06 July 2016

L'anima /3

 
Certi suoi scritti sono un po' come dei pic-nic, in cui l'autore mette le parole e il lettore il senso[1].
Georg Christoph Lichtenberg (scienziato del XVIII secolo)
a proposito di Jacob Boehme (mistico del XVII secolo)
 

[1] his [Böhme's] writings, Lichtenberg says, are "a sort of picnic, where the author supplies the words (the sound) and the reader the meaning" (Schriften und Briefe, I:E 104) — David E. Wellbery, Hans Ulrich Gumbrecht, Anton Kaes, Joseph Leo Koerner, Dorothea E. von Mücke: A New History of German Literature
 

24 June 2016

Brexit /2

 
Maledetta attualità, ancora.
Qualche ulteriore commento[1], sempre in chiave libertaria, ancora a caldo subito dopo l'esito, un po' a sorpresa, del referendum nel Regno Unito.
La questione è un po' la solita, se l'abbandono del mercato unico europeo sia una scelta anti-liberale, sott'intendendo che l'adesione ad un'area di libero scambio sia, più o meno per definizione, un'opzione liberale.
Il punto è che in questa narrazione c'è qualcosa che non torna.
L'area Euro viene dipinta come uno po' come l'analogo per le merci ed il commercio degli accordi di Schengen per la libera circolazione delle persone. Ma a ben guardare l'appartenenza all'Unione Europea rappresenta un vincolo, per il paese partecipante, ad uniformarsi ad un insieme di regolamenti e legislazioni finalizzate ad uniformare le condizioni economiche e commerciali fra gli Stati membri. Be', capite bene che questo è l'esatto contrario del libero mercato ed è invece precisamente un cartello di rendite di posizione artificiali su scala continentale — pensate alle quote latte, alla Politica Agricola Comune, etc, etc...
Anche in chiave internazionale, l'uscita di una Pese forte come il Regno Unito da un simile cartello si traduce in un nuovo attore sul mercato globale con cui poter trattare in maniera indipendente: quando la Cina, la Russia o l'America, il Canada e la Svizzera vorranno affacciarsi sul vecchio continente non avranno più un interlocutore unico, ma Europa e Regno Unito si presenteranno in competizione[2].
 
Tutto questo per dire che per un libertario l'opzione del Regno Unito di uscire dall'Area Euro non si pone come un travagliato trade-off fra ragioni contrastanti, fra l'anelito indipendentista e la rinuncia al liberismo: si tratta invece di un'opzione che si muove nella direzione "giusta" su entrambi i fronti — disintegrazione politica e disintegrazione[3] economica.
Se poi produrrà addirittura un effetto a catena per cui a breve seguiranno anche la Scozia e la Catalunya — e, chissà, magari poi in scia anche il Veneto di Yoshi e la Sardegna di Fabristol — be', tanto meglio ancora!
 

[1] Anche per questo post, come per il precedente, valgono le solite avvertenze del caso: poco o punto è farina del mio sacco e dunque i meriti sono suoi, i granchi miei.
[2] Per citare un argomento prettamente anarco-capitalista — non-libertari, vi prego, voi ignorate del tutto questa nota! — i vincoli europei non permettevano alla City di Londra di funzionare come paradiso fiscale; ora non è detto che lo diventerà, ma certamente avrà molto più spazio di manovra.
[3] Yoshi usa il termine integrazione economica, per definire l'optimum libertario, ma il senso, chiaramente, è quello della divisione del lavoro, del vantaggio comparato, dell'anti-autarchia, che sono i giochi a guadagno condiviso del libero mercato. L'uso del termine integrazione, in questo senso, può risultare fuorviante, perché è lo stesso termine che viene usato appunto a livello europeo per indicare, però, una condizione di omogeneizzazione del mercato che è l'esatto opposto di quello che, io capisco, intende Yoshi.

21 June 2016

Brexit

 
Maledetta attualità[1].
I miei libertari di riferimento online si sono entrambi schierati contro la Brexit: Yoshi, l'esule svizzero, e Fabristol, l'esule britannico.
Il mio libertario di riferimento offline, invece, ha espresso le sue simpatie per la Brexit, e un sentimento di equilibrio mi spinge a raccoglierle in questo post; valgono le solite avvertenze del caso: i meriti vanno a lui, gli errori sono miei.
 
Esiti così diversi sulla questione Brexit, pur in prospettiva libertaria, possono essere ricondotti essenzialmente al dibattito thick/thin libertarianism, che però mi è difficile riassumere senza appiattirlo.
Mi limiterò a muovere alcuni rilievi, senza un vero e proprio filo conduttore.
 
Una prima considerazione riguarda i rischi commerciali ed economici di un'uscita dal mercato europeo. Il punto è che tali conseguenze sono più o meno velatamente minacciate: scegliere di restare in Europa per paura di ritorsioni non sarebbe una scelta libera, ma di paura contro arroganza e prepotenza (vedi il Monti secondo cui non si dovrebbe permettere la ratifica elettorale degli accordi internazionali). Se davvero questo è il problema, il dito andrebbe puntato sul bullo, non sulla vittima.
Un altro argomento liberale contro la Brexit sarebbe che le principali motivazioni a favore dell'uscita sono di natura illiberale (nazionalismi, deficit-spending, protezionismo...), ma usarle per prendere le parti del Leviatano europeo significa un po' scegliere con una logica dell'amico in quanto nemico del mio nemico.
A difesa di uno schierarsi libertario per la Brexit ci sono invece le solite ragioni che Yoshi riassume nell'espressione "disintegrazione politica": esercitare il diritto d'uscita è l'opzione liberale per eccellenza; far parte del cartello degli Stati che permettono "il potere contrattuale di aprire o chiudere le relazioni commerciali con il resto del mondo" lo è molto meno.
Sommando tutto, non voglio dire sia chiaro cosa dovrebbe votare un libertario britannico, ma certamente l'elemento più libertario di tutta la faccenda è proprio la possibilità stessa del voto: mostrare al mondo ed a sé stessi che è possibile, che non è immorale, uscire; meglio ancora se l'uscita scatena divisioni tra regioni che vogliono rimanere e regioni che vogliono uscire.
Alla fine, per tornare alla questione thick/thin libertarianism, non si può obbligare a non discriminare...

[1] Questo post devo per forza scriverlo entro il 23 altrimenti va a male, ma lo spunto per scriverlo sono un paio di post recentissimi e non ho nemmeno avuto molto tempo per rimuginarci sopra... prendetelo come un rapido tweet un po' più lungo di 140 caratteri.
 

Conversazioni

 
Sulle cause della "morte dei blog" direi che condivido in toto la diagnosi di Borborigmi, che mi permetto di condensare nell'accostamento di due circostanze: la prima, che «la voglia di scrivere va di pari passo con la conversazione che un'opinione scritta genera, con il dibattito di cui riesce a far parte», e la seconda che «la fatica di aprire un blog, la cui manutenzione è tecnicamente più complessa» non ha più ragion d'essere, dal momento che «la maggior parte dei lettori potenziali sono comunque dentro le mura dei social».
Facebook, insomma, ha vinto semplicemente per aver reso più semplici le conversazioni: fornendo contemporaneamente un'audience ampia già in partenza, e una semplicissima modalità di pubblicazione istantanea.
 
Ed effettivamente il mio rammarico più grande a restare fuori da Facebook è proprio la quantità di conversazioni interessanti, con gente interessante, che mi sto perdendo. Però ogni volta che ci penso e valuto di tornare sulla mia decisione, mi ritrovo nuovamente davanti alle solite insormontabili barriere all'ingresso.
Non soltanto quella, già detta più volte, dell'identità e della privacy[1]. Un'altra questione terribilmente fastidiosa è quella di un'esagerata trasparenza, che si declina su due binari ferrei: la pubblica visibilità e trasversalità della rete di contatti, e la necessità di includervi un account per poterne leggere i contenuti e riceverne gli aggiornamenti[2].
Tutto ciò esaspera ancora di più la sovrapposizione forzata e totale delle proprie identità, del tutto innaturale nella vita reale.
 
Forse l'unica eccezione ragionevole a questi meccanismi perversi è rappresentata da Twitter: qui l'identità non ha vincoli anagrafici, la fruibilità è universale e non circoscritta ai propri contatti[3], le relazioni sociali sono asimmetriche, e tramite le liste è persino possibile seguire degli account senza che la cosa sia in bella vista.
Il difetto di twitter, o quantomeno la cosa che non gli permette di occupare esattamente la nicchia ecologica lasciata vuota dai blog, è la sua fugacità. Da un lato il limite alla lunghezza dei contenuti rappresenta un incentivo all'utilizzo: non devi aspettare di riuscire a ritagliarti un attimo di concentrazione per scrivere qualcosa di articolato, hai un pensiero anche solo accennato e via, lo condividi al volo. Ma questo si addice a massime e motti di spirito, quando va bene, o ad aforismi motivazionali e poesie da cioccolatini, quando va meno bene.
Se già il tweet rimanda a un link, le sue dinamiche iperveloci non permettono di stargli dietro, e seguire un account non basta per riuscire ad intercettarne tutti gli interventi, perché la quantità di tweet che riempie la propria timeline è indigeribile.
La fruizione di twitter diventa quindi quella degli avventori di un bar: siccome non ci stai tutto il giorno, quando passi trovi, di chi conosci, solo chi per caso sta passando di lì in quello stesso frangente, e con loro scambi due battute — solo allora e per poco, ché di lì a breve tu o i tuoi interlocutori già non condividerete più una sovrapposizione temporale utile — sull'argomento del momento.
Si parlava di conversazioni? Be', direi che sono un'altra cosa.
Certo, ci sono strumenti come Instapaper, o Pocket (Formerly — and eloquently! — Read It Later), con cui si può tener traccia delle letture che sembrano meritare più attenzione, ma a quel punto un'ipotetica conversazione andrebbe avanti a singhiozzo: se va bene puoi commentare in calce all'articolo, oppure puoi scrivere a tua volta sul tuo blog, ma difficilmente recupererai la persona da cui avevi ricevuto lo spunto e in ogni caso non ti inserirai in una conversazione raccolta sulla questione, perché di "conversazioni" ce ne saranno mille, ognuna più o meno chiusa nella sua filter bubble.
 
Insomma, quando si dice che forse la blogosfera non è morta ma si è semplicemente trasformata in qualcos'altro, ci si sta riferendo, più o meno consapevolmente, proprio alla questione delle conversazioni: i blog si stanno rintanando nella nicchia dei contenitori a tema ben definito e specifico di articoli autoconsistenti, che però restano isole asettiche: le conversazioni, anche quelle che li riguardano, sono altrove.
 
Ogni tanto un Kirbmarc che apre un suo blog mi illude che si possa tornare ai vecchi tempi dei feed RSS.
Oppure mi pare di scorgere segni di qualche cambiamento in atto: Peppe Liberti che prova[4] a sperimentare con paper, o Amedeo Balbi che si butta sulle newsletter; ma senza troppo entusiasmo, visto che le direzioni imboccate non sono quelle che speravo — ancora più chiusura e frammentazione delle conversazioni!
 

 
[1] Mi pare di aver capito che, benché Facebook richieda formalmente dati anagrafici reali, non proceda tempestivamente ed inesorabilmente all'enforcing del vincolo, per cui, a patto di accettare qualche deformazione tipografica del nickname, potrei anche provare — ho anche provato — ad aprire un profilo come hronir.
Ho anche provato social network che espressamente non richiedono identià reali, financo di già note e rinomate frequentazioni — leggi frenf.it — ma restano, appunto, le altre barriere all'ingresso.
[2] Certo, se qualcuno posta contenuti in maniera pubblica, questi restano accessibili da chiunque, ma di fatto non ci sono canali per avere aggiornamenti su tali contenuti che non siano ma{r,c}chiarsi della sua amicizia.
[3] A parte gli account lucchettati, ma mi pare rappresentino un uso di nicchia e peculiare di questo social network.
 

17 June 2016

Veloce e ultra veloce

 
Con mio grande sconforto scopro che, in un mare che si tingerà sempre più di blu, il mio Comune resterà una vergognosa macchia bianca ancora per i prossimi anni.
Il Piano strategico Banda Ultra Larga del Ministero dello Sviluppo Economico cerca in effetti di colmare un mercato per cui è la domanda stessa a languire[fonte].
Del resto, io stesso pagherei davvero di più per avere più banda?
Be', sì: per quella in upload.
È quella, secondo me, che farebbe davvero la differenza.
È con quella che, ad esempio, potrei promuovere facilmente il mio Raspberry Pi a servizio di cloud fatto in casa, aggirando tutte le questioni di privacy legate a servizi di terze parti; oppure farne il fulcro per embrionali esperimenti di domotica, sempre "fatti in casa"; o, perché no, aprire un nodo di uscita Tor.
 
Secondo me tutta questa enfasi sulla banda in download, sulla differenza fra banda larga veloce (30Mbps) e ultra veloce (100Mbps) nasconde il fatto che il vero elemento capace di cambiare le regole del gioco è la banda in upload.

 
 

16 June 2016

L'anima /2

[...] l'anima, lo spirito o come altrimenti si voglia chiamare ciò che in noi viene accresciuto da un pensiero trovato tra le pagine di un libro o sulle labbra serrate di un ritratto; ciò che a volte si risveglia quando una melodia isolata e ostinata si libera da noi e prende a vagare nell'infinito trascinandosi dietro, con bizzarre movenze, il filo rosso e sottile del nostro sangue, ma che sempre sparisce quando scriviamo atti, costruiamo macchine, andiamo al circo o comunque ci dedichiamo a una delle infinite occupazioni di questo genere.
Robert Musil, Il giovane Törless
 

09 June 2016

Illazioni sul rapporto fra i sessi.

 
Spoiler prima di lasciarvi continuare a leggere inutilmente: il titolo è mero clickbait, il rapporto di cui parlerò è semplicemente quello numerico.
 
Scott Aaronson è sempre fonte di mille spunti interessanti di riflessione.
Anche quando sembra cadere su delle banalità da WTF.
Non fa eccezione questa recensione del libro di Max Tegmark [1], in cui però a un certo punto il nostro mette sullo stesso piano di impressiveness le "predizioni" della Relativà Generale (la precessione di Mercurio) o dell'equazione di Dirac (l'esistenza dell'animateria) con quella "di Darwin" sul rapporto numerico fra i due sessi nelle popolazioni delle varie specie animali.
 
Ora, la questione è la solita: l'insopprimibile e sacrosanto desiderio di avere un criterio di demarcazione, ed in particolare di averne uno semplice. Ahimè l'obiettivo, Quine insegna, è semplicemente irraggiungibile, soprattutto in termini di semplicità.
Ma — certo, certo — sono rassegnato alla marginalità della lezione quineiana nel panorama epistemologico corrente, per cui non mi stupisco più di tanto del fatto che Aaronson proponga la sua personale linea di demarcazione: "connecting elegant math to actual facts of experience".
Quel che mi sorprende è che abbia tentato di farci rientrare la teoria di Darwin, in questo connettere matematica elegante a fatti sperimentali, tramite la questione del rapporto numerico fra i sessi.
 
Il fatto è che la questione del sex ratio in chiave evoluzionistica non rappresenta nulla di neanche lontanamente simile ad un experimentum crucis per la teoria di Darwin.
Innanzitutto la definizione stessa del concetto di rapporto numerico fra i sessi è articolata (ne esistono almeno 4 tipologie diverse); inoltre, sì, si possono trovare dei riferimenti alla questione in scritti originali di Darwin (su questa cosa ci torno in chiusura di post, capirete perché scrivevo "di Darwin" fra virgolette), ma i nomi che più si legano alla questione sono quelli, ben successivi a Darwin, di Ronald Fisher e di W. D. Hamilton, e il tema restò a lungo oggetto di discussioni, analisi e ricerche. Anche dal punto di vista meramente sperimentale, infatti, esistono diverse notevoli eccezioni, molte specie in cui, per ragioni anche diverse, i rapporti numerici fra i sessi si assestano su valori significativamente diversi da quello paritario, in modo transitorio o permanente (specie partenogeniche, oppure con pratiche di accoppiamento diversificate come gli afidi, oppure specie eusociali...).
 
Insomma, nessuno, ed io men che meno, nega l'impressiveness della teoria di Darwin; ma mi sembra davvero difficile, in generale, ricondurla ad una singola questione centrale direttamente collegata ad un dato sperimentalmente; e in particolare mi sembra davvero difficile ricondurla a questa cosa del rapporto numerico fra i sessi di una popolazione, soprattutto alla luce della lezione gouldiana del pollice del panda [2].
 
Come dunque può essergli venuto in mente, ad Aaronson, di annoverare la questione della della sex ratio come emblema della forza sperimentale della teoria di Darwin?
Girovagando in rete sull'argomento, pian piano vado formulando un'ipotesi.
Diciamo pure un'illazione: che anche lui abbia cercato in rete, qualcosa come "main evidence for evolution" o "most important claims of evolution" e abbia trovato le "solite" prove (i reperti fossili, l'anatomia e lo sviluppo embrionale comparati come indicazioni di un antenato comune, la resistenza batterica agli antibiotici, etc, etc...); tra l'altro se avesse cercato qualcosa come "evidence for darwin's evolution" si sarebbe imbattuto addirittura in un prodromo del pollice del panda dello stesso Darwin [3]. Finché, questa è la mia illazione, non ha cercato qualcosa come celebrated argument evolution, e si è ritrovato davanti proprio al principio di Fisher, definito appunto "probably the most celebrated argument in evolutionary biology". Senonché a definirlo così fu, be', A. W. F. Edwards, allievo di quello stesso Fisher del cui principio stava tessendo le lodi — pare che venisse proprio chiamato "Fisher's Edwards".
Sia chiaro, tutto vorrei tranne che sminuire Edwards, il quale non era affatto un allievo sfigato e banale adulatore di Fisher: diventò famoso e rinomato genetista, pioniere insieme a Cavalli-Sforza nell'applicazione delle tecniche statistiche alla ricostruzione degli alberi evolutivi; nonché autore della famosa critica all'articolo di Lewontin sulla divisione dell'umanità in razze.
E del resto anche il suo giudizio sull'importanza del principio di Fisher, lungi da me negarlo, è ben fondato: si trattava di un argomento che mostrava come la selezione naturale, anche agendo a livello di singolo individuo, potesse plasmare una caratteristica di popolazione come il rapporto numerico fra i sessi, che invece sembra ovviamente candidata ad essere controllata da una selezione di gruppo; mostrava che a volte era necessario prendere in considerazione, in un modello evoluzionistico, più di due sole generazioni; si è rivelato essere un esempio ante litteram di quelle che verranno poi chiamate "strategie evolutivamente stabili" (ESS) e che portarono all'applicazione in campo genetico delle tecniche di teoria dei giochi; ha avviato i successivi interessi verso le implicazioni evoluzioniste degli investimenti parentali; etc, etc...
Insomma, si tratta certamente di un'idea estremamente feconda, anche se — ed è questo il mio punto — non propriamente "folgorante" e sperimentalmente "eclatante", come vorrebbe il nostro Aaronson.
Tant'è che, ho scoperto, l'idea di Fisher l'ebbe lo stesso Darwin, che la descrisse nella prima edizione del suo "L'origine dell'uomo", ma che rimosse nella seconda edizione proprio perché, e lo scrisse esplicitamente, si rese conto che la questione era in realtà molto più spinosa di quanto avesse inizialmente pensato.
 
 
 

[1] Il tema del libro di Tegmark è la sua "Mathematical Universe Hypothesis": sembra di essere sul pezzo delle ultime dichiarazioni di Musk sull'universo come simulazione, ma in realtà questo di Aaronson è un vecchio post di più di due anni fa: ci sono arrivato perché sto leggendo il suo (di Aaronson) ultimo (be', nel frattempo è diventato penultimo) post, in cui ripropone in forma scritta (Dio lo benedica!) il suo intervento, in risposta a quello di Penrose, ad un simposio che sarebbe sui fondamenti della fisica, ma in cui in realtà, almeno nel suo intervento e in quello di Penrose, si parla della coscienza. Anche lì mille spunti interessanti di riflessione, ma non ho ancora finito di leggerlo...
 
[2] L'idea che una progettazione improvvisata alla bell'e meglio (come il pollice del panda, che appunto pollice non è, ma un'estensione del sesamoide laterale) sia un argomento di gran lunga più efficace, per il darwinismo, rispetto ad un adattamento perfetto.
 
[3] Le ipotesi di Darwin, nella prima edizione de L'Origine delle specie, sull'origine delle balene, del tutto simile, nello spirito, all'idea del pollice del panda; poi rimossa dalle edizioni successive per via dell'eccessiva derisione che ne ricevette.
 

07 June 2016

Evernote /2 [era: Evernote e l'HTML]

Avevo già avuto modo di lamentarmi di Evernote perché s'incartava con note che contengono codice HTML.
Questa volta scendiamo ancora più in basso: sull'app per Android non gli piacciono le note troppo lunghe!
Un migliaio di parole sono una nota troppo lunga? E io quando li scrivo i post per questo blog, se non posso scriverli in treno?!?
Tra l'altro si premura di precisare che si tratterebbe di un problema di questa versione di Evernote... ma anche aggiornando all'ultimissima, il problema persiste identico, anche se hanno cambiato modo di dirtelo:
Devo rimettermi a cercare un'alternativa ad Evernote... :(
 

05 June 2016

L'altro, lo stesso /4

A proposito di desertificazione dei bassifondi della piattaforma Blogger, di blog storici assopitisi e ritornati attivi sotto improbabili nuove vesti (vi avevo citato carlettodarwin, ilcoloredellaluna e godelsblog), oggi ricompare improvvisamente nel mio Feedly ilpollicedelpanda.com, che in del tutto incomprensibili caratteri giapponesi cercherebbe di propormi, stando a google translate, una Hair loss campaign complete guide.
Contemporaneamente, sul vecchio e ugualmente sopito Progetto Galileo (ma qui siamo su wordpress.com) compare un altrettanto incomprensibile commento, sempre in giapponese (questa volta apparentemente a proposito di Prison Break...)
Mah... dove andremo a finire?

31 May 2016

Obama, history and the bomb dropped on Hiroshima

“It’s important to recognize that in the midst of war,
leaders make all kinds of decisions,
it’s a job of historians to ask questions and examine them,”
Obama said.
www.theguardian.com
But history is written by victors... Muhahaha!
 

29 May 2016

L'altro, lo stesso /3

Scherzi a parte, stamattina mi sono ritrovato con nome e pofile-picture dell'account Facebook cambiati (sì, ho un account Facebook) e sostituiti rispettivamente con un nome femminile russo, Zakrevskija Varvara, e una (sua?) foto ammiccante.
La pofile-picture sono riuscito a ripristinarla subito, ma non il nome, che per policy di Facebook non può essere modificato più frequentemente che ogni due mesi.
Stranamente non ho ricevuto alcuna notifica di login da un nuovo device, nè di modifica delle informazioni personali dell'account. Me ne sono accorto solo perché, invece, ho ricevuto una notifica di page-view — ho così poche visite che Facebook mi manda un'email quando capita...
Quando poi però ho modificato la password, Facebook mi ha proposto di fare un check-up di sicurezza e mi ha chiesto quale dei due nomi fosse quello giusto, quello impostato alla creazione dell'account o quello modificato di recente, e con questa procedura sono riuscito a ripristinare anche il nome dell'account.
 
Quello del mio account su Facebook era un esperimento che sopiva inutilizzato e dimenticato. Nonostante ciò, è una sensazione orribile quella di sapere che qualcuno è riuscito ad entrare in possesso delle tue credenziali...

26 May 2016

L'altro, lo stesso /2

last month
last week
Pare che gli accessi dalla Russia siano terminati... probabilmente questo blog tornerà nuovamente a sopire.
 
 
 

24 May 2016

L'anima /1

Sarebbe una bella cosa vedere la propria anima. [...]
Noi chiamiamo “anima” quello che ci anima. E non sappiamo di più, dati i limiti del nostro intelletto. [...]
Povero pedante, tu vedi una pianta che vegeta, e dici “vegetazione”, o anima vegetativa; osservi i corpi che hanno e comunicano il moto, e dici “energia”; vedi il tuo cane da caccia che sotto la tua guida impara il suo mestiere e gridi “istinto”, “anima sensitiva”; hai delle idee composte e dici “intelletto”.
Ma, di grazia, che intendi con queste parole? Certo questo fiore vegeta, ma c’è proprio un ente reale che si chiama “vegetazione”? [...]
Se un tulipano potesse parlare e ti dicesse: “è chiaro che la mia vegetazione e io siamo due esseri uniti insieme” non ti faresti beffe di quel tulipano? [...]
Vediamo i bei sistemi che la tua filosofia ha costruito su queste anime. Uno dice che l’anima dell’uomo è parte della sostanza di Dio stesso; l’altro che essa è parte del gran tutto; un terzo che essa è creata ab eterno; un altro che è fatta ma increata; altri assicurano che Dio forma le anime man mano che ne sorge il bisogno, e che esse arrivano nel momento della copulazione: “Vengono a situarsi negli animalucoli seminali”, ti grida l’uno. “No”, dice quest’altro, “esse vanno ad abitare nelle trombe di Falloppio.” “Avete torto”, viene a dire un altro, “l’anima attende sei settimane che il feto sia formato, e allora prende possesso della ghiandola pineale; ma se trova un feto che andrà a male se ne torna indietro aspettando una migliore occasione” [...]
Non meno numerose ipotesi si sono fatte sul modo in cui quest’anima potrà sentire quando sarà stata separata dal proprio corpo per mezzo del qual sentiva: come udirà senza orecchie, odorerà senza naso, e toccherà senza mani; e in qual corpo alla fine dei tempi si reincarnerà: se in quello che aveva a due anni o a ottanta; e come l’io, l’identità della stessa persona potrà sussistere; e come egualmente l’anima di un uomo diventato scemo all’età di quindici anni e morto in demenza a settanta potrà riprendere il filo delle idee che aveva nell’epoca della pubertà; e con quali espedienti un’anima che abbia avuto tagliata una gamba in Europa e abbia perso un braccio in America ritroverà quella gamba e quel braccio i quali, essendo stati trasformati in legumi, saranno nel frattempo passati nel sangue di qualche altro animale... Non si finirebbe più se si volesse rendere conto di tutte le stravaganze che questa povera anima umana ha immaginato attorno a se stessa.
Voltaire, Dizionario filosofico, alla voce “anima”.
 

20 May 2016

I vantaggi di un libro rispetto ad un ebook

 
L'altro vantaggio della carta rispetto al digitale è che, se leggi in giro — in treno, o anche semplicemente lasciando il libro appoggiato sulla scrivania dell'ufficio — la gente vede cosa stai leggendo, e magari chiede, curiosa...
Ok, sì, in effetti può anche essere uno svantaggio...
(No, non sto leggendo Musil... è una vita che non leggo più narrativa...)