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25 November 2016

L'anima /6

 
Quella divisione del lavoro esisteva anche nello stesso Arnheim. Quando in uno dei suoi uffici direttoriali esaminava un bilancio preventivo si sarebbe vergognato di ragionare altrimenti che da mercante e da tecnico; ma appena il denaro della ditta non era più in gioco si sarebbe vergognato di non ragionare nel modo opposto e di non proclamare che l’uomo dev’essere reso idoneo a elevarsi per una strada diversa da quella ingannevole della metodicità, della regola, dell’unità di misura e simili, i cui risultati sono affatto esteriori e in ultima analisi senza importanza. Non v’è dubbio che quell’altra strada si chiama religione; egli aveva scritto libri sull’argomento. In quei libri l’aveva chiamata anche mito, ritorno alla semplicità, regno dell’anima, spiritualizzazione dell’economia, essenza dell’azione e via discorrendo, perché la cosa aveva molti aspetti; a guardar bene aveva tanti aspetti quanti egli ne vedeva in sé quando s’occupava obiettivamente di se stesso come deve fare un uomo che ha dinanzi grandi missioni da svolgere. Ma evidentemente era destino che quella divisione del lavoro crollasse nell’ora della decisione. Nell’attimo in cui voleva gettarsi nelle fiamme del suo sentimento o sentiva il bisogno di essere così grande e indiviso come le figure delle età remote, così incurante come può esserlo soltanto il vero patrizio, così schiettamente religioso come esige l’essenza dell’amore profondamente intesa, nell’istante cioè in cui senza riguardo al suo avvenire e ai suoi calzoni stava per precipitarsi ai piedi di Diotima, una voce gli ordinava di arrestarsi. Era la voce della ragione, inopportunamente ridestata, oppure, com’egli si diceva irritato, la voce dei conti e dei calcoli che oggi s’oppone dappertutto alla grandezza della vita, al mistero del sentimento. Egli la odiava e nello stesso tempo sapeva che essa non aveva torto. Perché, ammesso che si potesse dire «luna di miele», quale forma di vita con Diotima sarebbe venuta fuori alla fine della luna di miele? Lui sarebbe tornato ai suoi affari e insieme con lei avrebbe affrontato gli altri doveri della vita. Avrebbero trascorso il tempo in un avvicendarsi di operazioni finanziarie e riposi in seno alla natura, nella parte animale e vegetativa dell’Io. Forse sarebbe stato possibile un connubio profondo e veramente umano di attività e quiete, di necessità mondane e di bellezza. Tutto questo era molto bello, egli lo vagheggiava come una meta, e secondo Arnheim non possedeva la forza di compiere grandi operazioni finanziarie chi non conosceva l’evasione, la distensione assoluta, lo starsene fuori dal mondo, diciamo così con nient’altro che un perizoma intorno ai fianchi: ma una selvaggia tacita soddisfazione gli urgeva dentro, perché tutto ciò era in contrasto con il sentimento iniziale e finale che Diotima suscitava in lui. Ogni giorno, quando vedeva quella statua classica con rotondità piacevolmente moderne, cadeva in un gran turbamento, gli mancavan le forze, sentiva un’impossibilità di allogare nella propria anima quell’essere equilibrato, serenamente rotante in armonia con se stesso. Quello non era più un sentimento né tanto né poco umano. Aveva in sé tutto il vuoto dell’eternità. Arnheim contemplava la bellezza dell’amata con uno sguardo che sembrava averla cercata già da mille anni, e ora che l’aveva trovata era improvvisamente senza occupazione; da ciò un’incapacità che portava i segni inconfondibili di uno stupore, di uno sbigottimento quasi idiota. Ormai il sentimento non dava nemmen più risposta a quella sollecitazione esorbitante, che in fondo non si poteva paragonare ad altro che al desiderio di farsi sparare insieme nello spazio da un pezzo d’artiglieria.
 
Robert Musil, L’uomo senza qualità, capitolo 106
 
 

12 August 2016

L'anima /4

 
«Anche lei è un dottore della legge» egli disse titubante; «saprebbe forse spiegarmi che cosa vuol dire “un uomo che ha anima”?» [...] Poiché Ulrich non rispondeva, egli continuò. «Quando si dice “un’anima buona” s’intende una persona onesta, sincera, che fa il suo dovere; uno dei miei capiufficio è proprio così: ma infine si tratta di una qualità da inferiori! Oppure l’anima è una qualità delle donne: all’incirca come dire che piangono e arrossiscono più facilmente degli uomini...» [...] Meditò un poco. «Lei non è mai andato da un’indovina? Sanno leggere l’avvenire nella mano o in una ciocca di capelli, qualche volta in maniera stupefacente; è un dono o un trucco, non so. Ma può lei immaginare qualcosa di sensato quando un tale viene a raccontarle, per esempio, che i segni annunciano l’avvento di un’èra nuova in cui le nostre anime si vedranno quasi senza mediazione dei sensi? Aggiungo subito,» integrò in fretta, «che questo non va inteso soltanto letteralmente; oggi che siamo già nella fase di risveglio dell’anima, se lei non è buono, lo si riconosce molto più chiaramente che nei secoli passati! Lei ci crede?»
Con Tuzzi non si sapeva mai se il pungiglione era rivolto contro se stesso o contro l’interlocutore, e Ulrich a ogni buon conto rispose: «Al posto suo mi rimetterei alla prova sperimentale!»
«Non scherzi, mio caro; è sleale quando ci si trova al sicuro,» si lamentò Tuzzi. «Ma mia moglie pretende che io capisca sino in fondo simili massime, anche se poi non dovessi approvarle, e io sono obbligato a capitolare senza potermi difendere. Così in questo brutto frangente mi son ricordato che anche lei è un interprete delle Scritture...»
«Le due affermazioni sono di Maeterlinck, se non erro,» suggerì Ulrich.
«Ah sì? Di...? già, può essere. È quel...? Benissimo; forse è quello stesso che dice che la verità non esiste? Tranne per chi ama, egli dice. Se amo una creatura, devo immediatamente partecipare a una Verità misteriosa più profonda che quella d’ogni giorno. Invece se noi affermiamo qualcosa sulla base di una precisa osservazione e conoscenza dell’uomo, naturalmente sarà senza valore. Anche questo pare che l’abbia detto quel Mae... quel tale?»
«Davvero non saprei. Può darsi. Mi pare probabile.»
«Io m’ero fitto in capo che l’avesse detto Arnheim.»
«Arnheim ha preso molto da lui, e lui molto da altri; sono entrambi eclettici di notevole ingegno.»
«Davvero? Son cose vecchie, dunque? Allora mi spieghi, per l’amor di Dio, come si possono stampare oggi simili cose?» implorò Tuzzi. «Quando mia moglie mi dice: “L’intelligenza non dimostra nulla, i pensieri non giungono fino all’anima!” oppure: “Al di sopra dell’esattezza c’è un regno della saggezza e dell’amore, che le parole mediate possono soltanto profanare!”: io capisco come ciò accada; lei è una donna e in tal modo si difende contro la logica maschile! Ma un uomo come può fare simili affermazioni?» Tuzzi venne più vicino e posò una mano sul ginocchio di Ulrich: «La verità nuota come un pesce in un principio invisibile: appena la si tira fuori, ecco ch’è morta: lei che ne dice? Questo non si ricollega alla differenza fra erotismo e sessualità?»
Ulrich sorrise: «Vuole davvero che glielo dica?»
«Ardo dall’impazienza!»
«Non so come incominciare.»
«Lo vede! Fra uomini certe cose non si riesce a dirle. Se lei però avesse un’anima, adesso considererebbe e ammirerebbe semplicemente l’anima mia. Noi giungeremmo a un’altezza dove non vi sono né pensieri, né parole, né azioni, bensì forze misteriose e un silenzio sconvolgente. A un’anima è permesso fumare?» egli domandò e si accese una sigaretta;
[...]
E ascoltava Ulrich che gli diceva: «Vorrei suggerirle di riflettere a quanto segue. In noi s’alterna di solito un afflusso e deflusso della vita vissuta. Le commozioni che si formano in noi sono suscitate dall’esterno e tornano a uscire sotto forma di azioni o parole. Se lo può immaginare come un gioco meccanico. E poi supponga un guasto: non crede che vi sarà un ristagno? Un’uscita dagli argini? In certe condizioni potrebbe anche essere soltanto un gonfiore...»
«Lei almeno parla ragionevolmente, anche se sono assurdità,» commentò Tuzzi in tono elogiativo. Non aveva capito subito che lì stava davvero sbocciando una spiegazione, ma serbò il proprio contegno dignitoso e mentre di dentro si perdeva nell’angoscia, sulle sue labbra il piccolo sorriso maligno era rimasto lì così fiero che egli ben poteva tornare a rintanarsi nella sua perplessità.
«Se ben ricordo, a detta dei fisiologi,» continuò Ulrich, «ciò che noi chiamiamo azione cosciente consegue del fatto che lo stimolo, per così dire, non affluisce e defluisce semplicemente attraverso un arco riflesso, bensì è costretto a fare un giro; e allora il mondo che noi sperimentiamo e il mondo in cui agiamo, sebbene ci sembrino la stessa identica cosa, somigliano in realtà alle acque di afflusso e di deflusso in una roggia di mulino, collegate da una sorta di “stagno della coscienza” dalla cui altezza e vigore dipende la regolamentazione appunto del flusso e del deflusso. O in altre parole: se a uno dei due capi si verifica un guasto, un disgusto del mondo o una ripugnanza all’azione, non si potrebbe ragionevolmente supporre che in tal modo si formi anche una seconda coscienza, superiore, più alta? O lei crede di no?»
«Io?» esclamò Tuzzi. «Be’, devo dire che mi par proprio indifferente. I signori professori si risolvano pure il problema fra di loro, se lo reputano importante. Ma sotto l’aspetto pratico...» egli schiacciò penosamente la sigaretta nel portacenere e poi alzò gli occhi irritato, «sono gli uomini con due ingorghi o quelli con uno solo che definiscono il mondo?»
«Credevo che lei desiderasse sapere da me come mi figuro la genesi di simili pensieri.»
«Se per caso lei me l’ha detto, confesso che purtroppo non l’ho capito,» rispose Tuzzi.
«Ma è semplicissimo: lei non possiede il secondo ingorgo, dunque non possiede il principio della saggezza e non capisce una parola di quel che dicono gli uomini che posseggono un’anima. E allora non mi resta che congratularmi con lei!»
[...]
«Tutte le frasi che lei mi ha citato sono naturalmente delle allegorie,» riprese Ulrich dopo quell’interruzione, [...] «Una specie di linguaggio delle farfalle! E la gente come Arnheim mi fa l’impressione di trincare quel nettare quasi etereo a crepapancia. Cioè [...] è proprio lui, Arnheim, che mi fa quest’impressione, come pure quella ch’egli porti la sua anima nella tasca interna della giacca come un portafogli!»
 
Robert Musil, L’uomo senza qualità, parte terza, capitolo 16
 
 

17 May 2016

L'anima /0

Sull'Atlantico, un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell'aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l'oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell'anello di Saturno e di molti altri importanti fenomeni, si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell'aria aveva la tensione massima, e l'umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po' antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d'agosto dell'anno 1913.
Robert Musil, L’uomo senza qualità, capitolo 1
 
 

12 June 2012

La solitudine del pensiero

Non c’è nulla di più difficile in letteratura che descrivere un uomo che pensa. A chi gli chiedeva come facesse a inventare tante cose nuove, un grande scrittore rispose: pensandoci continuamente. E in verità si può ben dire che le idee inaspettate si presentano appunto per il fatto che le si aspetta. Sono in non piccola parte un risultato del carattere, di tendenze costanti, di ambizione tenace e di assiduo lavoro. Come deve essere noiosa questa perseveranza! Sott’altro riguardo, poi la soluzione di un problema spirituale si svolge all’incirca come quando un cane con un bastone in bocca vuol passare per una porta stretta: egli volta il capo a destra e a sinistra finché il bastone scivola dentro; e noi facciamo altrettanto, con l’unica differenza che noi non tentiamo così a casaccio, ma per esperienza sappiamo già pressappoco come si deve fare. E anche se un uomo intelligente pone nelle sue rotazioni maggior destrezza ed esperienza di un cane, lo scivolar dentro avviene di colpo e anche per lui giunge inatteso; ed egli percepisce chiaramente in sé un leggero senso di stupore stizzoso che i pensieri si sian fatti da soli invece di aspettare il loro artefice. Molta gente oggigiorno dà a quello stizzoso stupore il nome di intuizione, dopo che per molto tempo lo si è chiamato ispirazione, e credono di dovervi vedere qualcosa di superpersonale; invece è esclusivamente impersonale, cioè l’affinità e l’omogeneità stessa delle cose che si incontrano in un cervello. Quanto più il cervello è acuto, tanto meno la si nota. Perciò la meditazione, finché non è condotta a termine, è in fondo uno stato pietosissimo, una specie di colica di tutte le circonvoluzioni del cervello, e quando è finita non ha più la forma del pensiero in cui la si compie, ma già quella di ciò che si è pensato; ed è purtroppo una forma impersonale, perché il pensiero è allora volto verso l’esterno e preparato per esser comunicato al mondo. Per così dire, insomma, quando un individuo pensa, è impossibile cogliere il momento tra il personale e l’impersonale, quindi la meditazione è un tal guaio per gli scrittori, che essi preferiscono evitarla.
L’uomo senza qualità ad ogni modo stava pensando. Bisogna concluderne che, almeno in parte, ciò non era un fatto personale. E che cos’è, allora? Mondo che va e che viene; aspetti del mondo che si configurano in un cervello.
Robert Musil, L'uomo senza qualità, capitolo 28
 
Mi è tornato in mente leggendo The loneliness of making sense su BackReAction.