempi delle api e di compiz, ma mi ritrovo, di nuovo, naufrago tra altre pagine di wikipedia che non conoscevo... e 'l naufragar m'è dolce!
 
Innanzitutto trovo conferma, credo, che lo spettro visibile va dal rosso al blu senza passare dal viola (su internet troverete un sacco di gradienti cromatici in cui compare il viola al di là del il blu, ma photoshop non è una fonte affidabile: se si cercano foto, e non immagini sintetiche, il viola non si vede — cfr. ad esempio , qui, qui o qui).
 
Però, vabbé, il termine violetto è ambiguo, e alcuni, in taluni contesti, io credo, intendono con esso riferirsi ad una specie di indaco, a quel profondo blu che starebbe ancora più in là del blu dello spettro. Perché non è che io sia proprio convinto che davvero, al limite del visibile, al blu si aggiunga una qualche pur debole tonalità di rosso: però non riesco a trovare in rete riferimenti autorevoli né in un senso, né nell'altro. Il dubbio, chiaramente, è che magari, chissà, la curva di sensibilità del cono "L", quello col picco di sensibilità più spostato verso le lunghezze d'onda più lunghe (rosse), abbia una qualche pur piccola gobbetta dalle parti delle onde più corte (blu) dove ha il suo picco di sensibilità il cono "S", in modo da dare, appunto, un tocco di rosso al blu più profondo. Non sono l'unico ad aver avanzato questa "spiegazione" del violetto spettrale oltre il blu: vedi ad esempio questa discussione su wikipedia, e in effetti si trovano in rete delle curve di sensibilità dei tre coni delle più varie (cfr. ad esempio quella della discussione citata prima; quest'altra, sempre da wikipedia, in cui c'è anche la sensibilità dei bastoncelli; questa, che invece di normalizzare sul picco, normalizza sull'area; quest'altra ancora, che sembrerebbe non-normalizzata; quest'altra ancora, anch'essa non-normalizzata e con in più addirittura una scala sull'asse delle ordinate, anche se manca l'unità di misura, e chissà se è lineare o logaritmica; questa, che in tutta la sua bruttezza mette bene in evidenza l'ipotetico sotto-picco del cono "L" nelle frequenze alte... e insomma, ce n'è per tutti i gusti). Però, dicevo, dalle foto "reali" dello spettro cromatico si potrebbe ben dedurre che di rosso non ce ne sia, su quel lato dell'arcobaleno.
 
Del resto io l'avevo ben imparato, ai tempi delle api e di compiz: il viola giace sul lato dritto del diagramma di cromaticità, quello a cui non corrisponde alcuna luce monocromatica: quei colori, cioè, che anche nella loro versione saturata (sulla linea, appunto, e non all'interno del diagramma), corrispondono necessariamente ad una sovrapposizione di frequenze blu e rosse.
Del resto io le avevo ben colte, ai tempi delle api e di compiz, le basi della visione dei colori: i tre tipi di coni — rosso, verde e blu — come tre dimensioni dello spazio di cromaticità, e ogni sfumatura di colore come un punto in quello spazio, individuato da(l logaritmo de)ll'intensità di eccitazione di ciascun tipo di coni. Perfetta corrispondenza con la rappresentazione cromatica nei monitor — dai vecchi tubi a raggi catodici, ai pannelli a cristalli liquidi, al plasma, o a LED — e di conseguenza nelle varie codifiche digitali, RGB per tutte.
Ecco, teoria tricromatica si chiama, e fu elaborata, leggo su wikipedia, nella prima metà del IX secolo da questi Thomas Young e Hermann von Helmholtz.
 
Se non fosse che ora, sempre su wikipedia, ho scoperto che si tratta solo della prima parte della storia, perché nella seconda metà di quello stesso secolo Ewald Hering elaborava la sua teoria dei colori complementari che, sebbene concepita come ipotesi alternativa alla teoria tricromatica, oggi trova fondamento nella moderna neurofisiologia. Questa infatti ha messo in luce processi di elaborazione dell'informazione visiva ulteriori rispetto al dato primario del livello di stimolazione dei tre tipi di coni, che si sono rivelati precisamente come i meccanismi biologici funzionali alla base della fenomenologia che Hering aveva individuato nella visione umana.
Volendo semplificare molto, l'elaborazione dell'informazione cromatica non si limita a considerare il livello di stimolazione dei diversi tipi di coni, ma anche le loro differenze: e del resto, a posteriori, chiamare i coni "M" e "L" rispettivamente "cono del verde" e "cono del rosso" è evidentemente una semplificazione eccessiva, visto che i loro picchi sono molto vicini fra di loro e in particolare il picco del cono "L" cade praticamente in quello che chiamiamo giallo, lasciando quello che chiamiamo rosso all'estremità dello spettro e della sua stessa coda di sensibilità.
Questa elaborazione del segnale di stimolazione dei coni in termini di differenza di intensità avviene già a livello della retina, dalle cellule bipolari alle cellule gangliari, le quali reagiscono da una parte alla differenza di stimolazione fra i coni "M" e "L" (la contrapposizione di Hering fra verde e rosso) e dall'altra alla differenza di stimolazione fra i coni "S" e una combinazione della stimolazione dei coni "M" e "L" (la contrapposizione di Hering fra blu e giallo).
Non starò a riassumere tutto quello che ho scoperto: un bel compendio lo si può trovare nel PDF delle slide del corso di Sistemi Intelligenti Naturali e Artificiali del LIRA-Lab, Laboratory for Integrated Advanced Robotics, dell'Università di Genova — wow!
Mi limiterò ad accennarvi al fatto che mi sono ritrovato a leggere di cose suggestive e immaginifiche come l'effetto Purkinje, di colori impossibili o proibiti e di colori immaginari, che no, non sono il grue e il bleen di Goodman, ma il not-brown reddish green o il not-green bluish yellow...

03 December 2012

Why is local symmetry called 'gauge' symmetry in quantum field theory?

What follows is the English version of a recent post of mine in Italian, Le teorie di calibro di Weyl, aimed at reaching a larger audience for the answer to the question in the title, which seems to be quite an unknown issue, albeit an unimportant one, at least from the physics point of view.
But then I stumbled upon the Thanksgiving 2012 post of Sean Carroll, where you can read:
[...] it’s called a gauge field, because Hermann Weyl introduced an (unhelpful) analogy with the “gauge” measuring the distance between rails on railroad tracks.
and the fact that Sean is certainly a non-average physicist leads me to believe that it may not only be just an unknown matter, but a misknown one: I don't know where Sean read about the gauge as a metaphor for the rails distance, but the story is quite different from that — and by far more interesting.
My original post was intended as a summary of an issue I already pointed out here and there in the comments section of different blogs (all of them in italian). I can't remember for sure where I read of it, most probabily in the Gravitation book, but it is not such a mystery since the wikipedia page on gauge theory, both in English and in Italian, says all, and even more, what I know about it.
 
A starting point can be the question of which was, historically, the very first gauge theory. Such a question mixes up words and meanings, so the answer needs to clarify.
For sure the Maxwell's classical electrodynamics is the oldest theory among the ones we nowadays say they have a gauge symmetry, but at the time of Maxwell the term "gauge symmetry" was unknown and such a symmetry was actually intended as a mere redundancy of the potentials fields with respect to the physical fields.
The theory that for the first time was expressed in term of a local symmetry is General Relativity. But, again, not when it was first presented by Einstein, where the now-we-know-is-a gauge symmetry was just stated as the Principle of general covariance, i.e. as a coordinate change invariance.
 
Entering Weyl.
 
The gauge story begun when he recast Einstein's General Relativity using a different but equivalent formalism, according to which the principle of general covariance can be seen as the invariance of the theory under an arbitray local rotation of the tetrad, the base of the tangent bundle vector space.
But even here the term gauge was not introduced yet.
Eventually it was introduced a moment later, by Weyl of course, while trying to extend his tetrads formalism. The idea was to require the theory to be invariant under an arbitrary local change not only in the tetrad orientation, but also in its scale factor. Such a new symmetry was supposed to generate the Maxwell equations for the electromagnetic four-potential, in the very same way in which the tetrad orientation symmetry generates the Einstein equations for the gravitational field. This is why Weyl introduced the name gauge for such a symmetry, the scale factor being the "size" of the base's vectors as measured by a gauge (and no railroad analogy was involved).
Unfortunately, such an attempt didn't work in his original formulation. The idea behind was of great value though. It turned out, in fact, that electrodynamics could actually be represented as a local symmetry field theory: the two key points were to keep the idea of a rotational symmetry (like the one of the tetrads) and to give up the idea of a symmetry of the tangent bundle. The Maxwell four-potential, now we know, had to be seen as the Lie generator of a U(1) rotational symmetry of an additional "abstract" fiber bundle attached to the space-time manifold. More generally, all fundamental interactions are today understood as the effect of a symmetry each with respect to its own Lie group SU(3) × SU(2) × U(1). Despite the fact that no size nor scale was involved any more, the name gauge got stuck to all such a local symmetry field theories.
 
But our story has much more than just historical and etymological lesson to be learned.
 
Usually in quantum field theory lectures the gauge symmetry idea is presentes as an upgrading procedure from a global symmetry to a local one. The prototypical example is the phase e of the wave function, which is assigned a space dependence eiφ(x) to. The power of such extension is clear, since this requirement is just enough, alone, to get the Maxwell electrodynamics equations, via minimal coupling.
But anyway such a recipe seems to come out of the blue: why should we devise such a point-to-point change of phase symmetry? Moreover, such a requirement is usually intended as a stricter constraint to the theory, since the transformation class under which the theory should remain unchanged is wider. So what?
Well, the real thing behind "gauging the global symmetry" lies precisely in the reason which moved Weyl to formulate its gauge theory of electrodynamics, which in turns boils down to the principle of general covariance.
When Einstein requires that equations of physics should be invariant with respect to any coordinates change, he is actually requiring a stronger symmetry, compared the previous requirement that equations should be invariant under just inertial reference changes. But the meaning of such a requirement is definitely the very opposite of imposing a stricter constraint: the meaning is just to relax the constraint that physical law are valid just within a small, arbitrary subset of reference frames! In the very same sense, the requirement that a field theory should have a local symmetry has to be intended as the release of the constraint that the bases of the Lie algebra of the gauge group should be rigidly oriented everywhere.
Hence, just like the gravitational field is an inertial effect due to the "connection" (in the technical sense of differential geometry) between two point at a finite distance which are not reciprocally inertial, in the same way the electromagnetic field is a U(1)-inertial effect due to the connection between two point at a finite distance which have the algebra bases not aligned each other.

30 November 2012

   [9] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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(...continua)
§  La scuola austriaca
Con la scuola austriaca è tutt'un altro mondo, hai la genuina sensazione di comprensione: si parte da situazioni semplici e si acquisiscono principi e metodologie che appaiono subito come generali e facilmente applicabili in mille situazioni diverse. Di più, i vari pezzi combaciano perfettamente gli uni con gli altri a formare un quadro dotato di senso. Il che non significa, certamente, aver capito tutto subito, ma significa che per nuove situazioni sai individuare le variabili rilevanti, riesci a capire le direzioni in cui guardare per cercare una risposta, ma soprattutto sai giudicare cosa, invece, rappresenta un dettaglio del tutto irrilevante. Le situazioni reali restano involute, e ci mancherebbe, ma le interpretazioni austriache non si basano su modelli specifici, che assumono relazioni di causa-effetto semplici nonostante il contesto complesso; esse si basano su principi generali che valgono indipendentemente dai dettagli contingenti che invece sono il tipico oggetto di studio dei modelli economici mainstream.
 
Cosa dovremmo pensare, se non che non hanno capito nulla del processo evolutivo, di quei critici (della scientificità) dell'evoluzionismo che sfidassero a fare una previsione specifica su, chessò, quando precisamente quella tal specie cambierà qualche suo fenotipo, e quale, e come? Allo stesso modo le critiche alla teoria austriaca sulla sua mancanza di previsioni precise e falsificabili, sulla sua reticenza all'uso di modelli quantitativi, econometrici e verificabili sperimentalmente, rivelerebbero semplicemente di non aver colto il senso e la portata del suo quadro concettuale.
 
Faccio un esempio, per non lasciare che le mie apologie siano sempre vuote. Prendiamo le politiche monetarie delle banche centrali in regime di monopolio di emissione di moneta a corso legale forzoso: l'aver compreso il ruolo di coordinamento giocato dai prezzi di mercato, e in particolare di quel prezzo che è il tasso di interesse sui prestiti, ha come naturale conseguenza che le politiche monetarie, in qualsiasi direzione cerchino di spingere, devono essere considerate semplicemente delle distorsioni nei segnali che il livello dei prezzi altrimenti invierebbe a tutti gli attori del mercato, dirottando risorse verso progetti e investimenti non richiesti dal mercato, e dunque destinati al fallimento, sottraendole a quelli che potrebbero avere successo. Detto questo, non ha senso mettersi ad argomentare tirando in ballo l'entità della bilancia commerciale o le quotazioni della valuta sul mercato dei cambi o i tassi di prestiti interbancari o qualsiasi altro dettaglio contingente: l'effetto di distorsione ci sarà comunque, anche se l'effetto potrà assumere forme quantitative diverse, a seconda di quelle variabili e di mille altre che non saremmo mai in grado di misurare.
Per fare un parallelo con la fisica, è come se i modelli mainstream cercassero di analizzare in dettaglio la dinamica di una macchina del moto perpetuo, cercando il punto esatto in cui il modello si discosta dalla realtà, sperando così di poterlo migliorare ed ottere davvero, finalmente, il moto perpetuo; mentre gli austriaci, di fianco, magari non sanno dirti bene dove la dinamica del modello comincerà a discostarsi dalla realtà (perché la dinamica è davvero complessa, gli austriaci non lo negano), però provano a ragionare in termini di bilancio energetico e scoprono che no, non può essere: indipendentemente dai dettagli cinematici, alla fine il moto si smorzerà.
 
Insomma, la forza, notevole, dell'approccio austriaco è tutta qui: nel fornire un quadro di interpretazione coerente dei fenomeni economici, evidenziandone i meccanismi rilevanti, gli attori principali e quelli irrilevanti. Molto spesso lo fa senza appoggiarsi a quelle analisi quantitative che tanto piacciono agli economisti mainstream, utilizzando argomenti del tutto generali, capaci di giudicare la bontà o meno di una schematizzazione matematica prima ancora di controllarne l'aderenza empirica a determinati casi concreti.
Volete usare un nome specifico, prasseologia, per questo approccio? Liberissimi di farlo, ma si tratterebbe di una caratterizzazione di ambito, non di metodo. Il metodo, epistemologicamente parlando, è uno solo, quello scientifico, buono tanto per la fisica, quanto per la biologia e l'economia, ed è precisamente lo stesso, à la Quine, usato nella vita quotidiana per oggetti e persone. Le diverse declinazione che i diversi ambiti richiedono differiscono per prassi legate alle specificità dell'oggetto di studio, non per status epistemologico. E per la sedicente prasseologia l'ambito è lo stesso dell'economia classica.
 

29 November 2012

   [8] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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§  Tessere senza puzzle e il calorico di Laplace
La cosa che colpisce di più dell'approccio austriaco, dicevo, è proprio questo suo essere sistematico, questo fornire un quadro interpretativo coerente dei fenomeni economici. Colpisce molto perché, al contrario, un tratto comune di tutte le altre economie è proprio quello di essere, ciascuna, un coacervo di modellizzazioni: prima ancora del difetto di essere stilizzate e/o viziate da qualche assunzione inverosimile, hanno il ben più grave difetto di essere del tutto avulse l'una dall'altra, tessere isolate senza alcun puzzle. A posteriori, questa caratteristica appare come una delle principali ragioni per cui l'economia non era mai riuscita ad appassionarmi: ogni articolo, ogni "spiegazione" di un qualche processo, appariva, nella migliore delle ipotesi, come un brillante esercizio di stile, capace di colpire per il suo ricondurre un qualche effetto visibile ad un meccanismo semplice. Ma i diversi meccanismi non si incastravano l'uno con l'altro a formare un quadro coerente, né costituivano casi paradigmatici da poter applicare in altre situazioni. Per motivi probabilmente molto diversi, si aveva la stessa sensazione che si prova studiando filosofia al liceo: un brancolare senza direzione, con piacevoli incontri ma senza mai la percezione di un senso complessivo.
Prendete la pagina di wikipedia sulla storia del pensiero economico: non c'è un percorso, ogni paragrafo è un'idea diversa, pronta per essere dimenticata nel paragrafo successivo, e ritirata fuori quello dopo ancora, con un neo- davanti...
Ancora: sono molto divertenti tutti quegli studi, chessò, sul mercato del lavoro, in cui si argomenta prendendo in considerazione quella particolare variabile, chessò, il cuneo fiscale, si evidenzia un possibile effetto in una certa direzione di un suo aumento o riduzione, chessò, un aumento o riduzione della domanda, o dell'offerta, si argomenta con qualche caso storico, come quando nel tal paese si girò la manopola del cuneo fiscale in tale direzione e si verificò un cambiamento nel mercato del lavoro in quella certa direzione, e si conclude che il miglior provvedimento da prendere qui e ora è proprio quello. O quello opposto, perché non bisogna dimenticarsi di quell'effetto collaterale che spinge nell'altra direzione, come dimostra quello che successe in quel tal altro paese, quel cert'altro anno.
 
Quando Laplace misurò quantitativamente con precisi esperimenti la quantità di fluido calorico scambiato tra due corpi a temperature diverse, stava testando un caso specifico di una teoria con un solido apparato concettuale e matematico, e con un vasto riscontro sperimentale; quando la teoria cinetica del calore scalzò quella del calorico lo fece proprio attraverso una revisione estesa e profonda di tutto lo schema concettuale che inquadrava la già vasta conoscenza dei fenomeni termici; e la nuova teoria era in grado precisamente di rendere conto di quella stessa fenomenologia, inquadrandola meglio all'interno dell'immagine più ampia del mondo fisico.
 
Il caso ipotetico del mercato del lavoro, quale teoria vorrebbe corroborare? Cosa saremmo costretti a rivedere, se dovesse risultare falsificata? Poco o nulla, il suo valore è estremamente circoscritto, ed è sempre dietro l'angolo la possibilità che un fattore trascurato si riveli meno irrilevante o che un'ipotesi di partenza non fosse realmente soddisfatta.
A differenza della scuola austriaca, le varie economie mainstream (dalle varie neo-declinazioni keynesiane alle altrettanto varie declinazioni neoclassiche) non hanno una teoria in cui inquadrare i vari modellini: si limitano a prendere, ogni volta, in ogni particolare modellino, un gruppo di variabili quantitative più o meno a caso, provano a trarne una qualche correlazione matematica e cercano se una correlazione simile può essere riscontrata in un caso reale specifico: è del tutto evidente la totale povertà esplicativa a cui un simile approccio può aspirare!
(continua...)

27 November 2012

   [7] Metodo e spiegazione scientifica: dalla fisica all'evoluzionismo, per l'economia — all'ombra di Quine

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(...continua)
§  La prasseologia, senza chiedersi prima perché.
Nonostante il nome che puzza, dicevo, di scienze sociali, la prasseologia non cerca di entrare nel merito della natura umana, dei suoi bisogni, delle sue necessità, dei suoi desideri; non cerca di individuare le spinte che portano tipicamente a certe scelte, non si chiede perché la maggior parte degli uomini agiscono in certi modi, perché alcuni invece fanno eccezione, e perché, e come, e quando, e se...
L'originalità, la solidità e la forza esplicativa del suo approccio consiste invece nel limitarsi a prendere in considerazione gli aspetti, per così dire, formali, strutturali — e minimali — dell'agire umano: il fatto, essenzialmente, che si tratta di gesti effettuati da singoli individui e finalizzati ad uno scopo (eventualmente contingente, specifico, isolato). E badate che, scoprireste, l'uso della parola "scopo" è usato nel senso meno "idealista" e più galileiano possibile: non è uno "scopo ultimo", non è un progetto elaborato con cura e consapevolezza, non presuppone un ideale astratto a cui tendere; ho usato il termine "galileiano" nel senso dell'io stimo più il trovar un vero, benché di cosa leggiera, che 'l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna, di un'aderenza al dato empirico in un senso più profondo del cercare un riscontro statistico a posteriori su casi specifici e contingenti.
Ma a dispetto dei presupposti minimali, proprio come con Galileo, il vero, benché di cosa leggiera fornisce, a posteriori, precisamente i mattoni più solidi con cui prende forma un edificio coerente proprio per quelle massime questioni considerate tanto nobili. Fuor di metafora: a dispetto dei presupposti minimali, i risultati dell'approccio misesiano sono incredibilmente vasti e fecondi.
L'idea, ad esempio, di una definizione "fattuale" di scelta economica, avulsa da qualsiasi valore morale, motivazione, obiettivo dichiarato o addirittura consapevolezza di chi la compie, consente loro di evitare di impelagarsi in discussioni con inevitabile tendenza alla metafisica sui concetti di benessere individuale e pubblico, sui verbi modali "volere" e "dovere"...
Similmente per il concetto di valore economico: l'evidenza della sua irriducibile soggettività (variabile non solo da individuo a individuo, ma anche per lo stesso individuo in momenti diversi e addirittura giudicato differente, dallo stesso individuo nello stesso momento, per due oggetti identici) mina, in generale, qualsiasi tentativo di darne una rappresentazione quantitativa, fosse anche in senso debole di mera relazione di ordinamento, e consente loro, in particolare, di elaborare il concetto di marginalità (che ora va tanto di moda anche fra gli economisti mainstream, ma che viene elaborato in maniera chiara e formale per la prima volta proprio da Menger, il capostipite della scuola austriaca), gettando una luce rivoluzionaria sul concetto di scambio economico, in cui viene distrutta per sempre l'ingenua concezione del prezzo come quantificazione del valore del bene scambiato.
(continua...)