01 May 2013

[5] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

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Però il 6 febbraio 2010 viene istituito Bitcoin Market e il 17 luglio MtGox: mercati di cambio in cui era possibile effettuare transazioni fra bitcoin e dollari, in entrambi i sensi. Su bitcoincharts potete trovare in dettaglio l'andamento del prezzo dei bitcoin insieme al volume di scambi effettuati su MtGox, il principale mercato di cambio di bitcoin.
Aveva dunque un valore, il Bitcoin, il 6 febbraio 2010? era un valore d'uso? di scambio? entrambi?
 
Per comprendere le dinamiche delle fasi di innesco iniziali del valore del Bitcoin è essenziale considerare il fatto che esso nasce col preciso scopo di costituire una moneta, e dunque gli viene applicato, a priori, tutto l'armamentario concettuale associato ad una valuta (riserva, liquidità...). Questo contesto rende evidente, in tutta la sua limpidezza teorica, la circolarità che Mises aveva affrontato con la sua regressione: i membri della comunità Bitcoin vorrebbero comprare bitcoin, o vendere i propri beni/servizi per bitcoin, per poterli poi usare come pagamento per comprare in futuro altri beni/servizi: ma quanto pagare per essi dipende in maniera cruciale da quanto potranno poi, con essi, comprare.
In questo caso la circolarità viene risolta da una regressione sottilmente diversa da quella proposta da Mises, in cui il perno di supporto che pone un limite alla regressione è costituito, paradossalmente, proprio dal valore-lavoro per la produzione di un bitcoin.
Il valore "d'uso" che la comunità Bitcoin vedeva per essi era legato al suo possibile utilizzo futuro come mezzo di scambio, ma tale valore non poteva essere quantificato. Poteva essere quantificato, invece, lo sforzo necessario per procurarsene uno, di bitcoin, in termini di risorse (tempo, hardware, corrente, competenza, etc...) da dedicare all'estrazione di bitcoin. E qui entra in gioco in maniera determinante l'idea di Satoshi Nakamoto di agganciare al(l'estrazione di) bitcoin una prova di lavoro.
In questo modo, pur non essendo in grado di quantificarne il valore di scambio di domani, posso quantificare le risorse che dovrei mettere in campo oggi per procurarmi, via estrazione, un bitcon; e posso dunque considerare la possibilità di offrire un ammontare equivalente, in dollari "sonanti", per acquistare un bitcoin già estratto.
Il fatto che tale valore non includa, in maniera quantificabile, la possibilità di acquisti futuri, sembrerebbe una ragione sufficiente a derubricarlo a mero "valore d'uso", per nulla "di scambio". Resta l'ambiguità di fondo che il motivo per cui si acquistano bitcoin è quello di poterli spendere in futuro, ragione per la quale sin dall'inizio, potrei essere disposto ad offrire per un bitcoin anche più del suo mero valore-lavoro.
Cercare di risolvere tale ambiguità, però, rischia di diventare una questione puramente formale: i fatti bruti sono che c'è un bene (scarso, rivale ed escludibile) per avere il quale alcune persone sono disposte a pagare una cifra quantificabile. Quale che sia il nome che volete dare a questo valore, sia esso "d'uso" o "di scambio", esso rappresenta in ogni caso il punto di partenza della regressione misesiana: a partire da quel momento, risolvendo l'indeterminazione del primo passo col "regolo" quantificatore imposto a tavolino dalla prova di lavoro, il Bitcoin acquisisce un valore "di mercato" misurabile attraverso gli scambi con altre valute. Il che non vuol dire che tale valore ce l'avrà per sempre: se la fiducia nel "futuro" del Bitcoin dovesse crollare, il suo valore potrebbe crollare fin sotto il suo "valore-lavoro" (il quale già scenderebbe per la regola dell'"un blocco ogni 10 minuti"), dal momento che quando nessuno più volesse acquistare bitcoin, anche il tempo e la corrente dedicate all'estrazione sarebbero privi di valore. Il partire, poi, da un valore di riferimento del tutto scorrelato dal valore d'uso previsto/sperato per il futuro e tutto ancora da allestire, ha anche un'altra conseguenza rilevante in termini di volatilità: finché non ci saranno scambi commerciali diversi dal mercato dei cambi — finché, cioé, non si sarà creato un vero mercato di beni e/o servizi per i bitcoin — è comprensibile che il suo valore oscilli molto.
In definitiva, come si diceva all'inizio, il ruolo di moneta un bene deve "conquistarselo" con tutta una serie di prorpietà che il bitcoin deve ancora maturare, se mai ce la farà. Solo la suddivisibilità è stato possibile dargliela "a tavolino". Anche la trasportabilità, che potrebbe sembrare una caratteristica del protocollo p2p, dipende in realtà da quanto sono/saranno pervasive e di facile uso le tecnologie capaci di gestirlo: ho letto critiche al bitcoin che puntavano il dito proprio sul fatto che un crollo improvviso delle capacità tecnologiche distruggerebbero un bitcoin ma non un lingotto d'oro; critiche ragionevoli, ma una moneta è una questione d'uso e di fiducia, non di mera possibilità teorica: se la tecnologia sembrerà affidabile, la gente si fiderà (a parità di tutto il resto). Anche per quanto riguarda la stabilità, le premesse tecnologiche ci sono (vedi i feedback implementati sulla velocità di estrazione), ma bisognerà prima superare lo scoglio iniziale di volatilità di cui dicevamo poco sopra (le critiche sul potenziale carattere deflattivo della moneta invece non le considero: dovete prima convincermi che la deflazione sia un male).
 
Il "teorema" di Mises — per conlcudere — è certamente una qustione rilevante per il caso Bitcoin, o forse sarebbe più appropriato esprimersi al contrario: quello del Bitcoin rappresenta un caso notevole per il "teorema" di Mises; si può discutere se siamo di fronte ad una banale regressione di Mises o ad una sua sottilmente diversa variante, ma si potrebbe anche sostenere che si tratterebbe di una discussione nominale; quel che è certo è che — in questo caso, come in generale — un'approccio formale ed analitico sia quantomeno eccessivo, se non addirittura fuori luogo.

[4] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

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Non è necessario entrare nei dettagli di cos'è un bitcoin (argomento peraltro molto affascinante, da pèrdercisi: ho lasciato in calce a questo post [§] un breve riassunto delle cose che ho letto a riguardo, ché altrimenti si divagava una volta di più): sarà sufficiente sapere che il suo protocollo garantisce per esso le tre proprietà tipiche di un bene privato: scarsità, rivalità ed escludibilità. Ovviamente queste tre proprietà non sono affatto sufficienti a fare del Bitcoin un bene economico: anche i disegni di mio fratello sono, in senso tecnico, scarsi, escludibili e rivali, eppure non c'è alcun mercato per essi, giacché gli manca la cosa essenziale: un valore.
Come si diceva, per il Bitcoin abbiamo a disposizione un'informazione dettagliatissima sulla sua storia, e un buon punto di partenza per capire la questione del suo valore potrebbe essere proprio la sua cronologia, con un occhio di riguardo alle transazioni di bitcoin.
Progettato da Satoshi Nakamoto a fine 2008, "nasce" a gennaio 2009, in cui viene generato il primo blocco di 50 bitcoin e viene effettuata la prima transizione di bitcoin fra due portafogli, come test, da Satoshi a Hal Finney: una prova tecnica, nessuno scambio, nessun indizio di valore.
Dieci mesi dopo, a partire dal 5 ottobre di quell'anno, New Liberty Standard comincia a pubblicare il primo sedicente tasso di conversione bitcoin-dollari, secondo il seguente criterio: During 2009 my exchange rate was calculated by dividing $1.00 by the average amount of electricity required to run a computer with high CPU for a year, 1331.5 kWh, multiplied by the the average residential cost of electricity in the United States for the previous year, $0.1136, divided by 12 months divided by the number of bitcoins generated by my computer over the past 30 days.
Dico sedicente perché esso non rappresenta né un vincolo imposto ad eventuali compravendite (come i tassi valutari in regime di cambi fissi), né un valore di cambio "di mercato", misurato su transazioni reali: fino a quel momento, del resto, non sono segnalate transazioni di bitcoin compensate da contropartite in dollari o in qualunque altro bene o servizio. Pertanto quel criterio adottato per "quantificare" il valore di un bitcoin non rappresenta altro che l'ennesimo strascico, inconscio, della teoria del valore-lavoro: interessante come riferimento-in-mancanza-di-altro (conviene più "minare" un bitcoin o comprarlo?), ma lungi dal costituire una misura del valore di un bitcoin.
Però...
 
[§] Cos'è Bitcoin, un bignami semi-tecnico.
Il protocollo Bitcoin gestisce automaticamente la "stampa" di bitcoin in maniera sequenziale, generando un nuovo blocco di bitcoin nonappena l'ultimo blocco che aveva generato viene assegnato ad un qualche portafoglio. Insieme al blocco di bitcoin da assegnare viene generata un'istanza specifica di un problema standard: il portafoglio del client bitcoin che per primo sottometterà la soluzione al problema diventerà, a mo' di premio, proprietario del blocco di bitcoin che era stato generato. In quel momento verrà generato un nuovo blocco di bitcoin, formulata un'altra istanza specifica del problema standard e si resterà in attesa del primo risolutore a cui assegnare il nuovo blocco; e così via.
Il tipo di problema da risolvere per ottenere l'assegnazione del blocco di bitcoin è una sorta di inversione di una funzione di hash (SHA-256). Al di là dei dettagli tecnici, la cosa essenziale è che si tratta di un problema (classicamente, i.e. non quantisticamente) difficile, di cui, cioè, non si conosce un algoritmo di risoluzione che scala polinomialmente nella dimensione del problema (la lunghezza della stringa hash da "invertire"). I migliori algoritmi noti di soluzione hanno un esponente di scala che è proporzionale ad n^(1/3)·log(n)^(2/3), ma se capisco bene il client bitcoin implementa un "banale" algoritmo di ricerca brute force, che esplora sistematicamente tutto lo spazio delle possibili soluzioni: in tal caso l'esponente di scala è proporzionale proprio alla lunghezza della stringa.
Fissata però una certa difficoltà del problema in termini di lunghezza della stringa di hash, non sarebbe comunque possibile stimare a priori il tempo medio necessario (wall clock time) per trovare una soluzione, perché questo dipenderebbe in maniera determinante dalla potenza di calcolo disponibile); meglio: dalla potenza di calcolo effettivamente dedicata alla generazione di bitcoin: più client bitcoin potrebbero decidere di collaborare parallelizzando l'esplorazione delle possibili soluzioni, riducendo così il tempo medio (wall clock time) fra la generazione di un blocco di bitcoin e il successivo. Tale tempo medio di generazione, insomma, sarebbe in qualche modo legato al valore attribuito ai bitcoin cercati, in termini di risorse di calcolo messe al lavoro nel processo di generazione di bitcoin: maggiori queste, minore il tempo medio di generazione, ovvero maggiore velocità di generazione.
Per compensare questo feedback, il protocollo Bitcoin non stabilisce la lunghezza della stringa di hash una volta per tutte, ma la imposta in maniera dinamica, aggiornandola ogni 2016 blocchi generati, aumentandola o riducendola in funzione di un obiettivo di riferimento prefissato che corrisponde ad un ritmo di generazione di un blocco ogni 10 minuti (2016 blocchi in due settimane).
Ogni blocco corrisponde attualmente a 25 bitcoin, ma il protocollo prevede un dimezzamento del numero di bitcoin associati ad un singolo blocco ogni 210 mila blocchi generati.
(continua...)

30 April 2013

[3] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

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Questa precisazione, che la regressione di Mises potrebbe non essere l'unico meccanismo di acquisizione di valore di scambio, è certamente rilevante nelle discussioni sul Bitcoin, ma entra in gioco anche su questioni ben meno recenti. Il valore del Dollaro, o dell'Euro, o comunque di monete a corso legale forzoso senza alcun ancoraggio ad un bene fisico come l'oro, rappresenta precisamente il caso di un bene privo di alcun valore d'uso e dotato di mero valore di scambio: un'apparente contraddizione con la formulazione semplificata del "teorema" di Mises, che si risolve però semplicemente notando che è sufficiente lo stesso meccanismo di regressione di Mises per spiegare il mantenimento del valore di scambio di un bene anche quando dovesse perdere del tutto il valore d'uso. Questo varrebbe per l'oro stesso: se anche dovesse perdere il suo valore d'uso (ad esempio perché i gioiellieri hanno trovato sostituti migliori per i loro gioielli), i prezzi in oro di tutti gli altri beni sul mercato costituirebbero comunque un riferimento di valore per l'oro. Allo stesso modo per le monete legali, il rilascio dell'ancoraggio all'oro non distrugge ipso facto la struttura dei prezzi in dollari per gli altri beni e, se permangono le condizioni di fiducia del mercato (eventualmente aiutati dall'applicazione del monopolio legislativo/esecutivo), la "progressione" di Mises (la regressione vista in senso temporale opposto) può continuare.
Per il Bitcoin, dunque, la sua relazione col meccanismo di regressione di Mises si pone nei termini che seguono. Certamente, per il "teorema" di Mises, il Bitcoin non può acquisire valore di scambio dal nulla: o esso poss(i)ede(va) già un valore d'uso, su cui p(u)ò(trà) far coagulare un ulteriore valore di scambio, oppure deve "ereditare" un valore di scambio da un qualche altro riferimento di prezzo (oppure ancora, ovviamente, potrebbe succedere qualcosa di nuovo che impareremo a studiare).
Del resto la sedicente dimostrazione di Colucci si presenta formalmente come petizione di principio: "prendiamo la prima persona che ha accettato bitcoin in pagamento per i suoi beni o servizi" assume già quel che si vuole dimostrare, e cioé che il Bitcoint per qualcuno ha avuto del valore. Di più, assume tacitamente che quel valore non potesse essere di scambio.
 
Va già meglio in questo articolo di Nikolay Gertchev, The Money-ness of Bitcoins, in cui almeno si cerca di giustificare quest'assunzione: il Bitcoin, dice Gertchev, avrebbe avuto, limitatamente alla comunità "cripto-punk" in cui è nato, un valore in un qualche senso "artistico", che gli avrebbe garantito un livello di prezzo rispetto ad altri beni su cui innestare il successivo valore d'uso. Resta il fatto che anche detto così — e Gertchev non approfondisce più di così — sembra proprio un vedere ciò che si vuol vedere, un calare dall'alto, a priori, il "teorema" di Mises: davvero la gente si scambiava bitcoin come opere d'arte? in cambio di beni fisici o servizi?
 
Molto peggio, invece, questo articolo di Frank Shostak, The Bitcoin Money Myth: dopo aver esposto la sua versione del "teorema" di Mises, tutto sommato correttamente, passa ad affrontare il caso Bitcoin cominciando con un'affermazione che ha dell'assurdo per la sua ingenuità: Observe that a bitcoin is not a thing; it is a unit of a non-material virtual currency. A bitcoin has no material shape; hence from this perspective the notion that it could somehow replace fiat money is not defendable. Come se il dollaro fosse una cosa, avesse una forma materiale, e non fosse un'unità di una valuta virtuale immateriale; come se il dollaro non avesse già sostituito una moneta "fisica" come il gold-standard. Anche il commento successivo non è chiaro: Besides, Bitcoin is not a new form of money that replaces previous forms, but rather a new way of employing existent money in transactions. Because Bitcoin is not real money but merely a different way of employing existent fiat money, obviously it cannot replace it. Una critica simile, infatti, andrebbe bene per forme di sedicenti valute alternative, come il Sardex, in cui c'è un cambio fisso con un'altra valuta che ne vincola valore e utilizzo: in quel caso sì, si tratterebbe di una forma alternativa di utilizzo di una valuta pre-esistente, l'Euro; ma il punto rilevante del Bitcoin è che invece per esso esiste un mercato valutario libero di fluttuare, in cui c'è gente che compra e gente che vende in transazioni libere in cui i volumi scambiati non sono vincolati dall'esterno. Il fatto che si possano comprare dollari con bitcoin e viceversa non significa infatti che siano la stessa cosa, esattamente come il fatto di poter comprare e vendere con dollari dei quadri di valore non significa che i quadri siano una forma diversa di utilizzare i dollari per gli scambi (nonostante certi quadri possano avere alcune caratteristiche tipiche di una moneta come la trasportabilità e l'essere riserva di valore). La stessa conclusione finale dell'articolo, the fact that the price of bitcoins has jumped massively lately implies that people assign a high value for the services it offers punta precisamente nella direzione opposta alla tesi che Shostak cerca di difendere: i bitcoin hanno (un qualche tipo di) valore.
 
Lasciamo dunque perdere i Mises Daily e il Colucci, e torniamo a porci il problema della relazione fra Bitcoin e meccanismo di regressione di Mises: i bitcoin hanno davvero valore? un valore di scambio? solamente di scambio? e in tal caso, come l'hanno conquistato?
Per fortuna, a differenza di tutte le altre monete che conosciamo, la nascita del Bitcoin è accaduta in epoca iperstorica: non semplici documenti scritti, su di esso abbiamo internet. E così, invece di pontificare aprioristicamente, possiamo andare a leggere cosa è accaduto davvero, in pieno spirito galileiano e scientifico, nonostante non faremo correlazioni statistiche né dimostreremo teoremi analitici.
(continua...)

[2] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

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L'argomento di regressione di Mises è essenzialmente una soluzione all'apparente circolarità della spiegazione sull'origine del valore (di scambio) di una moneta: Robert Murphy ne parla in questo suo vecchio Mises Daily del 2003: The Origin of Money and Its Value.
Provo ad esprimere il paradosso usando l'esempio dell'oro (facciamo finta per un attimo di usare ancora valute in regime di gold-standard): l'oro ha un determinato valore d'uso (ad esempio per la fabbricazione di gioielli), ma il suo valore di mercato sarà molto più alto del suo valore d'uso perché ad esso contribuisce anche il suo essere "moneta" (ovvero un bene liquido, riserva di valore, facilmente divisibile, facilmente trasportabile e soprattutto/quindi il suo essere comunemente usato come bene intermediario per transazioni commerciali). Il suo valore aumenta, cioè, perché la domanda di oro non originerà solo dai gioiellieri, ma essenzialmente da tutti gli attori del mercato, proprio per il suo ruolo di bene intermediario per il commercio.
Ma di quanto aumenterà il suo valore?
Se nella vendita di miei beni o servizi accettassi pagamenti direttamente in beni che uso, la risposta sarebbe ovvia: accetterò una quantità di beni in base al valore d'uso che assegno a quei beni; se accettassi beni che intendo rivendere, li valuterò sulla base del valore attribuito da coloro a cui cercherò di rivenderli, e costoro li valuteranno, come me prima, in base all'uso che ne faranno. Ma nel momento in cui decido di accettare l'oro, il suo valore non può essere fatto risalire al giudizio dei suoi utilizzatori finali, perché la gran parte dei compratori d'oro ne farà mero uso di intermediazione.
Ebbene, il ruolo chiave del meccanismo ricorsivo di Mises è proprio quello di ricondurre anche il valore di scambio dell'oro al giudizio dei suoi consumatori finali. Mises nota che il valore che sarò disposto a pagare per un bene che non consumerò direttamente, ma che userò per un ulteriore scambio, è essenzialmente un valore di mercato, ovvero una stima di quanto quel bene viene valutato da chi è disposto a comprarlo, e questa stima si basa sui prezzi applicati a quel bene fino a quel momento. La stima di quanto riuscirò a prezzare un bene domani si basa sul prezzo di mercato corrente. Il valore di scambio dell'oro oggi, dunque, si basa sul suo valore di ieri, e quello di ieri sul suo valore del giorno prima, e così via in una regressione che, però, non è senza fine, ma si appoggia sul valore che aveva l'oro prima di diventare un bene di scambio, quando il suo valore, cioè, era determinato dal giudizio dei suoi consumatori finali.
 
Notate bene che la circolarità di questo paradosso è sottile (o almeno io ci ho messo un po' a coglierla appieno) ed è di natura essenzialmente teorica: del resto il percorso storico attraverso il quale l'oro aveva via via acquisito valore di scambio in aggiunta al suo valore d'uso era già stato spiegato da Menger (vedi il Murphy linkato sopra).
Un modo per rendere più evidente il paradosso (e la sua soluzione) è quello di guardare alla regressione di Mises da una prospettiva invertita e di rimuovere contemporaneamente il perno che garantisce il termine alla ricorsione. Proviamo ad osservare la regressione di Mises, cioè, a partire dal momento in cui l'oro sta per acquisire valore di scambio, ma immaginiamo di togliergli il suo valore d'uso. Siamo in una situazione, cioè, in cui vorremmo utilizzare un bene, l'oro, come bene intermediario per il commercio, ma che di per sé non interessa a nessuno, non vale nulla. L'idea di bene intemediario è che io lo accetto in pagamento quando vendo un bene, sapendo di poterlo usare come pagamento quando vorrò acquistarne un altro, di bene. Ma se l'oro, come stiamo ipotizzando, non vale alcunché, il paradosso si manifesta in tutta la sua evidenza: quanto oro dovrò chiedere per la mia mucca? dipende ovviamente da quanto oro mi chiederanno per il maiale. Un certo quantitativo d'oro, o il suo doppio, o la sua metà, sarebbero del tutto equivalenti a patto che il valore del maiale venga poi prezzato in oro in maniera conseguente. Per "partire" nell'uso di un bene senza valore come bene di scambio serve un accordo a tavolino, una scelta arbitraria sul suo valore, che venga accettato istantaneamente da tutti gli attori del mercato. Se invece rilasciamo l'ipotesi artificiale e torniamo al caso in cui l'oro ha un suo valore d'uso, ci rendiamo conto che i primi acquisti d'oro al solo scopo di usarlo come bene intermedio per ulteriori commerci erano privi dell'ambiguità del valore, perché potevano partire precisamente dal suo valore d'uso.
 
Questo, dunque, è il senso dell'argomento di Mises. Lungi dall'avere il carattere di un teorema formale, può essere in effetti riassunto in molti modi, che spesso, però, ne rappresentano una semplificazione. In genere tali semplificazioni prendono la regressione di Mises e la eleggono ad unico possibile meccanismo per l'acquisizione del valore di scambio. Da questo passo illegittimo discendono le due tipiche formulazioni del "teorema" di Mises: se un bene ha valore di scambio, deve aver avuto un valore d'uso in passato (il punto 1 di Colucci); se un bene non ha valore d'uso, non potrà in futuro acquisire valore di scambio (il punto 4 di Colucci).
Quello di Mises rappresenta in realtà un possibile meccanismo attraverso il quale un bene può acquisire valore di scambio. Se proprio vogliamo tradurre l'argomento di Mises in forma negativa ("non è possibile che..."), esso va riformulato come "se un bene non ha valore d'uso, esso non può aver acquisito valore di scambio attraverso il meccanismo descritto nella regressione di Mises".
(continua...)

29 April 2013

[1] Bitcoin e il "teorema" di regressione di Mises, o dell'altro lato della matematica in economia

 
Questo post era nato come breve, facile ironia in chiave freudiana verso certe tendenze dei miei amici, si fa per dire, austriaci. Poi però il tema del Bitcoin e della sua natura economica mi ha appassionato più del previsto e nell'informarmi e formarmi un'opinione ne è venuta fuori una cosa molto più lunga.
Per questioni di digeribilità, in questo web frenetico abituato a non più di 140 caratteri, l'ho spezzato in cinque parti.
 
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Non sono prevenuto verso le analisi quantitative in ambito economico, per quanto condivida le critiche piuttosto generali di Hayek. Quello che trovo sbagliato è attribuire ad esse il ruolo di linea di demarcazione, di condizione necessaria di scientificità: si tratta di una forma ingenua di, potremmo chiamarla, invidia del pene verso i successi delle scienze dure, i quali successi l'economia spera di riuscire a riprodurre applicando pedissequamente i loro metodi.
Ma queste cose le ho già dette tante volte, questo post invece è per notare meccanismi di invidia tutto sommato analoghi messi in campo sovente dagli economisti di scuola austriaca. Da parte loro l'invidia si esprime in forma, per così dire, simmetrica, in emulazione dell'altra scienza dura per antonomasia, la matematica — sì, alcuni non considerano la matematica una scienza (vedi Vladimir Arnold, Quine, o più "popolarmente" il Sondaggio: che cosa è la scienza? su L'estinto), ma insomma ci siamo capiti.
Il loro approccio, in pratica, invece di scimmiottare i modi empirici e quantitativi della fisica, tende a scimmiottare i modi assiomatici, formalistici ed ipotetico-deduttivi della matematica.
Non ho letto quasi niente di originale di Mises, quindi non conosco direttamente il suo stile, ma ho sentito molte volte elogiare il suo metodo sedicente aprioristico. E in effetti il pretesto per questo post non me lo offre un rinomato economista austriaco, ma l'ultimo post su Il Lume Ritrovato, Perché Bitcoin può diventare moneta: l'impostazione sembra da manuale di algebra, con definizioni, teoremi, dimostrazioni e persino quantificatori logici; l'effetto complessivo, però, tende ad essere l'esatto opposto del rigore matematico.
Con ciò non voglio dire che le sue tesi siano sbagliate o stupide, ma certamente i modi e le argomentazioni appaiono proprio così.
Prendete la definizione di moneta: il Colucci elegge la proprietà di "unità di conto" a definizione di moneta, ma si tratta in gran parte di un arbitrio: innanzitutto perché ci sono molte altre proprietà che caratterizzano una moneta (liquidità, riserva e stabilità di valore, suddivisibilità, trasportabilità, universalità, etc), e nessuna di esse è "on/off" (o un bene ce l'ha, o non ce l'ha), ma al contrario ogni bene può manifestare una o più di quelle proprietà in gradi diversi. L'elezione dell'unità di conto a proprietà definitoria è dunque in gran parte arbitraria perché un bene mostrerà tanto più le caratteristiche di una moneta quante più proprietà, fra quelle, possiede, e con più alto grado, e non sarà sufficiente che perda (un po' di) una sola di quelle proprietà perché non possa essere più considerato moneta.
Tutto questo per dire che le conseguenze che vogliamo trarre dalla costatazione che un bene funge da moneta non sono deduzioni "on/off", ma di grado, e saranno valide precisamente nella misura in cui — saranno tanto più valide quanto più — il bene gode di quella proprietà da cui volevamo far discendere la conseguenza.
 
Lo stesso teorema di regressione di Mises, tanto per fare un esempio più autorevole, non mi è per niente chiaro perché si chiami, appunto, teorema: quali sarebbero le ipotesi e quale la tesi? Quelle della schematizzazione di Colucci (punti 1 e 4) prestano il fianco a diverse critiche.
(continua...)

03 April 2013

No science at all?

Devo confessare che sta cominciando a infastidirmi questo ruolo di complottista in cui mi si infila nonappena cito la scuola austriaca. Questa volta è capitato nientemeno che con Marco Delmastro.
Ora, era ovvio che la sua domanda fosse orientata non tanto all'economia in generale quanto all'econofisica, in cui si cerca di applicare modelli di meccanica statistica ad oggetti di natura prevalentemente finanziaria. Era ovvio, perché rappresenta il naturale tentativo di approccio all'economia di chi ha studiato fisica.
La mia risposta, perciò, era chiaramente fuori tema e volutamente provocatoria (per questo mi sono affrettato a precisare che l'àmbito del mio suggerimento di lettura non era né la finanza né tantomeno l'econofisica).
Però la sua risposta non è stata del tipo: "ok, ma mi interessava altro", bensì del tipo: "ma quelle sono solo una serie di opinioni, non è punto scienza!".
 
Nel lungo thread Metodo e spiegazione scientifica mi sono già dilungato in chiave epistemologica sul problema della demarcazione e sulle sue "applicazioni" in ambito sociologico, in generale, ed economico in particolare.
In questo post mi limiterò pertanto a qualche osservazione più superficiale, per suggerire che, anche senza passare, con Quine, sul cadavere di Popper, è possibile accorgersi che c'è qualcosa di profondamente ingenuo, se non di palesemente sbagliato, nell'idea che sia sufficiente, in qualsiasi campo, applicare i metodi della fisica o della matematica per ottenere (finalmente?) risultati "scientifici": e l'economia non fa eccezione affatto.
 
Innanzitutto va sottolineato che la meccanica statistica, per definizione, non affronta la natura dei sistemi a cui è applicata: questo è il motivo della sua estrema versatilità ed efficacia, ma è anche il suo limite epistemologico. Il suo approccio è precisamente quello di dedurre la fenomenologia macroscopica a partire da pochi principi microscopici (simmetrie e località delle interazioni), da alcune assunzioni di casualità (giustificate da considerazioni ora di ergodicità classica, ora di intrinseca stocasticità quantistica) e dal loro "scalare" con le dimensioni del sistema (e.g. equilibrio infrarosso, flusso di rinormalizzazione, transizioni di fase, etc...). E' dunque ingenuo pretendere di riuscire a capire l'economia attraverso la meccanica statistica e, anzi, un suo eventuale successo descrittivo, predittivo persino, sarebbe soltanto la prova che il sistema non contiene forzanti macroscopiche rilevanti e che la sua evoluzione è essenzialmente governata dalle leggi browniane del random-walk: quasi, dal punto di vista del fisico, la prova che non c'è niente di realmente interessante. E infatti di solito i modelli fisico-matematici applicati alla finanza sono efficaci precisamente nei periodi "di calma piatta", quando, cioé, non ci sono "forze" su scala macroscopica e l'andamento è davvero governato dalla casualità microscopica. Se questo è tutto quello che si chiede, ben venga l'econofisica. Ma non parliamo, per favore, di capire l'economia.
Se, d'altra parte, un analisi più specifica delle dinamiche economiche porta ad escludere quasi a priori la possibilità di descrizioni e previsioni quantitative (rivoluzione marginalista, soggettività del valore, assenza di equilibrio per "everchanging landscape"), non la si deve necessariamente considerare una prova di non-scientificità, proprio come la scientificità dell'evoluzione darwiniana non viene minimamente scalfita dal fatto che non si possano prevedere tempi e modi delle prossime speciazioni.
Del resto quali breakthrough ha portato l'econofisica all'economia? Si è forse riusciti a prevedere questa crisi apocalittica che dal 2008 ancora non ci fa vedere la luce fuori dal tunnel? Forse che le dinamiche che l'hanno determinata non erano quelle messe in conto dalle modellizzazioni meccanico-statistiche? Ma più in generale ancora, al di là dell'econofisica, quali sono i breakthrough dell'economia tout court? E' riuscita forse lei, anche senza meccanica statistica, a prevedere questa crisi? O non è forse stato proprio il suo approccio keynesiano a causarla? Non vorrei ripetere cose già dette, ma dov'è tutta questa "scientificità" dell'economia, se le diverse scuole non sono d'accordo su niente, se le varie teorie, pezzi sconnessi senza puzzle, si succedono come mode senza alcun percorso, senza alcuna "crescita" di conoscenza?
 
E allora io non so su quali basi Marco si sia fatto l'idea che la scuola austriaca non sarebbe scientifica: davvero gli è bastata la ridotta presenza di matematica? o forse si è basato sul fatto che venga generalmente considerata eterodossa, e dunque, evidentemente, non scientifica, da neoclassici e keynesiani, sedicenti scientifici?

17 March 2013

Democrazia /5 [era: La democrazia per la scienza]

Scopro più o meno per caso Infinite forme bellissime e meravigliose, blog fresco di nascita, su cui mi capita subito di leggere, in maniera del tutto scorrelata ma perfettamente in scia con gli ultimi miei post, che ci sarebbe una evidente e profonda differenza fra democrazia e dittatura della maggioranza. Ma forse il caso è solo apparente, perché il pretesto di quel post è lo stesso da cui era partito questo mio thread, ovvero il ruolo della democrazia per la scienza; fatto sta che mi s'offre, senza nemmeno chiederla, una risposta alternativa a chi invece si richiamava alle costituzioni per scongiurare le prevaricazioni della maggioranza e poter continuare a difendere la democrazia.
Tale risposta alternativa, però, è completamente sott'intesa e, almeno per me, tutta da chiarire: quale sarebbe la differenza, per non confonderle, fra democrazia e dittatura della maggioranza?
Per scongiurare il più possibile il rischio di passare per troll mi impegno in tutta la diplomazia di cui sono capace e mi arrischio ad un commento in calce al post. La diplomazia funziona, il rischio troll sembra scongiurato e segue nei commenti un interessante confronto. Provo a tracciarne un riepilogo qui, in modo da tenerne traccia nel filone democrazia.
 
Dunque la difesa della democrazia, in questo caso, prenderebbe la via della condivisione (chissà cosa sarebbe venuto fuori ad approfondire il tema della consapevolezza...). Obscura per obscuriora, per quanto mi riguardava, nonostante tale differenza venisse giudicata lampante da chi scriveva. Chiarito che il senso non era, banalmente, quello di maggioranza allargata, il più ampia possibile, emerge il concetto di "bene comune" come linea guida: le scelte veramente democratiche sarebbero quelle condivise nel senso di orientate al bene comune e non di una sola parte, fosse anche la maggioranza.
 
Tesi estremamente interessante, se non altro perché potrebbe essere il senso implicito di molte difese della democrazia, più di quello della costituzione di cui dicevo nell'altro post.
 
Esisterebbe dunque un criterio indipendente, rispetto a quello del voto, per giudicare la bontà (democraticità?) di una scelta politica: il bene comune.
Noto subito che, anche in questo caso, la difesa della democrazia passa attraverso il forte ridimensionamento del meccanismo di voto come elemento caratterizzante. Nel caso dei "costituzionalisti" — lasciatemi chiamare così, in questo discorso, coloro che sottolineano l'importanza della costituzione per giudicare "difendibile" una democrazia — il ridimensionamento potrebbe essere considerato parziale, sottolineando che il voto resterebbe l'unico meccanismo decisionale legittimo, pur nei limiti costituzionali. Nel caso della democrazia "per il bene comune", invece, il meccanismo di voto viene spogliato anche della sua circoscritta autonomia e su ogni sua decisione pende il giudizio di dittatorialità qualora non sia perseguito il bene comune.
L'unico modo che mi viene in mente per salvare la caratterizzazione della democrazia, in questo caso, è quello di sostenere che il voto sia un meccanismo privilegiato per l'individuazione del bene comune: quello di sostenere, cioè, che il voto rappresenterebbe il miglior meccanismo decisionale capace di far procedere la società verso scelte "per il bene comune".
Non conosco argomenti a favore di una simile tesi che vadano al di là di una concezione ingenua del consorzio umano; al contrario, è stata elaborata un'intera branca dell'economia, che va sotto il nome di public choice theory (che ha dato il Nobel a diversi economisti, fra cui il recentemente scomparso James M. Buchanan), la quale mette in evidenza precisamente gli innumerevoli incentivi, inerentemente connaturati al processo decisionale democratico, che portano inevitabilmente a scelte di parte, che favoriscono minoranze ben organizzate a danno di maggiornze capaci di diluire il danno a tal punto da rendere sconveniente l'attività di lobbying per rimediare a quel danno. Niente di più lontano, cioè, da un meccanismo di avvicinamento al bene comune.
 
Questo ordine di obiezioni, à la public choice, attaccano proprio quel genere di difese della democrazia che si rifugiano nella distinzione fra sistemi democratici, in concreto, e la democrazia ideale, in astratto.
Ma c'è un livello ancora più profondo su cui si possono muovere critiche ad una tale prospettiva: un livello che si lascia alle spalle quello pragmatico in cui ci si chiede se la democrazia sia efficace o meno per raggiungere il bene comune, ed è quello in cui si mette in discussione il concetto stesso di bene comune.
Ebbene, la mia tesi, la tesi dei libertari, è che non sia possibile, non dico definire, ma nemmeno delineare, un concetto di bene comune che non sia, in realtà, espressione di parte. Le preferenze, le scale di valori, sono inevitabilmente soggettive — di più, la stessa persona può, e molto spesso lo fa, cambiare preferenze nel corso del tempo; di più ancora, la stessa persona, nello stesso momento, assegna valori diversi a beni identici (cfr. rivoluzione marginalista). Ma anche senza scomodare i fondamenti della teoria del valore, l'idea che si possa, a tavolino, stabilire cosa è meglio per tutti, anche in un senso debole, paretiano, del termine, è un presupposto ingenuo, non solo in astratto, in contesti filosofici di ricerca delle fondamenta, o analogamente in contesti economico-matematico (e.g. di teoria dei giochi) di definizioni assiomatiche, ma anche e soprattutto in contesti concreti di scelte politiche reali.
La mia tesi, la tesi dei libertari, è che bisognerebbe spogliarsi della pretesa di poter decidere, noi presunti sapienti, cosa è bene per tutti, ed imporlo; è che bisognerebbe lasciare ad ognuno la libertà di fare le proprie scelte, con l'unico limite della stessa medesima libertà altrui, ovvero con l'unico limite del diritto.

21 February 2013

Democrazia /4

Il tweet dello Smeriglia che vedete qui di lato mi offre la sponda per ribadire che la democrazia, se dobbiamo difenderla, dev'essere qualcosa di diverso dalla mera legge della maggioranza (ma ancora nessuno è riuscito a spiegarmi cosa sarebbe).
 
Ma non è di questo che volevo parlarvi in questo post.
Il vero spunto per tornare a parlare di democrazie mi viene da questo articolo (su uno dei blog) del Post, Come vincere le elezioni con la tv, che recensisce NO, un film candidato all'Oscar che racconta del referendum del 1988 in Cile contro Pinochet. Io non so niente di storia, prendo per buono quel che si racconta in quel pezzo. E la storia che si racconta è una storia strana. Si intuisce che dovrebbe avere una morale, o almeno vorrebbe, ma non si riesce a capire quale. Tifiamo, ovviamente, per l'opposizione al regime dittatoriale, ma restiamo spiazzati dalla strategia adottata. La TV, il suo ruolo di strumento di evasione, ancor più in circostanze in cui evadere sembra avere il sapore dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, ancor più per noi italiani, reduci da un ventennio che non è nemmeno chiaro se sia finito o meno... la TV come circo del duo panem et circenses, dicevamo, è un po' l'emblema del male.
E infatti ci sono critiche alla tesi del film, dicono che non sia stata la TV a decretare il successo del referendum, anche se molti oppositori di Pinochet, allora, si spesero contro la partecipazione al voto, quale implicita legittimazione al dittatore.
Insomma, alla fine c'è il lieto fine, nel senso del risultato del referendum, ma è un lieto fine anche per la televisione? è un lieto fine per la democrazia?
 
Eppure dal mio punto di vista, direi dal punto di vista del libertario, è piuttosto evidente che tutte queste contraddizioni nascono semplicemente dall'ostinazione a voler difendere la democrazia, il voto, come qualcosa di sacro e salvifico, capace, da sola, di garantire pace e giustizia. Se ci si rende conto, invece, che si tratta di un meccanismo perverso di prevaricazione, che quel po' di giustizia e libertà che le società occidentali hanno raggiunto, rispetto ad altre epoche e ad altri luoghi, non sono il mero frutto della democrazia, ma sopravvivono nonostante essa, allora tutte quelle contraddizioni evaporano. Una campagna televisiva in stile pubblicitario può davvero spostare enormi masse di voti indipendentemente dalla direzione in cui le muove: la perpetrazione di Berlusconi da una parte, l'esautorazione di Pinochet dall'altra; le persone votano per mille ragioni diverse, ma quasi mai le ragioni principali sono la giustizia e l'equità sociale.
 
Non vi è nulla di magico, di nuovo, nel meccanismo di voto popolare, capace, da solo, di condurre ad una società migliore.

12 February 2013

Darwin Day

Quasi fuori tempo massimo, provo ad insistere nel tenere in vita la tradizione del Darwin Day, del tutto simbolicamente, limitandomi a qualche link.
E ho gioco facile, perché mi basta prendere come riferimento l'ottava edizione del carnevale della Fiera della biodiversità (secondo me in questi contesti il termine carnival non andava tradotto con carnevale...), questa volta ospitato dal Leucophaea di Marco Ferrari. Il quale, per l'occasione, firma anche un pezzo su Query Online, Ci stiamo evolvendo? che riprende proprio il tema di uno dei miei peraltro pochissimi post per il vecchio e ormai defunto progetto galileo, L’evoluzione dell’uomo si è fermata. Ma perchè, dove stava andando?.
In realtà di quest'ultima fiera della biodiversità non ho ancora fatto in tempo a leggere quasi niente, se non il contributo di Danilo Avi C’è più di un modo di essere su un’isola e i primi paragrafi del contributo di tupaia, Orribile insetto gigante risuscitato cerca casa accogliente (Dryococelus australis); ma potete precedermi sulla fiducia.

03 February 2013

Democrazia /3

Riprendo con questo post la discussione nei commenti al post precedente, riportando in particolare il mio personale percorso di lettura come risposta alla richiesta di Cristian di una possibile bibliografia d'attacco alle tematiche libertarie.
 
Essenzialmente ci sono due fronti su cui ci si può affacciare al tema: quello economico, da una parte, e dall'altra quello più propriamente etico e politico.
 
Sul fronte economico io sono partito con l'Economics for Real People di Callahan (se hai un ebook-reader, c'è anche una versione in PDF messa a disposizione dal Mises Institute), ed è stato in discesa sin dall'inizio. L'economia, secondo me, non è un fronte "caldo", non ci sono grossi pregiudizi da abbattere, c'è solo il grande vuoto di uno schema interpretativo coerente, capace di inquadrare quelli che altrimenti restano tanti modellini matematici più o meno scorrelati. La scuola austriaca provvede precisamente a questo, e il libro di Callahan ne costituisce una semplice introduzione, estremamente didattica. Proprio poco prima di Callahan avevo letto L'economista mascherato di Tim Harford — su suggerimento di Bressanini — e l'avevo trovato molto bello, esattamente come dice Dario. Ma dopo aver letto Callahan ti accorgi della differenza siderale: da una parte L'economista mascherato non ti lascia niente se non una serie di aneddoti e di spiegazioni di qualche meccanismo peraltro molto interessante (uno per tutti, il self pricing); dall'altra Callahan ti lascia uno schema interpretativo: la stessa differenza che c'è fra il donare pesci e l'insegnare a pescare.
 
L'altro fronte è senza dubbio il più delicato, e intraprenderlo sarà certamente un'esperienza tormentata (per questo il mio consiglio è comunque quello di partire con Callahan). Il problema, per quel che mi riguarda, è duplice: sia in astratto (la prospettiva è profondamente stravolta, i luoghi comuni da abbattere sono tanti e così radicati da non riuscire spesso nemmeno a riconoscerli come tali) che in concreto (non ho da suggerirti testi cristallini, con tesi condivisibili al 100% esposte con argomentazioni semplici e lineari).
I libri che hanno fatto seguito a Callahan sono quelli di Rothbard, L'etica della libertà e Per una nuova libertà, e quello di David Friedman L'ingranaggio della libertà (li ho tutti letti in prestito, ma di quest'ultimo di Friedman ne ho una copia che posso prestarti molto volentieri).
L'atteggiamento da mantenere è un po' quello di prepararsi ad assistere ad un attacco di sfondamento, mettendo in conto tutta la sua rozzezza. In particolare non dovrai pensare di trovarti davanti a dei trattati scientifici (né tantomeno al credo di una religione) con l'idea che si debba necessariamente accettare tutto in blocco e che dunque sia sufficiente il primo disaccordo per poter buttare all'aria tutto quanto.
Non lo ripeterò mai abbastanza: sono libri da costringersi con la forza a proseguire nella lettura; a partire dallo stile: sono opere scritte più di 30-40 anni fa, e certamente è un aspetto che si fa sentire. Ma anche nel merito delle questioni, spesso avrei da ridire — ancora adesso — sia sui metodi che sulle tesi. Tanto per dire: tutta la prima parte sul diritto naturale nelL'etica della libertà è piena, secondo me, di molte ingenuità a livello filosofico nella difesa del giusnaturalismo: anche qui, come in economia, partivo come una tabula rasa e ho dovuto integrare quei capitoli con le pagine di wikipedia sul positivismo giuridico (e lunghissime chiacchierate col mio amico-mentore) per inquadrare meglio il dibattito sul diritto e scoprire (molto, molto dopo) che sì, la posizione giusnaturalista, in fondo, è la mia, anche se certamente non per le ragioni descritte da Rothbard.
Ancora, non ricordo bene dove, Rothbard mantiene una posizione a difesa del diritto d'autore che non mi convince affatto.
E insomma, come dicevo, al di là delle varie tesi che si incontrano nel percorso, l'importanza di questi saggi è nell'usarli come arieti rispetto ai pregiudizi della "religione-stato" di cui non siamo nemmeno consapevoli di essere adepti. La loro importanza risiede soprattutto nel fatto che in essi vengono delineati degli scenari sociali che non devono necessariamente essere presi come l'unica alternativa ad una società democratica, ma che vanno considerati come la semplice dimostrazione che lo Stato non è l'unica possibilità: mi riferisco a tutte quelle cose — polizia, tribunali, giustizia, leggi — che non siamo nemmeno in grado di concepire senza uno Stato (o un dittatore). E l'effetto dirompente di queste letture non è tanto nel presentarci, in astratto, un concetto di diritto svincolato dall'istituzione statale, quanto proprio quello di mostrarci, concretamente, come potrebbe configurarsi, in maniera del tutto plausibile e consistente, una società in cui convivono diversi tribunali, diverse corti di giustizia, diversi copri di polizia, o agenzie di sicurezza, capaci non solo di catalizzare una convivenza sociale pacifica e una pacifica risoluzione dei conflitti, ma addirittura di offrire una di gran lunga maggiore (rispetto al caso democratico) garanzia per quei "deboli" di cui tanto spesso lo Stato si presenta, con grande illusione, come unico possibile difensore.

06 January 2013

Democrazia /2 [era: La democrazia per la scienza]

A volte commentare per iscritto in calce ad un post richiede più iniziativa, oltre che tempo e pazienza, che farlo a voce, en passant.
Sulla questione della democrazia, in particolare, ho avuto uno scambio di battute veloce (davanti ad una macchinetta del caffé, non davanti ad una birra).
Provo ad estrarne gli elementi più interessanti, senza pretendere di restare fedele alle posizioni, ché del resto non v'erano, chiare, delle posizioni.
In sintesi, si sollevava l'obiezione che la concezione di democrazia che attaccavo nel mio post fosse un po' un fantoccio argomentativo, perché — diamine! — era ovvio che non si potessero chiamare democrazia delle semplici decisioni prese a maggioranza, chessò (esempio tipico libertario, ma giuro che non l'ho tirato fuori io...!), di uccidere tutti gli appartenenti ad un'arbitraria minoranza.
E per fortuna!
Per fortuna delle minoranze, ovviamente, ma per fortuna anche della conversazione, perché con quell'osservazione aveva messo il dito precisamente nella piaga del concetto di democrazia: se non è la volontà della maggioranza a caratterizzare (e dare fondamento morale) alla democrazia... cosa lo è?
Il discorso, un po' confuso anche perché necessariamente breve per le contingenze dell'occasione, ha visto nominare il termine "costituzione" (che evidentemente fluttuava già nell'aria per via di recenti palinsesti della TV di stato), ma senza i lineamenti di un'argomentazione.
Personalmente, a voler difendere la "causa" della democrazia, avrei pronte delle riflessioni, i cui princìpî di base potrebbero essere racchiusi nella sfera semantica del termine "giusnaturalismo", ma — ovviamente col senno di poi — portano dritte dritte ad una società libertaria, non certamente "democratica".
Mi piacerebbe tanto, perciò, sentire voi, se avrete la pazienza, il tempo e l'iniziativa di commentare per iscritto: come vi muovereste da qui? riuscireste a tornare saldi sul concetto di democrazia? prendereste un'altra direzione? quale?

04 January 2013

back OLD YouTube!

Da un po' di tempo, non saprei dire bene da quando precisamente, YouTube ha cambiato interfaccia, peggiorando in maniera evidente la fruizione dei video di una playlist: prima la sequenza di video compariva in una banda orizzontale nella parte inferiore della pagina, permettendo di tenere sotto controllo la sequenza dei video della playlist; ora per poter accedere all'elenco dei video della playlist durante la riproduzione è necessario interagire all'interno della finestra del video in maniera estremamente poco pratica.
E poiché il mio uso principale di youtube è come player musicale di sottonfondo, capirete la seccatura.
Insperabilmente, attraverso un procedimento molto poco chiaro (perché mai hanno lasciato che un cookie fosse in grado di ripristinare la vecchia interfaccia? per quanto ancora questo trucco funzionerà? forse se molta gente metterà in pratica questo stratagemma, torneranno sui loro passi?) è possibile "tornare indietro" (quasi).
Una spiegazione passo-passo la si può trovare in questo video: How to Revert to the Old User Interface on Youtube (se non amo i podcast, non avete idea di quanto odî i vocast: perché mai dovrei perdere minuti e minuti davanti ad un video che cerca di spiegarmi qualcosa che impiegherei poche decine di secondi a leggere?), il succo è spiegato nella descrizione in calce a quello stesso video e consiste nell'impostare un particolare cookie.
Ho detto "quasi" perché ci sono alcuni glitch grafici non poco fastidiosi ma tutto sommato accettabili, di fronte all'alternativa della nuova interfaccia.
C'è anche uno userscript, I Want My Old YouTube Back ! (sic) che automatizza il tutto.
Se per caso vi pentiste del ritorno al passato e voleste tornare all'interfaccia corrente, mi sono preso la briga di creare uno script per ripristinare il valore di quel cookie: forth NEW YouTube!: in pratica è sufficiente scaricare quest'ultimo script e il suo speculare, back OLD YouTube!, ed abilitarne uno solo alla volta (altrimenti caricando una pagina di youtube si rischia di entrare in un loop di reload...) per poter decidere al volo quale interfaccia utilizzare.
Enjoy!