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19 March 2007

il fiato debole di questa mia voce

«[...] E poi non stiamo forse arrivando alla sazietà dei discorsi e dunque alla repulsione? Dopo mesi e mesi di dichiarazioni, dopo mesi e mesi di strategie politiche ed ecclesiastiche? Che cosa c’è ancora da dire che non sia già stato detto? Non penso − non mi appartiene questa pretesa − di dire cose nuove, sento anzi il fiato debole di questa mia voce.»
 
Da leggere, assolutamente, ogni singola parola:
 
— Siamo forse ciechi anche noi?
— Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: "Noi vediamo", il vostro peccato rimane.
 
 
UPDATE: il link si è rotto: trascrivo qui di seguito il testo completo.
 
UPDATE2: ho trovato un altro riferimento in rete a questo testo di Don Angelo. Lo cito, è qui, perchè da lì è possibile risalire ad altri suoi scritti. Lascio comunque qui sotto il testo completo.
 
STORIE E PENSIERI DI UN PRETE MINORE
Il mio non è un trattato sulla famiglia. Perché oggi scrivo di famiglia, di matrimoni, di convivenze? Chi sei tu — mi sono detto — per scriverne? E poi non stiamo forse arrivando alla sazietà dei discorsi e dunque alla repulsione? Dopo mesi e mesi di dichiarazioni, dopo mesi e mesi di strategie politiche ed ecclesiastiche? Che cosa c’è ancora da dire che non sia già stato detto? Non penso — non mi appartiene questa pretesa — di dire cose nuove, sento anzi il fiato debole di questa mia voce. Nei miei occhi, tu lo sai, non ha dimora la lucentezza delle cattedre teologiche. Abita i miei occhi la debole luce del cristiano quotidiano. Che pensa. Abita i miei occhi la tenera interrogazione di chi accarezza ogni giorno la vita e si commuove alle storie e ricerca nelle parole antiche, di una Scrittura che è sacra, un barbaglio di luce per la strada. Abita i miei occhi la memoria insonne di Gesù, luce del mondo, la nostalgia di una presenza, la sua, che lungi dall’incenerire i volti, metteva sorprendentemente in cammino: “alzati” diceva “e cammina”. Proprio quando i difensori della legge erano in assenza di misericordia. E lui, la misericordia, la sentiva, nell’anima, come il sobbalzo di un bambino nel grembo. Viscere di misericordia: era scritto di Dio. E lui sulla terra a dare carne e trasparenza al volto di Dio, al volto della misericordia.
Nostalgia accresciuta, devo confessarlo, in questi mesi, perché le strategie ecclesiastiche hanno parlato di tutto e poco, troppo poco, di lui. Alla difesa di assetti legislativi o in lotta contro ipotesi di nuove configurazioni giuridiche in fatto di convivenze. In distanza da memorie di vangelo.
Strategie dall’alto. E poi ci sei tu, prete quotidiano, giustamente guardato con una dose benevola di sufficienza. Prete di una razza un poco strana, una volta li chiamavano “preti badilanti”, quasi una chiesa minore. Minore certo, ma ancora non dimentica dell’invito del Maestro: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?”
Prete minore è uno che quotidianamente si sente ferito, perché gli altri per lui non sono un caso teologico, numeri senza volto, il poveraccio su cui si può discettare se per colpa sua o dei suoi genitori sia nato cieco. Gli altri sono per lui, prete minore, storie vissute, sofferte. Le famiglie per lui non sono bandiere per una battaglia, sono case in cui entra, ne conosce il profumo ma a volte anche il peso e l’aria quasi irrespirabile. Papà e mamme per lui non sono astrazioni, sono occhi, sono quegli occhi, è il corpo di quella donna, di quell’uomo. Li ha toccati. Conosce, perché fatto partecipe, il luccicare dell’emozione e il gonfiarsi del pianto. I volti scavati dalla fatica.
I conviventi non sono per lui una categoria sociale, sono in larga misura quei ragazzi e quelle ragazze che ha l’avventura, avventura di grazia, di incrociare agli incontri per i fidanzati. Si sente interrogato dalle loro storie. Interrogato dall’immagine di una chiesa senza misericordia che, a ragione o senza ragione, pesa nei loro occhi.
I preti minori vedono luccicare i loro occhi quando si parla di un Dio amore, perduto come loro nell’amare, perduto, come loro e più di loro, dietro ognuno di noi. E gli occhi dei cosiddetti atei si accendono, quasi li abitasse un brivido di nostalgia, nostalgia dell’acqua viva, l’acqua che il rabbì del pozzo di Sicar faceva sognare alla donna dei cinque mariti. I preti minori non riescono a convincersi, anche perché non hanno ancora dimenticato il vangelo, che l’amore per la famiglia stia, prima di tutto, nella battaglia per le leggi. Si guardano attorno, “pacs” e “dico” ancora non esistono, eppure la famiglia è in processi di rapida evoluzione e a volte di sofferenza. C’è chi pensa che rimedio sia costruire intorno all’albero che intristisce muretti di protezione. Quasi bastasse un muricciolo a rinverdire le foglie e non l’acqua viva.
Eppure la Parola di Dio in cui crediamo ci mette in guardia da un eccesso di fiducia nelle protezioni esteriori: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Al contrario: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore”. “Sarà” dice il salmo “come albero piantato lungo corsi d’acqua, darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno.” Insipienza, secondo la Bibbia, sarebbe pensare di porre rimedio all’inaridirsi dell’albero con stratagemmi puramente umani. Quale ingenuità! Al contrario lavora perché all’albero arrivi l’acqua di Dio, l’acqua della sua parola. Di lui ha sete. Della sua parola ha sete.
Saremo ingenui agli occhi di tanti, ma noi confidiamo nella forza disarmata di Dio, di Gesù, del suo vangelo: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore”.
E confidiamo nello stile di Gesù, uno stile che i preti minori si sono sentiti ancora una volta ricordare da un vangelo della quaresima ambrosiana, quello di Gesù al pozzo di Sicar. Non ci spetterebbe forse questo come gerarchie e come preti, anche, a proposito di amore, di matrimoni, di famiglie e di convivenze, non ci spetterebbe di sconfinare, come Gesù ha sconfinato? Prese quel giorno non la strada dritta, la tradizionale, per recarsi in Galilea. Deviò, sconfinò in terra di gente che nel giudizio del suo popolo aveva fama di razza religiosamente bastarda, popolo stupido agli occhi dei puri. E non dovremmo sconfinare anche noi, e anziché parlare dalle cattedre, sedere al pozzo nell’ora più calda del giorno?
C’è da rimanere ancora oggi illuminati e riscaldati, se crediamo più al vangelo che alle nostre strategie, illuminati e riscaldati dal fascino di quell’incontro tra Gesù e la donna al pozzo di Sicar. E il sole splendeva alto. Illuminati e riscaldati da un incontro dove traspira da ogni riga la tenerezza di un amore più forte di ogni pregiudizio. E la donna li conosceva, li aveva portati sulla sua pelle i pregiudizi, i pregiudizi sul suo popolo ritenuto bastardo, i pregiudizi sul suo essere donna. Forse si accorse, fino a sentire pesantezza, dello sguardo indagatore dei discepoli che si meravigliavano che il loro rabbì stesse parlando con una donna. Li aveva sentiti fin sulla pelle i pregiudizi sulla sua femminilità guardata con sospetto, lei donna dei cinque mariti.
E sarebbe dovuto fermarsi molto ma molto prima di arrivare al pozzo, molto ma molto prima di arrivare a lei, quel rabbì, se avesse ascoltato i giudizi, le malignità, le tradizioni. Ma lui sovvertiva giudizi, malignità e tradizioni. La donna sentiva quello sguardo, il suo. Lei ne aveva sentiti tanti di sguardi, spudorati e spietati. Il suo no, era uno sguardo che aveva un calore, ma dolce, non invadente, come un tepore di sole. E lei fioriva, lei che tutti giudicavano ramo secco, lei a quel tepore di sole si apriva, come fanno i rami degli alberi in questo preludio di primavera. Il nostro mandorlo fiorito in questo inizio di marzo, accanto alla mensa dell’altare, sembra quasi simbolo tenero, icona, della donna samaritana. Che cosa l’ha fatto fiorire? Forse il gelo dell’inverno?
Sarà opinione di un prete minore, ma ti dirò che oggi, quando mi guardo attorno e mi capita di riflettere su ciò che vado osservando, mi viene spontaneo pensare che siamo lontani, lontanissimi dall’aver imparato la lezione del pozzo di Sicar. Ma pensate che si possa far fiorire persone o situazioni con il nostro gelo, con i nostri occhi spietati, con l’accecamento dei nostri pregiudizi, con l’inverno delle nostre separatezze? Ma ci ricordiamo ancora di Gesù? Di questo Gesù che passa i confini, il confine tra ortodossi e non ortodossi, il confine tra puro e impuro, il confine tra un monte dell’adorazione e un altro monte antagonista? Abbiamo imparato qualcosa dal vangelo o siamo ancora a meravigliarci, come i discepoli, che lui stia a parlare con una donna? E per giunta con una donna come quella!
Quale chiesa, secondo voi, può far pulsare un fiotto di vita nelle vene di questa umanità? Forse i volti segnati da durezze, da separatezze, da condanne? Avete trovato ombra, una che è una, ombra di durezza, di separatezza, di condanna, ne avete trovata una, una sola, nel colloquio presso il pozzo? E chi lo avrà raccontato, quell’incontro, chi se non lui o la donna?
A far pulsare un fiotto di vita nelle vene di questa umanità non sarà invece la chiesa che siede al pozzo, una chiesa mai stanca dell’umanità, mai stanca della compagnia degli uomini e delle donne del nostro tempo, una chiesa che parla sottovoce, come il rabbì alla donna del pozzo, una chiesa che sa chiedere un po’ d’acqua confessando il suo bisogno, una chiesa che parla delle cose della vita, una chiesa che non invade le coscienze, che fa emergere pazientemente le attese del cuore, scavando nel bene, nel bene che rimane, rimane comunque in ogni cuore, una chiesa che non ha nel suo stile quello di far sentire un verme nessuno, ha invece la passione di portare alla luce la vena preziosa nascosta in ogni cuore senza distinzione?
È questo, me lo chiedo, lo stile che ci contraddistingue nella vita? Con che volto accostiamo l’altro, con che occhi lo guardiamo? Ci abita, dentro, lo sguardo del rabbì del pozzo per la donna samaritana? E sappiamo sognare, come faceva lui, il maestro davanti ai piccoli germogli? O ci interessa solo il cibo, la nostra voracità di cose, di persone, di potere? “Maestro mangia!”: gli dicevano i discepoli di ritorno dalla città in cui erano recati a far provviste di cibo. Ma lui si era già sfamato. Dissetato lui e la donna a quell’incontro, un incontro che in ognuno aveva lasciato qualcosa. In lei, nella donna, la percezione, incancellabile, di aver trovato finalmente qualcuno che le aveva letto nel più profondo del cuore e le aveva rivolto parole che erano acqua zampillante, e in lui, Gesù, la percezione che i campi, induriti per crosta di gelo e di inverno, già si aprissero, fuori stagione, alla fioritura. Era fiorita la donna. “Levate i vostri occhi” diceva “e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura.”
 
Don Angelo Casati, "Come albero" — marzo 2007