01 August 2016

Rifiutare di ospitare i giochi olimpici

 
Che poi in realtà il punto non è tanto dimostrare che ospitare le olimpiadi finirà in attivo o in passivo, se sarà o meno un affare: il punto è per chi sarà un affare. Perché se un imprenditore, o un consorzio di imprenditori, fa le sue previsioni e decide che potrebbe guadagnarci, può benissimo valutare di fare un investimento e pagare di tasca sua i costi per ospitare le olimpiadi: se va bene e ci guadagna, buon per lui; se va male e sono soldi buttati, erano comunque soldi suoi.
Il problema è fare pagare il conto ai contribuenti per far guadagnare i commercianti. Questo è eticamente e moralmente sbagliato, prima ancora che economicamente.

21 July 2016

Yet another step towards the nightmare scenario

In attesa di un commento di Jester@Resonaances, Peter "Not Even Wrong" Woit ci aggiorna sui risultati annunciati oggi dall'esperimento LUX (see here, press release here) alla ricerca di segnali di WIMP (Weakly Interacting Massive Particle) — spoiler: nightmare scenario.
In chiusura linka un articolo della Simons Foundation a proposito di questo esperimento, PTOLEMY, che con un calorimetro criogenico dovrebbe misurare il fondo cosmico di neutrini. L'articolo è dell'anno scorso, ma cercando in rete pare che la caccia dovrebbe cominciare proprio quest'estate — cioè adesso — anche se i risultati non sono attesi che per il 2017.
 

13 July 2016

La struttura di incentivi

 
 
Puff, pant... maledetta attualità[*].
 
 
L'esito del referendum nel Regno Unito, come già prima l'ascesa di consensi per Donald Trump, ha riportato in auge le discussioni sui fondamenti della democrazia[1][2][3][4][5][6].
A voler essere populisti, si potrebbe riassumere che secondo questi parrucconi la democrazia è bella finché sono d'accordo col risultato elettorale, altrimenti "il popolo non era ben informato", "era preda della demagogia", etc, etc.
Un compendio più congruo e perìto è invero che, senza adeguata temperanza, sulla democrazia incombe la trasfigurazione in oclocrazia.
 
Scherzi a parte, ho cercato un po' in rete, ma non ho trovato esiti condivisi su una linea di demarcazione, nelle lunghe ed elaborate discussioni che pur non faticano a trovare problemi nel concetto stesso di democrazia[§], e che, esplicitamente o implicitamente, sembrano risolversi tutte nel Churchill de la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre.
Già Aristotele distingueva le forme di governo "buone" (monarchia, aristocrazia e, appunto, democrazia) da quelle "cattive" (tirannide, oligarchia e, appunto, oclocrazia) indipendentemente dall'estensione della consultazione decisionale (uno, pochi o, appunto, tutti).
Il presupposto comune a questo tipo di contrapposizioni è che esisterebbero criteri di legittimità diversi dalla volontà di un monarca, dalle decisioni di un consiglio di saggi o, appunto, dall'esito di un voto a suffragio universale; diversi, e più importanti.
L'idea, cioè, è prorpio che esistano dei diritti (individuali o — nel dubbio lo concediamo — collettivi) che, anche se a maggioranza, un'assemblea non ha legittimità a violare.
 
 
Una posizione di questo tipo può essere caratterizzata come giusnaturalista, in contrapposizione ad una giuspositivista.
 In quest'ultima, l'unico diritto possibile è quello positivo, ovvero quello concretamente osservato nei fatti: l'unica legge è la legge del sovrano — che sia una persona fisica (un monarca) o un'istituzione (un parlamento) — e non ha bisogno di alcuna legittimazione al di fuori della sua origine. In questa prospettiva il diritto acquista carattere meramente formale e, non essendo più questione di equità e probità, ma di semplice validità, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura direttamente come la scelta del criterio di validità per la legge [†].
In una prospettiva giusnaturalista, invece, esistono dei princìpî universali a cui il diritto positivo deve aderire per poter essere considerato giusto. Il diritto naturale [‡], però, è dato solo in termini di valori universali e generici: ad esempio il principio di non aggressione ("non uccidere") oppure il diritto di proprietà ("non rubare"). Si pone quindi il problema di dover tradurre tali criteri generali in leggi specifiche che fungano da riferimento quando i tribunali sono chiamati a giudicare casi concreti. Per questo, in prospettiva giusnaturalistica, la scelta di una specifica forma per l'amministrazione del potere legislativo si configura come la scelta di un semplice regolamento, di una procedura contingente, che ha valore validante da un punto di vista pratico e formale, ma che non pretende di fungere da giustificazione della legge, e certamente non si pone al di sopra di essa.
 
 
Sulla base di quali criteri, dunque, giudicheremo la bontà di una forma piuttosto che un'altra del diritto positivo, della forma concreta che esso assume in uno specifico contesto storico e sociale? In prospettiva giusnaturalista, ovviamente, sarà in primo luogo il criterio di giustizia, il quale viene invece escluso di principio da una prospettiva giuspositivista, che non potrà che ricorrere ai rimanenti criteri di coerenza, chiarezza, certezza e coercibilità.
Cosa distingue, dunque, la monarchia dalla tirannide? la democrazia dall'oclocrazia? In prospettiva giusnaturalista la risposta è semplice, ed è una distinzione di merito: la monarchia è illuminata se il Re amministra la giustizia con saggezza, è dittatura se la piega al suo arbìtrio.
Può una monarchia essere migliore di una democrazia? Certamente, per un giusnaturalista: ad esempio se il Re è illuminato mentre il parlamento è corrotto e opera in maniera clientelare sulla spinta di lobby potenti.
 
Ma in linea generale, è possibile stabilire se la democrazia sia migliore, almeno tendenzialmente, della monarchia?
In questo caso, non potendo entrare nel merito della legge in vigore in una specifica democrazia o monarchia, il giudizio deve procedere analizzando la struttura di incentivi messa in atto da una piuttosto che dall'altra forma di esercizio del potere legislativo/giudiziario.
 
Ad esempio, un possibile argomento a favore della democrazia, rispetto alla monarchia, è che quest'ultima potrebbe essere più facilmente vittima degli arbìtrî di un singolo (il monarca) rispetto all'esito di una votazione di un'assemblea che coinvolge molti soggetti diversi (l'intera popolazione, o suoi delegati, etc, etc...).
Chiaramente il fatto di passare attraverso una delibera assembleare/parlamentare non è sufficiente a garantire che il voto non vìoli i princìpî del diritto naturale ed è dunque legittimo chiedersi se e quali limitazioni (ad esempio una costituzione), o sue modifiche (ad esempio tramite l'estensione/riduzione del suffragio, sulla base di determinati requisiti) o sue alternative (ad esempio attraverso l'esercizio del potere legislativo in forma anarchica[※]), possano introdurre ulteriori vincoli e/o incentivi affinché la legge risultante tenda ad inseguire maggiormente ai princìpî del diritto naturale. È legittimo chiedersi, cioè, se sia possibile migliorare, di quanto, e a che prezzo, le capacità di questa forma di governo a maggioranza nell'individuare, tradurre ed attuare i princìpî generali e universali del diritto naturale.
È difficile sopravvalutare questo aspetto e dunque giova sottolinearlo una volta di più: poco importa il wishful thinking dell'affidarsi alla buona fede, ai nobili intenti e all'integrità intellettuale del monarca, dei legislatori, dei giudici o dei funzionari; a nulla vale respingere le critiche ad un sistema sulla base del fatto che il suo particolare fallimento è attribuibile alla disonestà e all'egoismo di uno o più attori specifici in carica in quel momento: un sistema sarà tanto migliore quanto più metterà in atto feedback capaci di alimentare circoli virtuosi e di soffocarne i viziosi.
 
 
Consideriamo ad esempio il caso dei limiti al potere del legislatore posti da una costituzione: è ingenuo pensare che essi, semplicemente, verranno rispettati; che un governo non proverà a forzare i confini del suo potere solo perché così è scritto su un documento di nobili intenti. Da questo punto di vista non meravigliano i numerosi dibattiti, spesso oggettivamente capziosi, sulla costituzionalità o meno di questo o quel provvedimento.
In questi termini, l'idea della separazione dei poteri di Montesquieu sembrerebbe già meno ingenua: dividere il potere in funzioni da affidare a soggetti diversi dovrebbe innescare precisamente quei controlli incrociati capaci di limitare il reciproco arbìtrio. In realtà non è chiarissimo quali siano gli incentivi che dovrebbero indurre ciascuno dei tre soggetti istituzionali — legislativo, giudiziario ed esecutivo — ad agire in modo da impedire agli altri due di abusare del proprio potere e non invece, per esempio, ad agire di concerto in maniera da aumentare reciprocamente il proprio potere[¶].
Come ultimo esempio — per far riferimento a proposte avanzate recentemente nei dibattiti sollevati da Trump e Brexit — consideriamo il caso della restrizione del voto che lo conceda solo a chi riesce a superare un esame di educazione civica basato sulla conoscenza delle procedure e della forma delle istituzioni della propria nazione: che razza di incentivi potrebbe mai introdurre nel feedback elettorale una simile selezione, al fine di migliorare la "convergenza" del processo democratico verso il rispetto del diritto naturale? Piuttosto, se proprio si volesse introdurre delle limitazioni al suffragio universale, sarebbe più sensato, chessò, escludere o limitare in qualche modo il diritto di voto ai dipendenti pubblici, i quali hanno un palese conflitto di interessi nel votare leggi che prelevano risorse pubbliche per assegnarle a se stessi.
Più genericamente, il meccanismo delle periodiche elezioni dovrebbe imbastire proprio il principale feedback dei governati verso l'azione dei governanti, ma esiste tutta una branca della sociologia politica che va sotto il nome di public choice theory che ha messo ben in evidenza le numerose strutture di incentivi perversi presenti nei correnti regimi democratici: i feedback elettorali sono pressoché sterilizzati quando non addirittura invertiti (quasi sempre i fallimenti dello Stato hanno l'effetto nell'opinione pubblica di chiedere ancora più interventi statali) e in generale sono spinti ad emergere nelle posizioni di potere proprio i caratteri umani più approfittatori (l'accentramento del potere che fa gola a demagoghi e dittatori). Insomma, precisamente l'opposto di quel che si presuppone ingenuamente per un corretto funzionamento della cosa pubblica.
 
 
In questi termini una condizione anarchica rappresenta inevitabilmente la miglior struttura di incentivi immaginabile.
Non lasciatevi ingannare dalla sfera semantica di disordine e caos che si suole associare al termine anarchia: qui intendiamo riferirci a quella condizione in cui sono presenti una pluralità di soggetti paritari, privi cioè di un referente ultimo che possa accentrare su di sè e monopolizzare il potere sugli altri soggetti. Sembra una proposta radicale ed estremista, ma si tratta in realtà semplicemente di proseguire sulla strada che considera un progresso il passare da una monarchia ad una oligarchia per via dell'aumento dei soggetti coinvolti nel processo decisionale del potere; un progresso l'ulteriore passaggio da un'oligarchia ad una democrazia e ancora un progresso, almeno negli intenti, l'ulteriore introduzione della separazione dei poteri.
La competizione istituzionale che motivava, con una certa ingenuità, la separazione dei poteri di Montesquieu, in questo modo si realizzerebbe più efficacemente: poiché la pluralità di soggetti istituzionali sarebbero in diretta competizione per la stessa funzione, si instaurerebbero precisamente quei meccanismi concorrenziali che renderebbero davvero democratico, nel senso etimologico del termine, l'esercizio del potere.
 
 
Al di là del finale[◊], spero con questo post di aver almeno chiarito alcuni termini della questione e aver inquadrato il contesto in cui ha senso o non ha senso collocare le critiche e le proposte di modifica del regime democratico nell'attuale declinazione dello Stato moderno.
 

[*] Solite avvertenze, anche se questo post è prevalentemente un mio personale tentativo di rielaborare e tirare le fila.
 
 
[†] In una concezione positivista il potere legislativo, semplicemente, si pone al di sopra della legge stessa, sua diretta emanazione: ad esempio il diritto di resistenza, banalmente, non è contemplato. È significativo osservare che nel moderno stato di diritto il diritto di resistenza è formalmente escluso — a parte alcune eccezioni come, notevolmente, quella della costituzione tedesca.
[‡] L'uso del termine naturale non inganni: non si presuppone necessariamente che tali princìpî siano da ricercare nella natura, biologica, ecologica o etologica, né che rimandino ad un qualche stato originario della società umana. Esistono molte interpretazioni del diritto naturale (personalmente mi ritrovo piuttosto affine all'argumentation ethics di Hans-Hermann Hoppe, per quel poco che ne ho intuito) e l'unica cosa che le accomuna è essenzialmente il rifiuto che a fondamento della legge possano esserci solo la tipologia di fonti di produzione giuridica.
[※] In cui, cioè, più corpi normativi e più tribunali operano contemporaneamente e in competizione fra loro, come soggetti paritari e indipendenti. Si tratta di una possibilità tutt'altro che meramente ipotetica e teorica, anzi è precisamente la situazione corrente in contesti di diritto internazionale o di arbitrato fra privati.
[¶] Per una interessante trattazione della questione della struttura di incentivi si rimanda al capitolo 9 de Il problema dell'autorità politica di Michael Huemer, pubblicato di recente in italiano da liberilibri.
[◊] messo più per completezza espositiva che davvero per argomentare; del resto quella anarchica è una concezione del potere troppo fuori dagli schemi a cui siamo stati abituati a pensare, in cui invece l'ordine e la pace sociale potrebbero essere raggiunte soltanto attraverso l'imposizione coercitiva di un leviatano, unico e super-partes.

06 July 2016

L'anima /3

 
Certi suoi scritti sono un po' come dei pic-nic, in cui l'autore mette le parole e il lettore il senso[1].
Georg Christoph Lichtenberg (scienziato del XVIII secolo)
a proposito di Jacob Boehme (mistico del XVII secolo)
 

[1] his [Böhme's] writings, Lichtenberg says, are "a sort of picnic, where the author supplies the words (the sound) and the reader the meaning" (Schriften und Briefe, I:E 104) — David E. Wellbery, Hans Ulrich Gumbrecht, Anton Kaes, Joseph Leo Koerner, Dorothea E. von Mücke: A New History of German Literature
 

24 June 2016

Brexit /2

 
Maledetta attualità, ancora.
Qualche ulteriore commento[1], sempre in chiave libertaria, ancora a caldo subito dopo l'esito, un po' a sorpresa, del referendum nel Regno Unito.
La questione è un po' la solita, se l'abbandono del mercato unico europeo sia una scelta anti-liberale, sott'intendendo che l'adesione ad un'area di libero scambio sia, più o meno per definizione, un'opzione liberale.
Il punto è che in questa narrazione c'è qualcosa che non torna.
L'area Euro viene dipinta come uno po' come l'analogo per le merci ed il commercio degli accordi di Schengen per la libera circolazione delle persone. Ma a ben guardare l'appartenenza all'Unione Europea rappresenta un vincolo, per il paese partecipante, ad uniformarsi ad un insieme di regolamenti e legislazioni finalizzate ad uniformare le condizioni economiche e commerciali fra gli Stati membri. Be', capite bene che questo è l'esatto contrario del libero mercato ed è invece precisamente un cartello di rendite di posizione artificiali su scala continentale — pensate alle quote latte, alla Politica Agricola Comune, etc, etc...
Anche in chiave internazionale, l'uscita di una Pese forte come il Regno Unito da un simile cartello si traduce in un nuovo attore sul mercato globale con cui poter trattare in maniera indipendente: quando la Cina, la Russia o l'America, il Canada e la Svizzera vorranno affacciarsi sul vecchio continente non avranno più un interlocutore unico, ma Europa e Regno Unito si presenteranno in competizione[2].
 
Tutto questo per dire che per un libertario l'opzione del Regno Unito di uscire dall'Area Euro non si pone come un travagliato trade-off fra ragioni contrastanti, fra l'anelito indipendentista e la rinuncia al liberismo: si tratta invece di un'opzione che si muove nella direzione "giusta" su entrambi i fronti — disintegrazione politica e disintegrazione[3] economica.
Se poi produrrà addirittura un effetto a catena per cui a breve seguiranno anche la Scozia e la Catalunya — e, chissà, magari poi in scia anche il Veneto di Yoshi e la Sardegna di Fabristol — be', tanto meglio ancora!
 

[1] Anche per questo post, come per il precedente, valgono le solite avvertenze del caso: poco o punto è farina del mio sacco e dunque i meriti sono suoi, i granchi miei.
[2] Per citare un argomento prettamente anarco-capitalista — non-libertari, vi prego, voi ignorate del tutto questa nota! — i vincoli europei non permettevano alla City di Londra di funzionare come paradiso fiscale; ora non è detto che lo diventerà, ma certamente avrà molto più spazio di manovra.
[3] Yoshi usa il termine integrazione economica, per definire l'optimum libertario, ma il senso, chiaramente, è quello della divisione del lavoro, del vantaggio comparato, dell'anti-autarchia, che sono i giochi a guadagno condiviso del libero mercato. L'uso del termine integrazione, in questo senso, può risultare fuorviante, perché è lo stesso termine che viene usato appunto a livello europeo per indicare, però, una condizione di omogeneizzazione del mercato che è l'esatto opposto di quello che, io capisco, intende Yoshi.

21 June 2016

Brexit

 
Maledetta attualità[1].
I miei libertari di riferimento online si sono entrambi schierati contro la Brexit: Yoshi, l'esule svizzero, e Fabristol, l'esule britannico.
Il mio libertario di riferimento offline, invece, ha espresso le sue simpatie per la Brexit, e un sentimento di equilibrio mi spinge a raccoglierle in questo post; valgono le solite avvertenze del caso: i meriti vanno a lui, gli errori sono miei.
 
Esiti così diversi sulla questione Brexit, pur in prospettiva libertaria, possono essere ricondotti essenzialmente al dibattito thick/thin libertarianism, che però mi è difficile riassumere senza appiattirlo.
Mi limiterò a muovere alcuni rilievi, senza un vero e proprio filo conduttore.
 
Una prima considerazione riguarda i rischi commerciali ed economici di un'uscita dal mercato europeo. Il punto è che tali conseguenze sono più o meno velatamente minacciate: scegliere di restare in Europa per paura di ritorsioni non sarebbe una scelta libera, ma di paura contro arroganza e prepotenza (vedi il Monti secondo cui non si dovrebbe permettere la ratifica elettorale degli accordi internazionali). Se davvero questo è il problema, il dito andrebbe puntato sul bullo, non sulla vittima.
Un altro argomento liberale contro la Brexit sarebbe che le principali motivazioni a favore dell'uscita sono di natura illiberale (nazionalismi, deficit-spending, protezionismo...), ma usarle per prendere le parti del Leviatano europeo significa un po' scegliere con una logica dell'amico in quanto nemico del mio nemico.
A difesa di uno schierarsi libertario per la Brexit ci sono invece le solite ragioni che Yoshi riassume nell'espressione "disintegrazione politica": esercitare il diritto d'uscita è l'opzione liberale per eccellenza; far parte del cartello degli Stati che permettono "il potere contrattuale di aprire o chiudere le relazioni commerciali con il resto del mondo" lo è molto meno.
Sommando tutto, non voglio dire sia chiaro cosa dovrebbe votare un libertario britannico, ma certamente l'elemento più libertario di tutta la faccenda è proprio la possibilità stessa del voto: mostrare al mondo ed a sé stessi che è possibile, che non è immorale, uscire; meglio ancora se l'uscita scatena divisioni tra regioni che vogliono rimanere e regioni che vogliono uscire.
Alla fine, per tornare alla questione thick/thin libertarianism, non si può obbligare a non discriminare...

[1] Questo post devo per forza scriverlo entro il 23 altrimenti va a male, ma lo spunto per scriverlo sono un paio di post recentissimi e non ho nemmeno avuto molto tempo per rimuginarci sopra... prendetelo come un rapido tweet un po' più lungo di 140 caratteri.
 

Conversazioni

 
Sulle cause della "morte dei blog" direi che condivido in toto la diagnosi di Borborigmi, che mi permetto di condensare nell'accostamento di due circostanze: la prima, che «la voglia di scrivere va di pari passo con la conversazione che un'opinione scritta genera, con il dibattito di cui riesce a far parte», e la seconda che «la fatica di aprire un blog, la cui manutenzione è tecnicamente più complessa» non ha più ragion d'essere, dal momento che «la maggior parte dei lettori potenziali sono comunque dentro le mura dei social».
Facebook, insomma, ha vinto semplicemente per aver reso più semplici le conversazioni: fornendo contemporaneamente un'audience ampia già in partenza, e una semplicissima modalità di pubblicazione istantanea.
 
Ed effettivamente il mio rammarico più grande a restare fuori da Facebook è proprio la quantità di conversazioni interessanti, con gente interessante, che mi sto perdendo. Però ogni volta che ci penso e valuto di tornare sulla mia decisione, mi ritrovo nuovamente davanti alle solite insormontabili barriere all'ingresso.
Non soltanto quella, già detta più volte, dell'identità e della privacy[1]. Un'altra questione terribilmente fastidiosa è quella di un'esagerata trasparenza, che si declina su due binari ferrei: la pubblica visibilità e trasversalità della rete di contatti, e la necessità di includervi un account per poterne leggere i contenuti e riceverne gli aggiornamenti[2].
Tutto ciò esaspera ancora di più la sovrapposizione forzata e totale delle proprie identità, del tutto innaturale nella vita reale.
 
Forse l'unica eccezione ragionevole a questi meccanismi perversi è rappresentata da Twitter: qui l'identità non ha vincoli anagrafici, la fruibilità è universale e non circoscritta ai propri contatti[3], le relazioni sociali sono asimmetriche, e tramite le liste è persino possibile seguire degli account senza che la cosa sia in bella vista.
Il difetto di twitter, o quantomeno la cosa che non gli permette di occupare esattamente la nicchia ecologica lasciata vuota dai blog, è la sua fugacità. Da un lato il limite alla lunghezza dei contenuti rappresenta un incentivo all'utilizzo: non devi aspettare di riuscire a ritagliarti un attimo di concentrazione per scrivere qualcosa di articolato, hai un pensiero anche solo accennato e via, lo condividi al volo. Ma questo si addice a massime e motti di spirito, quando va bene, o ad aforismi motivazionali e poesie da cioccolatini, quando va meno bene.
Se già il tweet rimanda a un link, le sue dinamiche iperveloci non permettono di stargli dietro, e seguire un account non basta per riuscire ad intercettarne tutti gli interventi, perché la quantità di tweet che riempie la propria timeline è indigeribile.
La fruizione di twitter diventa quindi quella degli avventori di un bar: siccome non ci stai tutto il giorno, quando passi trovi, di chi conosci, solo chi per caso sta passando di lì in quello stesso frangente, e con loro scambi due battute — solo allora e per poco, ché di lì a breve tu o i tuoi interlocutori già non condividerete più una sovrapposizione temporale utile — sull'argomento del momento.
Si parlava di conversazioni? Be', direi che sono un'altra cosa.
Certo, ci sono strumenti come Instapaper, o Pocket (Formerly — and eloquently! — Read It Later), con cui si può tener traccia delle letture che sembrano meritare più attenzione, ma a quel punto un'ipotetica conversazione andrebbe avanti a singhiozzo: se va bene puoi commentare in calce all'articolo, oppure puoi scrivere a tua volta sul tuo blog, ma difficilmente recupererai la persona da cui avevi ricevuto lo spunto e in ogni caso non ti inserirai in una conversazione raccolta sulla questione, perché di "conversazioni" ce ne saranno mille, ognuna più o meno chiusa nella sua filter bubble.
 
Insomma, quando si dice che forse la blogosfera non è morta ma si è semplicemente trasformata in qualcos'altro, ci si sta riferendo, più o meno consapevolmente, proprio alla questione delle conversazioni: i blog si stanno rintanando nella nicchia dei contenitori a tema ben definito e specifico di articoli autoconsistenti, che però restano isole asettiche: le conversazioni, anche quelle che li riguardano, sono altrove.
 
Ogni tanto un Kirbmarc che apre un suo blog mi illude che si possa tornare ai vecchi tempi dei feed RSS.
Oppure mi pare di scorgere segni di qualche cambiamento in atto: Peppe Liberti che prova[4] a sperimentare con paper, o Amedeo Balbi che si butta sulle newsletter; ma senza troppo entusiasmo, visto che le direzioni imboccate non sono quelle che speravo — ancora più chiusura e frammentazione delle conversazioni!
 

 
[1] Mi pare di aver capito che, benché Facebook richieda formalmente dati anagrafici reali, non proceda tempestivamente ed inesorabilmente all'enforcing del vincolo, per cui, a patto di accettare qualche deformazione tipografica del nickname, potrei anche provare — ho anche provato — ad aprire un profilo come hronir.
Ho anche provato social network che espressamente non richiedono identià reali, financo di già note e rinomate frequentazioni — leggi frenf.it — ma restano, appunto, le altre barriere all'ingresso.
[2] Certo, se qualcuno posta contenuti in maniera pubblica, questi restano accessibili da chiunque, ma di fatto non ci sono canali per avere aggiornamenti su tali contenuti che non siano ma{r,c}chiarsi della sua amicizia.
[3] A parte gli account lucchettati, ma mi pare rappresentino un uso di nicchia e peculiare di questo social network.
 

17 June 2016

Veloce e ultra veloce

 
Con mio grande sconforto scopro che, in un mare che si tingerà sempre più di blu, il mio Comune resterà una vergognosa macchia bianca ancora per i prossimi anni.
Il Piano strategico Banda Ultra Larga del Ministero dello Sviluppo Economico cerca in effetti di colmare un mercato per cui è la domanda stessa a languire[fonte].
Del resto, io stesso pagherei davvero di più per avere più banda?
Be', sì: per quella in upload.
È quella, secondo me, che farebbe davvero la differenza.
È con quella che, ad esempio, potrei promuovere facilmente il mio Raspberry Pi a servizio di cloud fatto in casa, aggirando tutte le questioni di privacy legate a servizi di terze parti; oppure farne il fulcro per embrionali esperimenti di domotica, sempre "fatti in casa"; o, perché no, aprire un nodo di uscita Tor.
 
Secondo me tutta questa enfasi sulla banda in download, sulla differenza fra banda larga veloce (30Mbps) e ultra veloce (100Mbps) nasconde il fatto che il vero elemento capace di cambiare le regole del gioco è la banda in upload.

 
 

16 June 2016

L'anima /2

[...] l'anima, lo spirito o come altrimenti si voglia chiamare ciò che in noi viene accresciuto da un pensiero trovato tra le pagine di un libro o sulle labbra serrate di un ritratto; ciò che a volte si risveglia quando una melodia isolata e ostinata si libera da noi e prende a vagare nell'infinito trascinandosi dietro, con bizzarre movenze, il filo rosso e sottile del nostro sangue, ma che sempre sparisce quando scriviamo atti, costruiamo macchine, andiamo al circo o comunque ci dedichiamo a una delle infinite occupazioni di questo genere.
Robert Musil, Il giovane Törless
 

09 June 2016

Illazioni sul rapporto fra i sessi.

 
Spoiler prima di lasciarvi continuare a leggere inutilmente: il titolo è mero clickbait, il rapporto di cui parlerò è semplicemente quello numerico.
 
Scott Aaronson è sempre fonte di mille spunti interessanti di riflessione.
Anche quando sembra cadere su delle banalità da WTF.
Non fa eccezione questa recensione del libro di Max Tegmark [1], in cui però a un certo punto il nostro mette sullo stesso piano di impressiveness le "predizioni" della Relativà Generale (la precessione di Mercurio) o dell'equazione di Dirac (l'esistenza dell'animateria) con quella "di Darwin" sul rapporto numerico fra i due sessi nelle popolazioni delle varie specie animali.
 
Ora, la questione è la solita: l'insopprimibile e sacrosanto desiderio di avere un criterio di demarcazione, ed in particolare di averne uno semplice. Ahimè l'obiettivo, Quine insegna, è semplicemente irraggiungibile, soprattutto in termini di semplicità.
Ma — certo, certo — sono rassegnato alla marginalità della lezione quineiana nel panorama epistemologico corrente, per cui non mi stupisco più di tanto del fatto che Aaronson proponga la sua personale linea di demarcazione: "connecting elegant math to actual facts of experience".
Quel che mi sorprende è che abbia tentato di farci rientrare la teoria di Darwin, in questo connettere matematica elegante a fatti sperimentali, tramite la questione del rapporto numerico fra i sessi.
 
Il fatto è che la questione del sex ratio in chiave evoluzionistica non rappresenta nulla di neanche lontanamente simile ad un experimentum crucis per la teoria di Darwin.
Innanzitutto la definizione stessa del concetto di rapporto numerico fra i sessi è articolata (ne esistono almeno 4 tipologie diverse); inoltre, sì, si possono trovare dei riferimenti alla questione in scritti originali di Darwin (su questa cosa ci torno in chiusura di post, capirete perché scrivevo "di Darwin" fra virgolette), ma i nomi che più si legano alla questione sono quelli, ben successivi a Darwin, di Ronald Fisher e di W. D. Hamilton, e il tema restò a lungo oggetto di discussioni, analisi e ricerche. Anche dal punto di vista meramente sperimentale, infatti, esistono diverse notevoli eccezioni, molte specie in cui, per ragioni anche diverse, i rapporti numerici fra i sessi si assestano su valori significativamente diversi da quello paritario, in modo transitorio o permanente (specie partenogeniche, oppure con pratiche di accoppiamento diversificate come gli afidi, oppure specie eusociali...).
 
Insomma, nessuno, ed io men che meno, nega l'impressiveness della teoria di Darwin; ma mi sembra davvero difficile, in generale, ricondurla ad una singola questione centrale direttamente collegata ad un dato sperimentalmente; e in particolare mi sembra davvero difficile ricondurla a questa cosa del rapporto numerico fra i sessi di una popolazione, soprattutto alla luce della lezione gouldiana del pollice del panda [2].
 
Come dunque può essergli venuto in mente, ad Aaronson, di annoverare la questione della della sex ratio come emblema della forza sperimentale della teoria di Darwin?
Girovagando in rete sull'argomento, pian piano vado formulando un'ipotesi.
Diciamo pure un'illazione: che anche lui abbia cercato in rete, qualcosa come "main evidence for evolution" o "most important claims of evolution" e abbia trovato le "solite" prove (i reperti fossili, l'anatomia e lo sviluppo embrionale comparati come indicazioni di un antenato comune, la resistenza batterica agli antibiotici, etc, etc...); tra l'altro se avesse cercato qualcosa come "evidence for darwin's evolution" si sarebbe imbattuto addirittura in un prodromo del pollice del panda dello stesso Darwin [3]. Finché, questa è la mia illazione, non ha cercato qualcosa come celebrated argument evolution, e si è ritrovato davanti proprio al principio di Fisher, definito appunto "probably the most celebrated argument in evolutionary biology". Senonché a definirlo così fu, be', A. W. F. Edwards, allievo di quello stesso Fisher del cui principio stava tessendo le lodi — pare che venisse proprio chiamato "Fisher's Edwards".
Sia chiaro, tutto vorrei tranne che sminuire Edwards, il quale non era affatto un allievo sfigato e banale adulatore di Fisher: diventò famoso e rinomato genetista, pioniere insieme a Cavalli-Sforza nell'applicazione delle tecniche statistiche alla ricostruzione degli alberi evolutivi; nonché autore della famosa critica all'articolo di Lewontin sulla divisione dell'umanità in razze.
E del resto anche il suo giudizio sull'importanza del principio di Fisher, lungi da me negarlo, è ben fondato: si trattava di un argomento che mostrava come la selezione naturale, anche agendo a livello di singolo individuo, potesse plasmare una caratteristica di popolazione come il rapporto numerico fra i sessi, che invece sembra ovviamente candidata ad essere controllata da una selezione di gruppo; mostrava che a volte era necessario prendere in considerazione, in un modello evoluzionistico, più di due sole generazioni; si è rivelato essere un esempio ante litteram di quelle che verranno poi chiamate "strategie evolutivamente stabili" (ESS) e che portarono all'applicazione in campo genetico delle tecniche di teoria dei giochi; ha avviato i successivi interessi verso le implicazioni evoluzioniste degli investimenti parentali; etc, etc...
Insomma, si tratta certamente di un'idea estremamente feconda, anche se — ed è questo il mio punto — non propriamente "folgorante" e sperimentalmente "eclatante", come vorrebbe il nostro Aaronson.
Tant'è che, ho scoperto, l'idea di Fisher l'ebbe lo stesso Darwin, che la descrisse nella prima edizione del suo "L'origine dell'uomo", ma che rimosse nella seconda edizione proprio perché, e lo scrisse esplicitamente, si rese conto che la questione era in realtà molto più spinosa di quanto avesse inizialmente pensato.
 
 
 

[1] Il tema del libro di Tegmark è la sua "Mathematical Universe Hypothesis": sembra di essere sul pezzo delle ultime dichiarazioni di Musk sull'universo come simulazione, ma in realtà questo di Aaronson è un vecchio post di più di due anni fa: ci sono arrivato perché sto leggendo il suo (di Aaronson) ultimo (be', nel frattempo è diventato penultimo) post, in cui ripropone in forma scritta (Dio lo benedica!) il suo intervento, in risposta a quello di Penrose, ad un simposio che sarebbe sui fondamenti della fisica, ma in cui in realtà, almeno nel suo intervento e in quello di Penrose, si parla della coscienza. Anche lì mille spunti interessanti di riflessione, ma non ho ancora finito di leggerlo...
 
[2] L'idea che una progettazione improvvisata alla bell'e meglio (come il pollice del panda, che appunto pollice non è, ma un'estensione del sesamoide laterale) sia un argomento di gran lunga più efficace, per il darwinismo, rispetto ad un adattamento perfetto.
 
[3] Le ipotesi di Darwin, nella prima edizione de L'Origine delle specie, sull'origine delle balene, del tutto simile, nello spirito, all'idea del pollice del panda; poi rimossa dalle edizioni successive per via dell'eccessiva derisione che ne ricevette.
 

07 June 2016

Evernote /2 [era: Evernote e l'HTML]

Avevo già avuto modo di lamentarmi di Evernote perché s'incartava con note che contengono codice HTML.
Questa volta scendiamo ancora più in basso: sull'app per Android non gli piacciono le note troppo lunghe!
Un migliaio di parole sono una nota troppo lunga? E io quando li scrivo i post per questo blog, se non posso scriverli in treno?!?
Tra l'altro si premura di precisare che si tratterebbe di un problema di questa versione di Evernote... ma anche aggiornando all'ultimissima, il problema persiste identico, anche se hanno cambiato modo di dirtelo:
Devo rimettermi a cercare un'alternativa ad Evernote... :(
 

05 June 2016

L'altro, lo stesso /4

A proposito di desertificazione dei bassifondi della piattaforma Blogger, di blog storici assopitisi e ritornati attivi sotto improbabili nuove vesti (vi avevo citato carlettodarwin, ilcoloredellaluna e godelsblog), oggi ricompare improvvisamente nel mio Feedly ilpollicedelpanda.com, che in del tutto incomprensibili caratteri giapponesi cercherebbe di propormi, stando a google translate, una Hair loss campaign complete guide.
Contemporaneamente, sul vecchio e ugualmente sopito Progetto Galileo (ma qui siamo su wordpress.com) compare un altrettanto incomprensibile commento, sempre in giapponese (questa volta apparentemente a proposito di Prison Break...)
Mah... dove andremo a finire?

31 May 2016

Obama, history and the bomb dropped on Hiroshima

“It’s important to recognize that in the midst of war,
leaders make all kinds of decisions,
it’s a job of historians to ask questions and examine them,”
Obama said.
www.theguardian.com
But history is written by victors... Muhahaha!
 

29 May 2016

L'altro, lo stesso /3

Scherzi a parte, stamattina mi sono ritrovato con nome e pofile-picture dell'account Facebook cambiati (sì, ho un account Facebook) e sostituiti rispettivamente con un nome femminile russo, Zakrevskija Varvara, e una (sua?) foto ammiccante.
La pofile-picture sono riuscito a ripristinarla subito, ma non il nome, che per policy di Facebook non può essere modificato più frequentemente che ogni due mesi.
Stranamente non ho ricevuto alcuna notifica di login da un nuovo device, nè di modifica delle informazioni personali dell'account. Me ne sono accorto solo perché, invece, ho ricevuto una notifica di page-view — ho così poche visite che Facebook mi manda un'email quando capita...
Quando poi però ho modificato la password, Facebook mi ha proposto di fare un check-up di sicurezza e mi ha chiesto quale dei due nomi fosse quello giusto, quello impostato alla creazione dell'account o quello modificato di recente, e con questa procedura sono riuscito a ripristinare anche il nome dell'account.
 
Quello del mio account su Facebook era un esperimento che sopiva inutilizzato e dimenticato. Nonostante ciò, è una sensazione orribile quella di sapere che qualcuno è riuscito ad entrare in possesso delle tue credenziali...